Giorgio Linguaglossa
FRESCHI DI STAMPA: BLUMENBILDER
(NATURA MORTA CON FIORI)
DI GIORGIO LINGUAGLOSSA
di Francesco Aronne
L’odore di inchiostro fresco si impasta con le
parole e, se trattasi di versi, da questa mescolanza possono evaporare emozioni
e scaglie di vagheggiati sentimenti.
Tengo tra le mani il nuovo libro di Giorgio Linguaglossa sospeso tra
l’ipotesi del suo contenuto e l’intrigante titolo germanico, Blumenbilder (sottotitolato Natura morta con fiori) con la sua
forza, per me, evocatrice. Penetrante wort
che mi riporta, con la sua deformazione spazio temporale, in distanti trascorsi
della mia esistenza. Lontane domeniche
straniere consumate tra il museo di Pergamo
e boschi di betulle nei dintorni di Berlino,
tra Alexander Platz e le alture di Seelow, con l’orecchio della mente teso
a captare il respiro dei poderosi fantasmi dell’Armata Rossa comandati dal maresciallo Žukov, il micidiale sibilo delle Katjuša, il rumore dei cingoli
dei carri T-34 che avanzavano inesorabili, da Stalingrado, spianando residui brandelli di nazionalsocialismo e di
libertà. Echi di passi tra la Turm Straβe
o il Rathaus di Spandau fino al Bauhaus Archiv, zavorrato dal peso di
quegli strani moti interiori, tanto più intensi quanto più si manifestano nei
paraggi del Polo Nord.
L’odore dei tigli in un viale di primavera ed i
colori di quel cielo berlinese ritornano, si ribellano alla quiete apparente
dell’intorno dimenandosi al mio interno.
Mi aggrappo alle pagine del libro come ad
un’ancora per sfuggire all’inatteso e improvviso vortice emotivo. Scivolo, e
non senza meraviglia, fra i solchi delle sue profonde righe. Mi colgo
insaziabile e vorace nella appassionante lettura.
Leggo d’un fiato la fuorviante prefazione di Andrej Silkin, e resto intontito dai
seducenti arabeschi che trasudano da ogni sillaba il suo affetto per l’autore.
Non mi dovrei meravigliare, e mi stupisco che
non lo faccio, convinto come sono che i versi, a qualsiasi latitudine, sono un
menzognero e fallace specchio in cui ognuno non può che riflettere se stesso o
la propria ombra, peraltro in fugaci e a volte irripetibili transitori. Ogni
visione altrui non può che essere un filtro deviante.
Mi lascio andare e affondo nei versi che
tornano a riveder le stelle risalendo dai profondi cunicoli della miniera
dell’anima incarnata tra le viscere del suo autore e allagata dalle secrezioni
del suo inconscio. Versi sospinti da un gorgoglio effervescente in un percorso
ascensionale, lungo un quarto di secolo, e destinati, nel percepito intento di Giorgio Linguaglossa, alla definitiva sepoltura tra le pagine
intonse della sua stele cartacea. I rinsecchiti agglomerati di incartapecorite
e polverose parole immaginati dopo la lettura delle prime righe del libello,
vengono disattesi e la risultante dell’avanzare tra i versi si offre
sorprendente. L’avvertenza dell’autore, raccolta dal prefatore, vuole deviare
l’approccio alle poesie ridotte a manifestazione fenomenica di un ologramma
immateriale. Risultato antico di una sorta di immagine rifratta oramai disciolta
o evaporata in una nuvola, del poeta, di quello che fu. Le poesie proposte
assurgono a struttura atomica primordiale e nucleo immarcescibile di ciò che ne
rimane.
Una foto virata seppia di tutti i suoi io
andati, quelli seguiti e quelli in divenire, un filo sottile che li tiene uniti
e sventolanti. Un’immagine che risuona però come poco credibile, smascherata
proprio dai versi ancora vitali, insensibili alla polvere e avvolti dalla brina
del mattino.
