Cantavamo
Cantavamo, paese,
se affogavi nel giallo dei granturchi.
se affogavi nel giallo dei granturchi.
Cantavamo sui pavimenti
dove sorrideva la luce dei
camini.
Cantavamo sopra gli alari
arroventati dalle pire delle
potature
(la loro colpa era quella di
avere chiuso la stagione).
Cantavamo romanze,
i cui eroi vincevano battaglie
che noi perdevamo ogni giorno,
ogni ora
(cavalli bianchi, cavalieri e
palafrenieri incorruttibili dal tempo).
Anche le madri cantavano già
vecchie trentenni
e muovevano le mani
gesticolando sui ritmi.
Mani tumide per le umide terre
delle prode.
Eppure ogni anno la natura si
sacrificava paganamente
sui roghi, nei forni e sulle
corti,
per consegnarci i suoi profumi
(profumi che io conobbi sempre
eguali
e che sembravano non soggetti
a mutamenti).
Cantavamo stornelli
coi vinelli freschi del
novembre.
Quando le botti ci
accompagnavano
coi loro vocalizzi profumati,
rossi e iterati come gli
strappi delle roncole.
I padri coi riti tramandati
dagli aruspici etruschi
roteavano il primo liquido nel
vetro predicente
per misurarne il corpo. Era la
festa delle cantine,
la stessa festa che più volte
presso gli antichi
avrà veduto Bacco e Cupido
aggirarsi divertiti
al suono di zufoli e litofoni.
Cantavamo preghiere che Pan ci
ispirava di ringraziamento
pei fulvi grani, pei pampini
rossicci o pei vermigli frutti;
preghiere che i pagani
consegnarono pietosi nelle
mani
dei cristiani facendosi santi.
Cantavamo senza perché la
madre eterna
potesse anche essere ingiusta.
La pregavamo sulle strisce
d’oro dei tramonti;
se esplodeva nei protervi
affollamenti estivi;
se cadeva stanca meritandosi
la morte;
o se riposava sotto i diluvi e
le gelate.
E sembrava persino ringraziarci
o chiederci perdono
per le siccità, per le
carestie o le morti precoci;
lo faceva turgida coi
crisantemi e gli asfodeli
sui suoi cimiteri
aperti al cielo colle loro
croci.
Nazario Pardini
In riferimento al post sul blog "L'ombra delle parole" di cui il link:
http://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/11/una-poesia-di-nazario-pardini-commentata-da-giorgio-linguaglossa/
CANTAVAMO http://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/11/una-poesia-di-nazario-pardini-commentata-da-giorgio-linguaglossa/
insieme
Varco timidamente
l'uscio di questo blog assistendo, con misurato interesse, al dibattito che una
singola voce riesce a suscitare nei
commenti di attenti e illuminati lettori.
A questo coro mi
unisco anch'io – minuscolo frammento nell'universo letterario – con parole
semplici e spoglie di congetture accademiche, affinché anche a chi non è
avvezzo ad artificiose elucubrazioni giunga chiara l'eco del mio pensiero.
Premesso che
qualsiasi opera letteraria (al pari di tutte le altre espressioni artistiche)
deve essere necessariamente posta al vaglio del Critico, è pur vero che
chiunque (e per chiunque intendo ogni creatura pensante) può prendere posizione
rispetto ad essa.
Non può quindi
esistere un parere censorio dominante o super partes.
La Poesia – come
tangibile sublimazione del pensiero umano – esprime la volontà e la necessità
dell'artista di porsi in relazione con l'alterità, e quindi deve essere alla
portata di tutti; ed ognuno fruisce dei messaggi da essa dispensati.
Messaggi d'amore
e di odio, di speranza e di
rassegnazione, di gioia e di amarezza... e di ogni altro sentimento sparso nel
nostro sentiero di vita.
