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SONO
NATO NEL MESE DEI MORTI
Un
romanzo che coinvolge, incatena, commuove, del quale cito
le
caratteristiche dominanti:
1) La scrittura a due voci… che sul finale divengono tre.
2) L’assenza di nomi di battesimo.
3) Il carattere di saga.
4) La capacità dell’Autore di uscire da se stesso per
calarsi nei protagonisti.
5) Lo stile nuovo, originale, sanguigno, d’impatto
immediato.
Un
libro come “Sono nato nel mese dei morti” è difficile da porgere. Proverò ad
attenermi ai punti che ho elencato e che rappresentano gli espedienti stilistici
e contenutistici che lo rendono superbo. L’autore lascia narrare la storia, che
si srotola dal 1938 al 1964 dal bimbo, che entra in collegio a cinque anni e
dalla mamma, costretta a fare la scelta di separarsi da lui dalle condizioni
disagiate di vita. L’aspetto che lascia interdetto il lettore è la capacità di
un uomo di calarsi perfettamente negli stati d’animo, nei pensieri, nelle
reazioni del piccolo e in quelle della donna. E seguendo le emozioni del
bambino prendiamo atto che esistono esperienze alla quali è difficile dare
nomi. Le parole sono come reti: speriamo che coprano quello che intendiamo
dire, ma siamo consapevoli che non possono trattenere tutte le sfumature di
sofferenza, di rabbia, di stupore…
Il
bambino ha il modo di elaborare gli eventi tipico dell’infanzia. Pensa e,
troppo spesso non dice. Comprende e rimuove. Si adatta alle situazioni perdendo
frammenti di se stesso. La madre è donna
complessa, dilaniata da sofferenze antiche e dalla separazione dal figlio, che
equivale alla rottura di un secondo cordone ombelicale. E’ anima in pena,
sbattuta dai venti avversi dell’esistenza. La caratterizzazione dei due
protagonisti è talmente accurata, profonda, che si ha la sensazione di ‘vedere’
il bimbo e la donna, di entrare nei loro universi con pudore e con sentimenti
diversi: tenerezza, stupore, rabbia, dolore autentico. Il libro non si pone
davanti al lettore, ma ‘dentro’ al suo sentire. Lo assorbe e lo rende il terzo
inconsapevole protagonista. E facendo riferimento alla seconda caratteristica,
ovvero all’assenza dei nomi di battesimo dei protagonisti, a mio umile avviso,
rappresenta l’escamotage che dà carattere universale alla storia. Il bimbo e la
madre si sdoppiano, si moltiplicano: divengono infiniti simboli di separazioni,
di scelte disperate. Quando si ama qualcuno si è soliti ripetere il suo nome,
come se fosse al sicuro nella propria bocca. La donna non pronuncia il nome del
figlio come sceglie di non guardarlo negli occhi, di non voltarsi a salutarlo
quando lo lascia davanti al portone del collegio, in quanto si sente già come
se qualcuno la tagliasse a fette, frugasse nella sua intimità, strizzandole il
cuore, i polmoni, i reni, scovando il grembo divenuto di colpo sterile. Il
bambino ha un solo nome per chiamare la donna e lo ripete fino allo sfinimento:
la voce si rompe, come le onde, sulle sillabe… Ma la donna sognata, evocata,
chiamata è senza nome di battesimo. E per il piccolo è logico che sia così, ma
l’Autore fa sì che nessuno nel corso del romanzo le dia un’identità di donna.
Resta la solo e sempre ‘la mamma. Colei che ha gesti, profumi, che è musica
d’arpa dolce e straziante, ma non ha nome di donna. Il romanzo si snoda
attraverso il tempo tramite le esperienze del bambino, che cresce in collegio e
segue gli anni della guerra. E’ ambientato a Napoli, una città che viene
colpita duramente dalle vicende belliche e il bimbo, entrato ormai nella
pubertà, sperimenta i bombardamenti, le corse nei ricoveri, la coscienza della morte,
atrocemente democratica, come le malattie, che non risparmia nessuno. Il
capitolo intitolato “Natale con le bombe” termina con pennellate innocenti, ma
al tempo stesso strazianti, atte a trafiggere l’anima: “Un passo dopo l’altro
torniamo verso il collegio spingendo il carretto che si è fatto terribilmente
più pesante con la sensazione di essere diventati vecchi”. Parlo di saga, in
quanto il testo copre la vita del protagonista fino all’ età adulta. L’uomo
poco più che trentenne è sposato e la voce che si sostituisce a quella della
madre è quella della moglie. Incredibilmente il registro non cambia. La donna
sembra il continuum della figura materna. Conosce i tormenti interiori
dell’uomo che ama, ha vissuto una sorta di passaggio di testimone con la donna
che l’ha concepito e che si è ricongiunta a lui prima di morire. Ha appreso da
lei segreti e dolori e possiede il codice d’accesso agli stati d’animo del
marito. L’autore s’immerge nel proprio romanzo in modo totalizzante. Sembra
scrivere una vicenda autobiografica… e, al di là dei periodi storici che non
coincidono, resta il dubbio che molti degli eventi narrati possano essere stati
vissuti da Luigi. Ma è poi importante appurarlo? Sinceramente credo sia
rilevante solo prendere atto della capacità creativa di uno scrittore, che sceglie
una saga, sceglie di incarnare le vite dei protagonisti, di dar voce a paure,
solitudini, ricordi. E proprio per
quanto riguarda i ricordi, nell’immaginario infantile sono confusi, sovrapposti
e possono essere evocati solo da flash back: una rissa alla quale il bimbo
assiste in collegio risveglia la memoria delle violenze perpetrate dal padre,
dedito all’alcool, sulla mamma; il profumo stantio dei fiori appassiti evoca la
morte della sorellina. Luigi caratterizza in modo ottimale il figlio, fino
all’età adulta, la madre, fino alla morte, ma anche il padre, nella sua
inconsistenza di uomo e di genitore e la moglie, una comprimaria nell’infinito dramma
edipico di cui la mamma resta la protagonista indiscussa. Ma forse il verbo
‘caratterizza’ è riduttivo per un Autore che entra sotto la pelle dei suoi
personaggi, che si libera della propria identità per lasciare che esistano le
loro. Luigi scrive in stato di autentica ispirazione e di profonda tensione.
Dietro la sicurezza semantica si avverte il fervore doloroso che brucia tra le
pieghe del suo cuore come una febbre. L’uomo che troviamo nelle ultime pagine
del romanzo è assediato dai demoni dell’infanzia, dell’adolescenza. Lo
rincorrono come lupi affamati e lo mordono… impedendogli di redimere il futuro.
Un romanzo che rivela una tragica, ineluttabile verità: non si può essere
bambini se non te lo concedono e non si può essere uomini sereni se non si è
mai stati bambini. Concludo con lo stile. L’Autore mostra padronanza dell’ars
narrandi, è innovativo, sa adattare il linguaggio alle due voci portanti del
testo, risulta sempre morbido, denso, capace di sfumature liriche, forse
inconsapevoli, ricco di pathos e capace di stuprare i luoghi comuni e la
retorica.
Maria Rizzi
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