“L’ape
e il calabrone”, di Carmelo Consoli
(Mangiaparole
– 14/12/2013)
Un groviglio di Eros e Thanatos, questa nuova raccolta di Carmelo Consoli. Un magma
incandescente di ferite dolorose e di tenerissimo amore. Un viluppo di
struggenti emozioni. Scrive il poeta: “Di te Signore che ascolti il canto e a
te domando / il mistero della vita, a te che mi donasti / l’amore tutto e tutto
il dolore della terra”. Gli interrogativi si aggrumano intorno al mistero della
vita che tutto dà e tutto toglie in ribaltamenti spiazzanti di elargizioni e
privazioni. Si parla, nel libro, di un dono d’amore pieno e felice che
all’improvviso viene rapito, annientato per la scomparsa di lei. Un colpo
durissimo che viene incassato, assorbito e in qualche modo addirittura superato
nel corso delle pagine che ci è dato di leggere. Lo stato d’animo che ci lascia
la lettura è pertanto tragico e sereno nello stesso tempo.
“L’Ape e il
Calabrone” – questo il titolo della raccolta, pubblicata dalle “Edizioni del
Leone” con prefazione di Anna Balsamo e postfazione di Lia Bronzi – è un diario
poetico scritto dall’autore a caldo, in diretta potremmo dire, in ospedale, al
capezzale della moglie Franca, stroncata in tempi brevissimi da un male
incurabile. Un grumo, pertanto, di Amore e Morte, e di Morte e Amore. Un canto
metamorfico, modulato su questa trasformazione della gioia in dolore e del
pianto in tenero sorriso. Un canto che si distingue dai poemi a senso unico,
luttuosi, epicedici, a partire, potremmo dire, da quelli della tragedia classica:
genere, questo, che per altri versi può venire utilmente accostato a “L’Ape e
il Calabrone”, vuoi per la struttura ampia, distesa, poematica, vuoi
soprattutto per il senso corale di un pianto di cui è partecipe l’intero
universo.
Tuttavia le
differenze sussistono e sono sostanziali. Pensiamo ad Orfeo, nume tutelare dei
poeti metafisico-tragici. Cosa fa costui quando gli viene a mancare Euridice?
Perde la fede nell’amore e impazzisce, si dispera. E cos’altro è, se non una
disperazione d’amore, quella dei Trovatori occitanici, che proiettano l’amata
in dimensioni evanescenti, lontane? Nell’amore per Euridice, e poi nell’amore
rudelliano e trobadorico, ma ancora nell’Amor
cortese, come nel clima del dolce
Stil novo, per non parlare del Canzoniere
petrarchesco e finanche dell’A Silvia leopardiana,
non fa che affiorare in modi differenti l’irrealizzabilità del sogno d’amore.
La donna è assente e irraggiungibile nella poesia orfica in generale, laddove,
al contrario, la Penelope
omerica è raggiungibile, sia pure al prezzo di inimmaginabili peripezie, di
sconfitte e naufragi disastrosi.
Ebbene, qualcosa di
analogo avviene ne “L’Ape e il Calabrone”, dove la perdita e l’assenza, che
pure incombono funeste sulla scena, possiedono valenze dinamiche straordinarie,
capaci di evocare per contrasto la presenza di lei, cercandola e trovandola
nell’oltre, più in là, addirittura in dimensioni ultramondane. Scrive il poeta,
dopo la scomparsa: “Dove sei? / Forse nel cuore verde ocra del bosco, / nelle
viscere preziose di Romagna, / dentro la polpa rosa delle pesche, / nell’anima
vermiglia dei ribes, / tra gli acini dell’uva asprigna? / Da dove sorridi?”.
Così egli scrive, e dall’eterno gli giunge un sussurro: “Non devi piangere, né
maledire il male oscuro, / il mostro che mi divorò il corpo. Sii felice. / … /
Sappi che qua nulla è cambiato della terra che sognammo, / lo stesso orizzonte
arcobaleno, l’uguale fragranza dei giardini / c’è nella luce che ora
m’avvolge”.
Illusioni, si dirà, e
si è liberi di pensarlo. Ma io mi chiedo: può essere definito realmente
illusorio ciò che aiuta a vivere, ad immergersi con equilibrio nella vita
reale? Io direi che ciò che giova alla realtà non può che essere consono alla
realtà; e dunque della stessa natura: esso stesso reale. Che cosa accade al
lettore, dopo avere pianto insieme all’autore, al termine di queste pagine?
Egli finisce per sentirsi rinfrancato, rinnovato, pronto a tuffarsi nuovamente
nell’avventura della vita. Un pianto, dunque, catartico, purificatore. Una
liberazione, una levità che aiuta nella lotta quotidiana. “Se verrai da me
leggerezza di libellula”, scrive il poeta rivolto alla donna oramai deceduta,
“leggerai questi versi per farne lacrime di stelle, / stille di paradiso,
liriche disperate / per il coro di bianchi serafini”. Ecco il nero ed il bianco
che si affratellano, ecco l’amaro calice che diviene droga di serenità
universale.
È stupefacente vedere
come il poeta riesca a metabolizzare un così atroce dolore. Egli è certamente
un uomo di fede, ma di una fede non convenzionale, occorre dire. Di una fede
non esteriore o conformista, scontata,
che al primo soffio di vento scompare, bensì di una fede autentica, costruita
sulla roccia dei dubbi e della macerazione interiore. Una fede non fideistica,
non ereditata o copiata, ma costruita in prima persona. Ed ecco il terreno su
cui nasce questa canzone epica a sfondo amoroso. Un racconto di gesta eroiche i
cui protagonisti, nel sacrificio estremo, riescono ad aprire le porte di cieli
tersi e azzurri paradisi. C’è l’epopea di Ulisse, come già detto, ma anche
quella di Giobbe, personaggio biblico parallelo all’eroe omerico per la mitica
e leggendaria pazienza di fronte alle sventure.
