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martedì 17 dicembre 2013

F. CAMPEGIANI SU "L'APE E IL CALABRONE" DI C. CONSOLI

“L’ape e il calabrone”, di Carmelo Consoli
(Mangiaparole – 14/12/2013)

Un groviglio di Eros e Thanatos, questa nuova raccolta di Carmelo Consoli. Un magma incandescente di ferite dolorose e di tenerissimo amore. Un viluppo di struggenti emozioni. Scrive il poeta: “Di te Signore che ascolti il canto e a te domando / il mistero della vita, a te che mi donasti / l’amore tutto e tutto il dolore della terra”. Gli interrogativi si aggrumano intorno al mistero della vita che tutto dà e tutto toglie in ribaltamenti spiazzanti di elargizioni e privazioni. Si parla, nel libro, di un dono d’amore pieno e felice che all’improvviso viene rapito, annientato per la scomparsa di lei. Un colpo durissimo che viene incassato, assorbito e in qualche modo addirittura superato nel corso delle pagine che ci è dato di leggere. Lo stato d’animo che ci lascia la lettura è pertanto tragico e sereno nello stesso tempo.
“L’Ape e il Calabrone” – questo il titolo della raccolta, pubblicata dalle “Edizioni del Leone” con prefazione di Anna Balsamo e postfazione di Lia Bronzi – è un diario poetico scritto dall’autore a caldo, in diretta potremmo dire, in ospedale, al capezzale della moglie Franca, stroncata in tempi brevissimi da un male incurabile. Un grumo, pertanto, di Amore e Morte, e di Morte e Amore. Un canto metamorfico, modulato su questa trasformazione della gioia in dolore e del pianto in tenero sorriso. Un canto che si distingue dai poemi a senso unico, luttuosi, epicedici, a partire, potremmo dire, da quelli della tragedia classica: genere, questo, che per altri versi può venire utilmente accostato a “L’Ape e il Calabrone”, vuoi per la struttura ampia, distesa, poematica, vuoi soprattutto per il senso corale di un pianto di cui è partecipe l’intero universo.
Tuttavia le differenze sussistono e sono sostanziali. Pensiamo ad Orfeo, nume tutelare dei poeti metafisico-tragici. Cosa fa costui quando gli viene a mancare Euridice? Perde la fede nell’amore e impazzisce, si dispera. E cos’altro è, se non una disperazione d’amore, quella dei Trovatori occitanici, che proiettano l’amata in dimensioni evanescenti, lontane? Nell’amore per Euridice, e poi nell’amore rudelliano e trobadorico, ma ancora nell’Amor cortese, come nel clima del dolce Stil novo, per non parlare del Canzoniere petrarchesco e finanche dell’A Silvia leopardiana, non fa che affiorare in modi differenti l’irrealizzabilità del sogno d’amore. La donna è assente e irraggiungibile nella poesia orfica in generale, laddove, al contrario, la Penelope omerica è raggiungibile, sia pure al prezzo di inimmaginabili peripezie, di sconfitte e naufragi disastrosi.
Ebbene, qualcosa di analogo avviene ne “L’Ape e il Calabrone”, dove la perdita e l’assenza, che pure incombono funeste sulla scena, possiedono valenze dinamiche straordinarie, capaci di evocare per contrasto la presenza di lei, cercandola e trovandola nell’oltre, più in là, addirittura in dimensioni ultramondane. Scrive il poeta, dopo la scomparsa: “Dove sei? / Forse nel cuore verde ocra del bosco, / nelle viscere preziose di Romagna, / dentro la polpa rosa delle pesche, / nell’anima vermiglia dei ribes, / tra gli acini dell’uva asprigna? / Da dove sorridi?”. Così egli scrive, e dall’eterno gli giunge un sussurro: “Non devi piangere, né maledire il male oscuro, / il mostro che mi divorò il corpo. Sii felice. / … / Sappi che qua nulla è cambiato della terra che sognammo, / lo stesso orizzonte arcobaleno, l’uguale fragranza dei giardini / c’è nella luce che ora m’avvolge”.
Illusioni, si dirà, e si è liberi di pensarlo. Ma io mi chiedo: può essere definito realmente illusorio ciò che aiuta a vivere, ad immergersi con equilibrio nella vita reale? Io direi che ciò che giova alla realtà non può che essere consono alla realtà; e dunque della stessa natura: esso stesso reale. Che cosa accade al lettore, dopo avere pianto insieme all’autore, al termine di queste pagine? Egli finisce per sentirsi rinfrancato, rinnovato, pronto a tuffarsi nuovamente nell’avventura della vita. Un pianto, dunque, catartico, purificatore. Una liberazione, una levità che aiuta nella lotta quotidiana. “Se verrai da me leggerezza di libellula”, scrive il poeta rivolto alla donna oramai deceduta, “leggerai questi versi per farne lacrime di stelle, / stille di paradiso, liriche disperate / per il coro di bianchi serafini”. Ecco il nero ed il bianco che si affratellano, ecco l’amaro calice che diviene droga di serenità universale.
È stupefacente vedere come il poeta riesca a metabolizzare un così atroce dolore. Egli è certamente un uomo di fede, ma di una fede non convenzionale, occorre dire. Di una fede non  esteriore o conformista, scontata, che al primo soffio di vento scompare, bensì di una fede autentica, costruita sulla roccia dei dubbi e della macerazione interiore. Una fede non fideistica, non ereditata o copiata, ma costruita in prima persona. Ed ecco il terreno su cui nasce questa canzone epica a sfondo amoroso. Un racconto di gesta eroiche i cui protagonisti, nel sacrificio estremo, riescono ad aprire le porte di cieli tersi e azzurri paradisi. C’è l’epopea di Ulisse, come già detto, ma anche quella di Giobbe, personaggio biblico parallelo all’eroe omerico per la mitica e leggendaria pazienza di fronte alle sventure.
