Blu di
Prussia editrice. Piacenza. 2014. Pp. 89
Nazario Pardini
Intelligente
ed oculata operazione dell’editore Eugenio Rebecchi quella di inserire come
apri collana di saggistica il nome di un esegeta di autoptica valetudine quale
quello di Sandro Angelucci. Scrittore ritenuto, ormai, fra i più quotati nel
diorama critico e poetico della letteratura contemporanea. Un autore di metodo.
Un filologo innanzitutto. Egli parte dal testo, lo fa suo, lo frantuma, e lo
ridà alla pagina critica sistematicamente ricomposto sotto ogni aspetto
significante: une explication de texte.
Un ermeneuta di grande portata intellettuale aiutato da un articolato
linguistico di perspicacia sapidità disvelatrice. Ma ciò che distingue questo
autore dal vero ermeneuta, è l’anima poetica. Egli legge, misura, incamera, tiene
in seno gli aspetti più reconditi del poièin, per far ri-vivere, ri-nascere, per
ri-animare il pezzo verniciandolo di una vis
creativa che va in cerca della melodia nei nessi verbali, del mistero nel
naturismo, di quella eguaglianza fra fenomenologia panica e cospirazioni
emotive, essenziale condizione per una vera resa artistica. Non si sofferma
solo sull’aspetto tecnico e formale della diegesi - anche questo fa naturalmente
– ma partorisce una nuova opera d’arte pepata della sua ars inveniendi.
Insomma il suo metodo critico funziona
così: aggredisce il testo con tutta la sua curiosità estetica. E, di seguito, motivato
dalla grande sensibilità che lo rende personale, allaccia uno schietto dialogo,
un attento confronto con l’autore di cui si occupa. Ne acquisisce ogni
sfumatura, ogni particolarità, ma, soprattutto, ne individua il valore e la
bellezza. Ed è questo che emerge chiaramente dal saggio del Reatino: la prevalenza
dell’aspetto estetico su quello essenzialmente critico. E le pagine si contornano
di attenzioni ad espansioni allusive, ad
azzardi fonici che amplificano la parola; che la forzano sintatticamente, anche,
con similitudini naturistiche di grande effetto per indagare sull’humanitas dell’atto poetico, sulla
dualità fra “terrenità” e atto spirituale. Perché in fondo è dalla
contrapposizione di due poli e dal combinarsi dei loro opposti che la poesia estende
lo sguardo umano ad una palingenesi di rinnovamento spirituale, secondo il
Nostro. E qui, in “di Rescigno il
racconto infinito”, il critico dimostra tutta la sua portata umanistica,
tutta la sua sapientia scribendi, e
quel che più conta, tutta la sua
capacità analitico-introspettiva e psicologica nel trattare la poesia.
Ma mi piace mettere subito in evidenza, a conferma di quello che abbiamo
antecedentemente scritto sulla presenza del poeta e della sua creatività, un passo
prodromico di grande rilevanza: “Così, ho issato le vele e, sospinto da un
vento stabile e temperato, ho avuto la netta sensazione che un respiro lungo e
profondo si fosse sostituito al mio permettendomi non soltanto di navigare ma
soprattutto, appunto, di respirare. Ho avvertito
nell’aria la presenza di un qualcosa di meno effimero che, in qualche modo,
rovesciava la calma piatta della bonaccia”. Uno sperdimento totale nei venti sapidi
di salmastri vagabondi. Sembra che Angelucci ci voglia scuotere, e, prendendoci
per il bavero, fin dagli inizi, ci voglia dire: “Bada bene, lettore, io sono
poeta! Io sono il poeta Angelucci!” e sembra proprio che ce lo confermi
affidandosi ad una natura gentile e mansueta disposta a rivelare la sua identità;
tutto il suo pathos. La sua ricerca
parallela all’intimità di Rescigno. Questo è Angelucci. Non solo la ama, la
natura, ma ne fa un motivo di slancio generoso per avvicinarsi il più possibile
a quella verticalità di cui egli conosce i brividi. In fin dei conti per scrivere
un libro di tale portata, di ben 90 pagine, diviso in 4 capitoli – Una rapida carrellata, Il respiro del sole,
Il racconto infinito, Un sogno senza mèta – io credo che non sia
sufficiente solo leggere ed interpretare, ma che occorra, soprattutto, una
certa confluenza umana: conoscere l’autore, i suoi principi basilari, il suo
rapporto con la vita, la morte, i suoi travagli, le sue speranze: l’uomo insomma.