La penna del
cantore, immergendosi nel calamaio di vivide nostalgie o dei colori della
natura, indirizza garbate missive all'anima – voce critica, amorevole quanto
severa, delle nostre debolezze – e ci sprona a scavare nelle macerie che giorno
dopo giorno accumuliamo davanti a noi: ci suggerisce di ritrovare, tra i cumuli
di rovine della nostra folle corsa, la fede che abbiamo perduto, i valori che
abbiamo calpestato, lo spirito del Bello (imbrattato di mercimonio) che i
nostri avi ci hanno tramandato.
E – qualora se ne
riscontrasse l'opportunità – ben venga sedersi all'ombra di Pascoli o di
D'Annunzio ascoltandone i palpiti dei cuori, senza peraltro plagiare
neanche un battito. Nessun poeta talentuoso vorrebbe (né potrebbe) imprimere un'orma uguale a quella lasciata da altri vati. La penna virtuosa, come l'abile
strumento dell'artigiano, non creerà mai un'opera uguale (e forse neanche
simile) ad un'altra. Gli accenti che serbiamo in petto sono unici nel lirismo
che racchiudono e nei variegati colori delle loro vesti.
Mi si obietterà:
questo excursus indossa un abito meramente critichese e adduce motivazioni
semplicistiche, non ponendo obiettive basi di indagine sull' usus scribendi
dell'autore.
Sarà forse vero,
ma è altrettanto tangibile una certezza: la lirica di Pardini NON
proviene da un mondo scomparso e naufragato.
E non siamo i
soli a preferire un lessico ingiustamente accusato di anacronismo.
D'altro canto gli
stilemi che coniugano strofe pregne di neologismi roboanti o che permettono a
certe congiunzioni monosillabiche di ultimare un verso, appartengono ad autori
che della loro libertà di espressione hanno fatto un'accozzaglia di pensieri in
libertà, privi di pathos e genuinità, macchinosi e
incomprensibili per gran parte dei lettori.
Nel mio
umilissimo percorso d'Arte io prediligo passeggiare in compagnia di sonetti,
canzoni, madrigali ed altre forme poetiche;
dovrei forse
abbandonarle poiché provenienti da un lontano passato?
Alcune strutture
liriche classiche nostrane sono state adottate (ed amate – basti pensare al
sonetto) da culture di mezzo mondo.
Montale, il poeta che
accoglieva nei suoi versi le fragilità umane assegnando alla Poesia il
compito di spalancare agli uomini la porta del comunicare tra loro per
riscattare la Dignità, nel suo discorso a Stoccolma, in occasione del
conferimento del Nobel (12 Dicembre 1975) asseriva (cito testualmente):
“ … Esistono
in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore
appena espressa, e l'altra può dormire i suoi sogni tranquilla. Un giorno si
risveglierà, se avrà la forza di farlo...”.
Bene! E allora
evviva al mondo anacronistico (?) di Pardini, abitato da zufoli e litofoni,
da pampini rossici o vermigli frutti!
Rimanga desto il
suo canto che non si è mai addormentato!
Gliene sarò
riconoscente.
E citando ancora
testualmente Montale nel finale della sua Nobel Lecture:
“ … non
solo la poesia, ma tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è
entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro
esistere di essere umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri
privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un
destino che nessun altra creatura vivente può vantare … “
Chi non vuole
andare alla deriva deve ancorarsi con tenacia alle sponde di un passato più
presente che mai: ne abbiamo bisogno per sconfiggere il malcelato nichilismo
intellettuale del Nuovo e della Dittatura del pacchiano.
Roberto Mestrone
Poter apprezzare così, contemporaneamente, due Maestri come Nazario Pardini e Roberto Mestrone, è davvero gratificante. Ho letto la poesia " Cantavamo" e subito, mi ha rapita in un canto. Ha detto tutto, Roberto Mestrone, nella sua chiarissima critica letteraria. L'uso dei termini ha poco di anacronistico e ben si sposano al tempo verbale utilizzato. Io, che appena sfioro la poesia, quella vera, non posso fare altro che restare con la meraviglia dei versi..."aperti al cielo colle loro croci."
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