Non è una lettura, per me, semplice. La
percezione dei versi mi ritorna come un album fotografico di un mondo, più
mondi irreali. “Rugiada. Nella lastra
gelatinosa della fotografia è entrato un bosco pieno di foglie…”. Moti
convettivi e alterazioni relazionali mescolano alcune componenti strutturali
della realtà. Parole in libertà che, nel sorprendermi, tornano a sfogliare
ricordi trapassati. Mi estraneo ancora, mi vedo perso in una stazione
ferroviaria ad inseguire ritardi di treni, arrivato da un altrove, finito in un
dove, proteso verso un altrove diverso dal primo. Prigioniero in una non voluta
griglia spazio-temporale mi rifugio nei titoli di un chiosco, tra gente
distratta, gente che parte, gente che torna, gente che sosta, come nei quadri
di Boccioni. Compro un libro per
farne un grimaldello con cui divellere quelle invisibili sbarre della prigione
di un ritardo di treni ora perso nell’oblio.
Tra i tanti scelsi “Les Champs Magnétiques” di Andrè Breton e Philippe
Soupault. E fu un ottima cura per la debilitante empasse, per l’impazienza e la
voglia di fuga da quella sperduta stazione che non ricordo neanche più.
Complesse e impercettibili assonanze colte tra i versi di questa nuova lettura
hanno riattivato un lontano e sfocato ricordo.
Le poesie di
Linguaglossa restituiscono interconnessioni profonde tra visioni oniriche e
stratificazioni esasperate o forse solo rifratte della realtà ordinaria.
Il linguaggio è
ardito e accattivante “… dalla prospettiva isometrica dell’aria osservo il
ragno dodecapodo che risale il margine ove dormi …”, poeticamente efficace, a
tratti ondivago, a tratti deformante, ma sempre avventatamente attraente.
Gnomi, folletti,
elfi trasmutati per l’occasione in guardinfanti o angeli gobbi si riaffacciano
con caotiche frequenze qua e là tra i versi e sembrano destinati a depistare il
lettore con immaginative suggestioni.
A volte calano da
alberi, a volte animano scene di quadri scoloriti appesi alle pareti dei
ricordi, a volte assumono sembianze di mobili immobili, arredi immateriali
della scenografia di spinose e irrisolte rievocazioni. Presenze perturbanti
che, nella apparente marginalità della loro forma, finiscono con lo spostare il
baricentro emozionale di un incontro, di occultarne i laceranti
sfilacciamenti e fastidi, che governano la riappropriazione del proprio
corpo dopo la interpolazione con quello dell’amata (o dell’emotivamente
considerata) e il mesto ritorno alla propria biologica e debilitante
solitudine. Indefinite e impreparate creature popolanti la notte del sentimento
sono, nei versi, chiamate a impersonare le ansie, le paure, i disagi, i timori,
le scuse, le vie di fuga dell’autore ed a presiedere ad amplessi reali o
immaginari che si svolgono nelle diverse tonalità lucenti del giorno. Entità
amorfe destinate a inquinarne il contesto.
“… fauni di marmo e
veneri nude belle come orchidee lungo lo stagno che cullava le pallide ninfee …
ricordi? Regnava un’atmosfera di lussuria e di oltraggio.”
Contesti di
incontri costruiti con meticolosa ed ossessiva precisione su letti di insidiose
e lusingatrici parole, che interpretano immagini a volte strumentalmente
deliranti. Maniacali preparativi che sembrano fallire per cronologie distorte e
folli: l’ingovernabilità del tempo che restituisce l’epilogo di tormentati e
sfasati incontri.
Simbiosi mancate,
contrazioni del diaframma, distratte da figure classiche e mitologiche.
L’Ippogrifo, Armida, Ulisse con Mozart, Chopin e Colombina vengono coinvolti in
scenari con orizzonti surreali le cui tinte sono colori trasformati dai dolori
di un Werter canuto, assoggettato nel crepuscolo ad oppiacei e anfetamine.
Eppure la vitalità
dei versi si materializza nella luminescenza del linguaggio carico di una
energia che a tratti dà l’idea di essere gestita a fatica dall’autore. Vocaboli
impressionanti di cui sfuggono i significati intenzionali sembrano trasudati da
dizionari fantastici di lingue sconosciute. Parole misteriche che deviano
volutamente da orizzonti vagamente interpretativi rimandando ad una percezione
extrasensoriale alimentata dai bassifondi dell’inconscio. Il richiamo stavolta
porta ad Artaud, al suo “l’intelligenza che mi occupa, l’inconscio che mi
alimenta …” negli anfratti dei suoi
“Frammenti di un diario d’inferno”.