E da queste pagine trasuda, oltre naturalmente al valore poetico di Rescigno,
la persona, la sua abnegazione per questa antica arte, il suo credo. Tanto è
vero che, spesso, mi ha ripetuto: “Bisogna coltivare il seme per far crescere
bene la pianta”. Anche queste parole sono indicative per capire il lavoro e la
passione che vi dedica. Come è emblematico quello che il critico afferma
sull’uso della parola da parte del poeta: “Il tempo ha preso a correre con una
velocità sorprendente… lasciando apparire ciò che c’è ma sfugge alla vista
limitata del nostro essere mortali… la sua parola non si fa imprigionare: si
svincola da ogni legame…”. Sono qui i fondamentali della poetica di Rescigno: nel
senso eracliteo del tempus fugit, leitmotiv che inanella tutta una vicenda
che va in cerca dei perché del nostro essere ed esser-ci. Ed egli, per vincere
questa inquietudine, leva lo sguardo al cielo, leva lo sguardo all’oltre e
cerca di sconfiggere gli artigli annichilenti del tempo. E lo fa con una parola
libera, appunto, svincolata da ogni legame morfosintattico, duttile, che possa azzardare
sguardi allusivi verso l’ultra/umano. Verso spazi indefiniti, infinitamente estesi,
inarrivabili per lasciare tutto in sospeso, per non profanare il mistero della
poesia stessa. Un procedere emotivo e metodico, quindi, quello del critico. Ma
sembra proprio che l’aspetto sentimentale, quello delle affinità elettive,
abbia ragione sul percorso raziocinante. E la ricerca è indirizzata verso obiettivi
precisi: il lirismo panico, l’esistenzialismo naturistico, la sinfonia ed il
significante metrico del canto, il tema del suo mistero, le figure stilistiche in
funzione di tali obiettivi, la storia di un’anima che fa del verbo una
scalinata con cui elevarsi il più possibile all’inarrivabile: una
ricerca che verte, soprattutto, sulla proposta di un futuro di rinascita palingenetica.
Ma il critico dà un taglio tutto suo al dipanarsi della vicenda. Vede nel poeta
la propria poesia, i propri meccanismi rigeneranti, la propria visione di mitopoiesi epifanica,
tanto che le sue pagine si staccano spesso dalla pura autoptica esegesi per farsi
vero grido di abbrivo lirico: “Una parola, dunque, che apre la sua valigia di
cartone e tira fuori tutto il contenuto, anche i sogni che non si vogliono
raccontare, che sono custoditi nel fondo come tesori: e bisogna avere le unghie
buone per cavarli dal terreno come facevano coloro che “rincasavano col crepuscolo sulle spalle” imprecando “perfino contro il sole”, e tenerlo “tra i
denti”, Dio, per imparare a sognare”.
Ottima distribuzione testuale, quindi. Analisi
attenta e meticolosa, che è frutto del suo labor
limae. D’altronde è la parola il corpo dell’anima. E la poesia è anima,
anima che tende ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero; è categoria
dello spirito, amor amoris; è questo
che Angelucci pensa ed è questo di cui va in cerca. E trova un terreno adatto
per sfogare le sue emozioni: lo trova nelle esplosioni emotive generate in Rescigno
dal suo perpetuo proiettarsi oltre la siepe. Perché è lì che il critico gioca
tutto il suo acume, è in quel terreno che sboccia l’azzardo verticale del suo
dire. Proprio due misure che si equivalgono, direi, una simbiotica fusione di
anime che dà come frutto una ermeneutica trattazione di perspicua acribia, di
associazione di intenti emozionali; ma anche una speculare configurazione, e un
redditizio sperdimento nelle acque sorgive di questo poema, della sua complessa
semplicità. E se Angelucci ricorre al poeta russo Sergej Esenin, alla sua
semplicità espressiva, alle sue radici contadine, alla sua simbologia di una Russia
celeste che va oltre il fatto poetico per farsi mito, vi ricorre con
grandissima proprietà intuitiva – e meglio non poteva scegliere – per
concretizzare e rendere ancora più visivo il contatto che c’è fra lo slancio
del cuore di Rescigno ed un mondo d’indefiniti stupori. E’ qui la scoperta
dello scrittore di Rieti, in questi versi, perché li ha trovati suoi, e li ha
ridati alla luce venati della sua stupefazione. E questo risalta, come nota
efficacemente positiva, dalla sicurezza del ductus
narrativo. Dalla distribuzione dei nodi focali trattati. Perché quegli obiettivi
