Patrizia Stefanelli: Guardami. RUPE MUTEVOLE EDIZIONI. 2014. € 12
PREFAZIONE
Sottrarsi ai vincoli della terrenità per guardare l’azzurro
Una vita
Mi vedo,
in paesaggio nebbioso di fine ottocento
camminare su file di ciottoli
ad argine poggiati
dal tempo vissuto
unica occasione
passaggio.
Di spalle con lunghi
capelli, verso la casa che sbuffa vapore, vicino lo steccato col campanile sul
fondo.
Senza giri ne rigiri la
mente distraggo al passo e mi ritrovo bambina, piccole orme dentro orme,
il naso rosso di freddo e
la sciarpa del babbo sulla testa perché il cappello mi stava sempre stretto.
Odori riascolto di memoria
soltanto sopita, di dopobarba
al muschio selvatico come il muschio
che tocco con le dita.
Foglie, gialle e secche e morte e vive,
piccole zattere alla deriva del fiume
o forse all’approdo
in un paesaggio nebbioso
di fine ottocento.
Fantasia d’amore, Fantasia di viaggio i due sottotitoli di
una silloge dal titolo Guardami che ingloba nella sua estensione polisemica il sentimento più
nobile dell’anima umana: l’amore. L’amore erotico, ma soprattutto l’amore
plurale: per i figli, per i cari, per il compagno, per la vita, per la natura, per il tutto. E la poetessa ricorre a
stratagemmi lessicali che vanno oltre la sintassi stessa, oltre gli ordini
canonici della grammatica, perché ha bisogno di spazi, sente la necessità di
affrancarsi ricorrendo a peripezie verbali di grande impatto lirico/armonico. Sente
il bisogno di cantare un viaggio, quello della vita, odissaico, con tutti i
patemi che quella comporta. Un viaggio zeppo di riflessioni, sensazioni,
osservazioni, emozioni, scottature, e arrampicate verso soglie che demarcano la
malinconia dalla serenità.
Silloge, comunque, di sicuro slancio
emotivo, che già, da una prima lettura, rivela una vis creativa di perspicua resa poetica, dove il verbo, sostanziato
da potenzialità fonica e cromatica, fa da argine ai forti input esistenziali. Una poesia nuova, generosa, ammiccante, dove la
parola la fa da padrona. Una parola arrotondata, smussata, pensata, lavorata da artigiano per ritrattare la
complessità dell’esistere. Sì, perché è frutto di una ricerca attenta, che
denota una autoptica frequenza letteraria, che sgorga, anche, dolce e duttile, da una spontaneità quale
richiede il buon poieo. Mi piace
esordire con la prodromica citazione testuale, perché, credo contenga le
peculiarità etico-estetiche della poetica della Stefanelli: panismo simbolico;
senso eracliteo dell’esistere; memoriale come alcòva, come amore oblativo, come
rifugio edenico; tentativo di prolungare una vicenda di obbligata scadenza; spleen, taedium vitae; ma soprattutto amore, e visione di un mondo con
stupefazione per una scoperta sempre nuova che si traduce in un realismo lirico di grande effetto
visivo. E il tutto inanellato da una euritmica musicalità che tiene compattata
l’opera. Sta qui l’organicità della silloge, in questa permanente armonia dei
nessi, delle allusioni simboliche, che abbraccia gli slanci cospirativi della
Nostra. Slanci che partendo dai minimalismi, dalle cose semplici, dalle
minuzie, o dalle grandi questioni, riescono ad elevarsi verso una
contemplazione alta, oltre la siepe, dove è facile sperdere la nostra identità.
Verso un orizzonte infinitamente esteso, forse troppo esteso per le
ristrettezze umane:
La finestrina della stanza era
posta proprio in alto e le barre gelide allontanavano il cielo dal mio sguardo.
Quando un temporale mi piegava il cuore cantavo: "Piove piove, esce il
sole, la Madonna raccoglie i fiori, li porta a Gesù e domani non piove più"
Una strada piccola e bianca
dove le lucciole, a sera,
erano parte di me
del mio essere bambina
che voleva scoprire
dove corrono le rondini a
primavera e
perché nelle sere d'estate il
cielo fosse così
grande,
grande
finché restavo col naso in su.