E c’è l’urlo di
Cristo sulla Croce. Ascoltiamolo: “Dove sei Dio del miracolo, / del mattino
felice, / delle stelle diamantine? / In quale lontana galassia piangi / o
sorridi per il mio lamento? / Tu dove sei in tanto scempio? /… / Senza Te,
senza la mia Eva morente / dov’è il miracolo, qual è la vita?”. E tuttavia sia fatta la tua volontà, non la mia:
alla fine l’accettazione prevale e, scrive Consoli, tutto sia fatto “così come
Dio radioso volle per noi / nel suo disegno di terre e acque, / di stagioni e
avventure misteriose”. C’è davvero un che di biblico, oltre che di classico, in
questa poesia dove a cantare è il mistero stesso dell’amore, preso tra
sconfitte e vittorie, tra luci e tenebre fuse tra di loro. Un amore che,
mutuando le parole dall’autore, viene “dalle viscere profonde e dalle passioni
eterne”, dando corpo a una poesia che si snoda fra lune, stelle, soli, cieli e
terre, in evoluzioni cosmiche.
Un verseggiare
dinamico, tutt’altro che contemplativo o ascetico. Un canto che si distende, si
dipana, si apre. Un canto estroverso, in azione, e niente affatto criptico. Non
chiuso nell’io, non autoreferenziale, nonostante racconti una vicenda
autobiografica di dolore profondo. Un canto
del divenire, dello svolgersi, del trasformarsi, del porsi in gioco dell’essere, nonostante si
parli in continuazione di amore eterno: “Furono venti, stagioni, piane dorate,
cime innevate / ad unirci nel destino degli amori eterni”. La sensazione che si
riceve leggendo è quella di un moto perenne, di un rincorrersi di onde e
mareggiate tempestose, di un accavallarsi e capovolgersi affannoso di eventi in
dolorosa e vitale mutazione. Una cangianza, una mutevolezza, un infinito morire
delle cose, che tuttavia non riesce a cancellare la struttura incrollabile
dell’essere eterno.
Con il suo diario, il
poeta si reca ogni giorno al capezzale della propria donna morente, quasi
annullandosi e lasciando che la cronaca del naufragio si scriva da sé, in un
procedere incalzante di eventi incresciosi che non lasciano spazio, né tempo
per alcuna riflessione. Il destino, o il mistero avanza inesorabile. In meno di
un mese (siamo nel giugno 2009), tra un via vai ospedaliero di “profeti
bianchi” impotenti, si giunge all’epilogo. E’ tutto un movimento vorticoso:
“Odissea pronto soccorso. / Speranze a diagrammi. Verticali preghiere. / Gli
altri accanto: un mondo di parole sottovoce /…/ L’assassino svelato!”.
E poi: “Ambulanze a
sirene spiegate. /… / Calvario di un giugno maledetto /… / arrivare, ripartire,
ritornare, sapere, / sperare, illudersi, pregare”. “Terzo piano, stanza
trecentoventi /… / Ti lascio tra liquidi bianchi, gialli, avorio. “Tutto
inutile, radiografie, tac, ecografie / e ancora inutili torture /… / Ma tu
fiore di campo sfiorisci, / troppo sfiorisci e in fretta /… / Gli occhi sempre
più gialli, sempre più tristi”. “Sorridi fata meraviglia di orti e giardini, /
non devi morire. / Non è questa la tua sorte di umori maligni, / non è il
grigio né il bianco di un letto d’ospedale”. Ma giunge la sentenza, assurda,
irrevocabile. Ed è la fine di una dolce esistenza dedicata all’amore e al
sorriso.
È lecito, a questo
punto, parlare di amore eterno, se – come appare con tutta evidenza – esso è
mortale e caduco, passeggero? L’amore transita lungo le stagioni della vita e
come la vita è destinato a soccombere, a sparire; oppure si raccoglie in
segrete e profumate, edeniche regioni d’armonia? Il nostro poeta ha fede e nel
sogno di cui abbiamo parlato, gli sembra di udire il sussurro dell’amata:
“Quassù si sta nel tempo che videro la vita i nostri cuori candidi / un sogno
lungo senza fine di promesse, sguardi. /… / Adesso sono tornata uguale ad
allora esile e bionda, / gonna corta di grano e girasoli, seni di pesca”. Nella
dimensione temporale, gli amori possono durare un’ora come cento anni.
L’eternità è un solo attimo, dove si deposita la purezza e l’intensità,
l’essenza dell’uomo e del vissuto umano.
Si può credere o non
credere in questa luce che si raccoglie fuori dal tempo, ma di essa il tempo ha
certamente bisogno per attingere linfa vitale. Un sogno, dunque, o più di un
sogno, il sussurro che giunge al poeta dall’amata? Chi può dirlo? Nessuno. E
tuttavia nel sogno risiede anche la verità, non solo l’illusione. Sta a noi
separare il grano dalla pula. Il sogno che illude è quello che allontana ed
esilia dalla vita, ma c’è un sogno che invece conduce nell’onda e nel cuore più
vivo della vita. Un sogno da cui la realtà non può e non vuole essere
abbandonata, perché senza di esso inaridisce e si spiuma. Carmelo Consoli, in
questo canto d’amore e morte, ma di morte e di vita, ci fa dono di questa
speranza, di questa ricchezza preziosa e rara. Non possiamo che essergli grati.
Franco Campegiani
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