programmati, distribuiti su sequenze strettamente connesse, Angelucci li
persegue dando unità e compattezza alla sua diagnosi. Poeta su poeta. Poesia su
poesia: spinte emotive, strappi allusivi, fughe e ritorni, ma, soprattutto, individualizzazione
di quelle inquietudini umane che rendono la poesia di Rescigno insofferenza
universale. Insofferenza di vivere in spazi ristretti, di appartenere al
terreno con un animo rivolto all’azzurro. Insofferenza di tutte le sottrazioni
della nostra vicissitudine, alleviata, in parte, da sperdimenti in vaghezze
paniche, o in memorie che sanno tanto di riposo edenico. Ed Angelucci, con
acribia critica e sensibilità poetica, mette bene in evidenza questo aspetto
fondamentale, riportando, integralmente, una delle poesie più emotivamente
contaminanti del poeta: “Basta una parola che carezza/ un’altra che fa male/
uno schiaffo d’onda/ un calcio di vento alla porta/ un tuono ch’è tremore
d’anima./ Basta un fischio di merlo a una foglia/ un petalo per una farfalla./
E’ così che qualcuno/ ti prende per mano e sei partito.”, e commenta così: “Domandiamocelo
pure: chi è questa misteriosa entità? E’ Dio? E’ la Natura? E’ la vita? Forse è
tutto questo insieme ma non si presta a farsi definire perché, restando
nell’anonimato, si rivela, scioglie ogni dubbio e rende attuabile un disegno a
lunga scadenza – meglio: senza scadenza -, per le nostre ristrette possibilità
di difficile se non impossibile comprensione”. Ed io aggiungerei di difficile
soluzione.
In
una mia recensione a un testo di Rescigno dal titolo Nessuno può restare ebbi a concludere:
“… É così
che Rescigno riesce a staccarsi dai dolori della vita. Dal terreno. Portandosi
dietro, però, in un viaggio verso il cielo, le cose più preziose del suo mondo.
E vola con nell’anima Dio, l’impronta dell’amore, e con negli occhi il mare.
<<Partirò
con un pugno
di terra
in tasca
e il mare
negli occhi.
Lì non
hanno terra i campi
e sono
senz’acqua i mari.>>
(Il mare negli occhi. Pp. 82).
<<L’anima:
terra di domani.
Soltanto
il vomere di Dio la solca.>>”
(Il vomere di Dio. Pp. 83).
Ed è così che mi piace concludere.
Nazario Pardini
Ha ragione il Prof. Pardini nel sottolineare che le qualità poetiche di Angelucci affiorano anche nella sua opera di critico letterario. Conosco bene il modo di operare di Sandro e posso garantire che egli ha assolutamente bisogno, per scrivere, di sentirsi ispirato. Questo testo sull’opera di Gianni Rescigno comprova ampiamente l’assunto: sono ottanta pagine in cui, dalla prima all’ultima riga, ci si trova immersi in una corrente di ampia ed elevata potenza emotiva. Ed è questo, a mio parere, il lavoro che il critico è chiamato a fare. Non esiste una critica “oggettiva”, scientifica, ma esiste la pura e semplice comunicazione della risonanza che una determinata opera può avere nell’universo interiore del critico, il quale comunque interpreta secondo la propria vibrazione interiore. Da qui la sconfinata gamma delle possibilità interpretative. Soggettivismo? Psicologismo? Al contrario, tendenza a cogliere le valenze davvero universali dell’opera creativa, che è sempre antischematica e non può venire racchiusa in un’unica possibilità interpretativa.
RispondiEliminaHa scritto il filosofo Bruno Fabi in “Il Tutto e il Nulla”, opera fondamentale dell’Irrazionalismo sistematico: “E conclusi con ciò che poteva sembrare un paradosso, e non lo era: che il critico, per essere veramente tale, doveva essere egli stesso artista; che la pretesa obiettività del critico non artista, di cui si faceva forte la schiera dei più, era obiettività razionale, e cioè superficiale e relativa valutazione di quanto si sottraeva ad ogni giudizio, ad ogni confronto, ad ogni obiettivazione, mentre la rara qualità di artista nei critici d’arte, in quanto sensibilità al tutto, era universalità, e dunque obiettività in senso totale, vera obiettività, come possibilità per il bello di risorgere costante, oltre che dall’opera dell’artista, dall’opera del critico come artista”. Posso personalmente assicurare i lettori di questo blog che le più belle pagine di critica d’arte che a me sia capitato di leggere sono state quelle di Baudelaire sulla poetica di Delacroix.
Franco Campegiani