Ecco,
il resto dell'anima che resta
andare
per andare
parlare per parlare
parole d'uomo
senza senso (L’anima che resta).
Poesia
colta intessuta di una realtà esperita, rivisitata in chiave personale.
Ricordiamo che Aldo Capasso si era fatto
promotore e interprete di un Realismo
lirico che aveva contagiato la metà del Novecento letterario.
Stefanelli
ne è un prolungamento onesto, emotivamente zeppo di contaminazioni veristiche.
Di una forma lirica classico-moderna, avulsa da ermetismi devianti, o da ismi di mestiere. Un realismo lirico di
grande resa artistica.
Ma, vivendo in spazi limitati, è anche ambizione
naturale sottrarsi ai vincoli della terrenità per guardare l’azzurro, pur
coscienti che di quegli spazi, e delle loro fattezze noi viviamo e ne facciamo
motivo di vita. Da qui l’umano travaglio, il male di vivere determinato dalla
coscienza della precarietà del nostro esser/ci. Del nostro esistere. E il tempus fugit impietoso, irrevocabile. Il
presente non esiste, né possiamo avere l’occasione di vedercelo davanti, in
faccia, per un colloquio conclusivo.
Non ho voluto chiedere la tua identità
nemmeno quando l'ultimo istante
ha passato il segno del tempo vissuto
l'attimo
che fugge non lascia speranza di voce
non
include pietà né rincorse
Al marginale sguardo
miseri corpi appesi alla vita
o al cappio di un' invisibile corda
che stringe la morbida vena, che vive
nonostante tutto (Alla vita).
Ne
deriva questa nostra dicotomica inquietudine di pascaliana memoria. Dacché è
proprio dal polemos fra gli opposti,
dall’umana/disumana contrapposizione fra giorno e notte, eros e thanatos, Caino
e Abele, vita e morte che un trepido vibrare riprende tra le mani il bandolo di
un passato cristallizzandolo in poesia. In una poesia forbita di ars inveniendi proprio perché, forse, la morte fa parte
della vita. Ed è viva per questo. In ciò la complessa semplicità di questo
poema. O semplicità complessa, se si vuole, dato che contiene tutte le
problematiche realistico/escatologiche dell’essere e dell’esistere che la
Nostra sa declinare in un linguismo di sconcertante icasticità figurativa. In
un linguismo da cui trapela anche la necessità da parte della poetessa di
trovare punti fermi, di trarre dei bilanci, un redde rationem, che, mai conclusivo, la porta a meditare sui tanti
perché di una “società liquida” di “viandanti sperduti”. Di una società
talmente omologata dove l’individuo perde la cognizione della sua unicità.
Un ductus
poetico compatto e suasivo, umano e totalizzante, di una plurivocità
oggettivante, che non parla solo a tutti, ma al sentire di ciascuno ex abundantia cordis. Dove vagisce
l’autunno, stormisce la primavera, o gonfia l’esuberanza della stagione solare.
Perché l’autrice conosce le stagioni della vita e le ritrova ovunque con un
tatto talmente realistico da fare dello stesso sogno un dato reale. È là che i
battiti diastolici di un percorso naturale si fanno di un panismo avvincente e
coinvolgente. È generoso il soccorso di Pan. Sempre pronto a venire in aiuto
della Nostra nel “corporizzare”, nel “patolocizzare” quei segmenti d’animo che
pretendono di riconoscersi in figure, fatti o cromie.
Qua, dove l’albero innesta i suoi rami
A dita che al cielo versano capelli
Che vento scompiglia a carezze delicate
Siede Dafne leggera e scrive: ai suoi
bei fiori
Bianchi, rosei o gialli
ai profumi d’estate che da Peneo
Siede, nascosta allo sguardo di Apollo
Che pure tra i rami assapora
E cinge i suoi capelli fino a farsi
corona (Lo sguardo).
Ed è qui che la poetessa ripesca momenti
passati, parole non dette, colori sbiaditi, spinta dalla voglia di ridare loro
forza e colore. Sì!, è così che il memoriale preme. È così che vuole uscire a
nuova vita; urge, sgomita per farlo.