E c’è l’urlo di Cristo sulla Croce. Ascoltiamolo: “Dove sei Dio del miracolo, / del mattino felice, / delle stelle diamantine? / In quale lontana galassia piangi / o sorridi per il mio lamento? / Tu dove sei in tanto scempio? /… / Senza Te, senza la mia Eva morente / dov’è il miracolo, qual è la vita?”. E tuttavia sia fatta la tua volontà, non la mia: alla fine l’accettazione prevale e, scrive Consoli, tutto sia fatto “così come Dio radioso volle per noi / nel suo disegno di terre e acque, / di stagioni e avventure misteriose”. C’è davvero un che di biblico, oltre che di classico, in questa poesia dove a cantare è il mistero stesso dell’amore, preso tra sconfitte e vittorie, tra luci e tenebre fuse tra di loro. Un amore che, mutuando le parole dall’autore, viene “dalle viscere profonde e dalle passioni eterne”, dando corpo a una poesia che si snoda fra lune, stelle, soli, cieli e terre, in evoluzioni cosmiche.
Un verseggiare dinamico, tutt’altro che contemplativo o ascetico. Un canto che si distende, si dipana, si apre. Un canto estroverso, in azione, e niente affatto criptico. Non chiuso nell’io, non autoreferenziale, nonostante racconti una vicenda autobiografica di dolore profondo. Un canto del divenire, dello svolgersi, del trasformarsi, del  porsi in gioco dell’essere, nonostante si parli in continuazione di amore eterno: “Furono venti, stagioni, piane dorate, cime innevate / ad unirci nel destino degli amori eterni”. La sensazione che si riceve leggendo è quella di un moto perenne, di un rincorrersi di onde e mareggiate tempestose, di un accavallarsi e capovolgersi affannoso di eventi in dolorosa e vitale mutazione. Una cangianza, una mutevolezza, un infinito morire delle cose, che tuttavia non riesce a cancellare la struttura incrollabile dell’essere eterno.
Con il suo diario, il poeta si reca ogni giorno al capezzale della propria donna morente, quasi annullandosi e lasciando che la cronaca del naufragio si scriva da sé, in un procedere incalzante di eventi incresciosi che non lasciano spazio, né tempo per alcuna riflessione. Il destino, o il mistero avanza inesorabile. In meno di un mese (siamo nel giugno 2009), tra un via vai ospedaliero di “profeti bianchi” impotenti, si giunge all’epilogo. E’ tutto un movimento vorticoso: “Odissea pronto soccorso. / Speranze a diagrammi. Verticali preghiere. / Gli altri accanto: un mondo di parole sottovoce /…/ L’assassino svelato!”.
E poi: “Ambulanze a sirene spiegate. /… / Calvario di un giugno maledetto /… / arrivare, ripartire, ritornare, sapere, / sperare, illudersi, pregare”. “Terzo piano, stanza trecentoventi /… / Ti lascio tra liquidi bianchi, gialli, avorio. “Tutto inutile, radiografie, tac, ecografie / e ancora inutili torture /… / Ma tu fiore di campo sfiorisci, / troppo sfiorisci e in fretta /… / Gli occhi sempre più gialli, sempre più tristi”. “Sorridi fata meraviglia di orti e giardini, / non devi morire. / Non è questa la tua sorte di umori maligni, / non è il grigio né il bianco di un letto d’ospedale”. Ma giunge la sentenza, assurda, irrevocabile. Ed è la fine di una dolce esistenza dedicata all’amore e al sorriso.
È lecito, a questo punto, parlare di amore eterno, se – come appare con tutta evidenza – esso è mortale e caduco, passeggero? L’amore transita lungo le stagioni della vita e come la vita è destinato a soccombere, a sparire; oppure si raccoglie in segrete e profumate, edeniche regioni d’armonia? Il nostro poeta ha fede e nel sogno di cui abbiamo parlato, gli sembra di udire il sussurro dell’amata: “Quassù si sta nel tempo che videro la vita i nostri cuori candidi / un sogno lungo senza fine di promesse, sguardi. /… / Adesso sono tornata uguale ad allora esile e bionda, / gonna corta di grano e girasoli, seni di pesca”. Nella dimensione temporale, gli amori possono durare un’ora come cento anni. L’eternità è un solo attimo, dove si deposita la purezza e l’intensità, l’essenza dell’uomo e del vissuto umano.
Si può credere o non credere in questa luce che si raccoglie fuori dal tempo, ma di essa il tempo ha certamente bisogno per attingere linfa vitale. Un sogno, dunque, o più di un sogno, il sussurro che giunge al poeta dall’amata? Chi può dirlo? Nessuno. E tuttavia nel sogno risiede anche la verità, non solo l’illusione. Sta a noi separare il grano dalla pula. Il sogno che illude è quello che allontana ed esilia dalla vita, ma c’è un sogno che invece conduce nell’onda e nel cuore più vivo della vita. Un sogno da cui la realtà non può e non vuole essere abbandonata, perché senza di esso inaridisce e si spiuma. Carmelo Consoli, in questo canto d’amore e morte, ma di morte e di vita, ci fa dono di questa speranza, di questa ricchezza preziosa e rara. Non possiamo che essergli grati.


                                              Franco Campegiani     



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