Il tempo dei giochi.
Dolceamaro
il nespolo del mio giardino
cresciuto
su case diroccate, macerie dimenticate
coperte
d’erba fresca e fiori gialli a primavera.
Ricordi il pianto di quel mattino?
Se avessi stretto le mie mani avresti avuto altri giorni da ricordare
.
Avevi
una camicia bianca ed io la gonna dei giochi
e
il mantello della malinconia avvolto già di te.
Non
ho saggezze da restituirti,
solo
squarci di notti
da appendere all’albero dei sogni
ancora da sognare (Dolceamaro).
Ma
il ricordo ha double face: da una
parte è spia di questa irrefrenabile corsa, dall’altra tentativo di perseguire
un rifugio avulso da una spersonalizzazione di sapore pirandelliano.
Eliot afferma: “La poesia è connaturata
all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a
copiare”. È quello che ci fa capire la poetessa.
Lei rielabora, lascia decantare, affina, e traduce. E lo fa con assemblaggi
lessicali, accentuazioni aggettivali, intensificazioni verbali, vaghezze
semantiche, ardore allusivo di metafore; con una versificazione ora succinta,
ora espansa, ora secca, ora varia, ora per asindeto, ora per polisindeto ad accompagnare le modulazioni degli input emotivi e tradurli in un articolato
linguistico di perspicua sapidità disvelatrice. E la Nostra è pienamente
cosciente della sub/stantia che la
anima; la sente impellente; la vive come fiamma; crede nella vita, in questa
meravigliosa, unica avventura, dove l’amore è l’anima del canto:
I miei figli sono le mie ali
ogni tanto
nel mio piccolo mondo la mia
storia migliore
il fiato più dolce al mio tacito
parlare
li ho cresciuti con perle di
miglio
con il nettare più puro della
mia casa d'ape
e ho portato sulle braccia il
loro profumo
quale dono più grande o mio
Signore (Ai miei figli),
pur
conoscendone le pene, pur sapendo che le gioie nascono da vie crucis:
Non parlare d'amore nel vacuo porgersi delle cose del mondo
l'inno al tempo vissuto depone corone
e lascia profumi speziati d'ambra e limoni ad un sole
rinsecchito.
Perle invernali di ghiaccio lambiscono inutili ferite,
cadendo distrattamente
da un improbabile bocciòlo di roselline d'autunno.
Niente stagione, niente tempo di rose, niente brillare
oltre la soglia
mattini distratti saranno la meta
e sere
e silenzi (Oltre la
soglia).
Ama
questa storia, lo dice con tutta se stessa; e sa anche che la poesia è vita e che
la vita può essere poesia; per questo ogni fatto, ogni pur minimo accident fa parte del suo poièin come momento essenziale della
vicenda. Una vicenda permeata da un filo sottile di malinconia, che, come un
terriccio fertile, fa sbocciare fiori di proteiforme pulcritudine.
Si leggono versi di tensione orfica, o
anche dai toni epico-lirici, vòlti a sottrarre la bellezza agli annichilenti
artigli del tempo. Si può vincere il tempo? Lo si può fare affidandoci a un
canto che levi la voce al futuro con sguardo foscolianamente duraturo. Un canto forte e sincero come quello
di Patrizia Stefanelli:
Sto rannicchiata in fondo... in fondo non importa...
in fondo al
pozzo dei desideri; troverò perfetta la lampada.
L'ho nascosta
mille notti fa,
al fiato del
tempo che inganna,
alla grazia
delle fate d'agosto,
al mantice scarlatto di un vecchio focolare.
Avrò occhi
nuovi, e la mano sinistra piena d'allegria,
mentre la destra, a pugno chiuso, stringerà le
gocce...
che non ho
potuto lasciare.
Le spargerò sul
mare, in una notte ancora
e attenderò le
stelle e sarò con te,
nei tuoi mille volti di dolore, nel tuo grido
d'amore,
nella piccola
coda della tua luce, anima mia (Avrò…).
Nazario
Pardini
Grazie, grazie.
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