La poesia, come le
lacrime, è una sorta di patrimonio universale. Proprio come le lacrime che in
una istantanea celano la loro origine, anche la poesia occulta nei versi la
falsità delle raffigurazioni scenografiche oltre il confine del suo sipario.
Come canto di sirena i versi convertono il lettore all’innocenza del mentire,
una sorta di serpente che mangia la sua coda. Il simbolismo antico dell’Uroboro teso a rendere il cerchio
perfetto dove il punto di arrivo raggiunge il punto di partenza.
Nei versi di Linguaglossa il
fine lettore potrà scorgere caleidoscopiche sfumature in grado di estraniarlo
dalle angustie del presente e potrà lasciarsi accattivare dallo stile
generatore di un album inusuale di colorite memorie. Memorie per immagini fatte
versi, memorie in versi che si fanno immagini.
Quello che a me è rimasto, oltre al piacere con cui mi sono fatto avanti
tra le pagine, è stata una percepita anarchia del desiderio. Come se i moti
compulsivi di una vita avessero trovato quieto e temporaneo albergo nelle
poesie contenute nel volume, debordando però incontenibili da alcune invisibili
fessure.
Quando completo la lettura di un volume, cosa che non sempre accade,
l’ultimo punto lascia dietro l’ultima parola e con essi mi restituisce un senso
di vuoto e di tristezza.“Blumenbilder“,
alla fine del suo percorso in versi, mi ha riportato alla immagine di partenza,
a quella natura morta con fiori, che, più volte nel leggere, ho provato
inutilmente a immaginare e contestualizzare nei versi.
La natura morta con fiori nel
vaso di Ambrosius
Bosschaert o piuttosto quella di Caravaggio,
quale scegliere come finale rappresentazione di queste divagazioni?
Quella che mi torna
più attinente è la “Natura morta con fiori,
libri e teschio” della fine del XVII secolo.
Tra Cinquecento e
Seicento, nelle opere pittoriche di italiani e fiamminghi comparvero diversi
elementi simbolici: fiori appassiti, frutti bacati, libri vecchi, teschi,
clessidre, moccoli di candele. Gli artisti intendevano raffigurare la fugacità
della bellezza nel transito terreno, l’inesorabilità corrosiva del tempo, il
trionfo della morte sulla vita. Solo più tardi si riconobbero i valori estetici
e strutturali degli oggetti raffigurati e la natura morta finì inesorabilmente
col perdere i significati allegorici associati. Eppure i quadri ispiratori erano sempre gli
stessi.
E così è dei versi
che oscillano nella mente di chi legge e si riflettono negli specchi del tempo
in cui sono letti, destinati a mutare con gli anni le vibrazioni irradiate.
La lettura di
“Blumenbilder” non delude certamente il temerario esploratore disponibile ad
affrontarne il labirinto, attraversarne i concentrici circuiti, attento nello
schivarne i ben nascosti stratagemmi.
Unica inevitabile
incognita a cui il lettore è esposto è di non vedere dopo essersi perso tra
questi versi, con lo stesso occhio gli scritti attuali del suo autore.
Sono grato a Francesco Aronne, intellettuale eclettico e curioso, per questo pezzo che esula dai vezzi letterari dei nostri recensori, scritto in una prosa ricca e come esondante di ricordi, di digressioni, di divagazioni... così, ritengo debba essere la vera scrittura critica, simile a una passeggiata dell'astronauta nel cosmo del mistero delle cose.
RispondiEliminaUna scrittura mirabile per precisione e decorazione. Come quella di un caso etrusco.
Benché la poesia non mi appassioni, devo ammettere che Blumenbilder è un'opera che considero davvero importante - come non ce ne sono molte, oggi, in Italia. Peccato che Giorgio sia un giovane scrittore emergente! Se avesse avuto 102 anni, avrebbe vinto il premio Nobel, se non almeno il premio Alzheimer. Giorgio, al massimo in Italia non ti resta che mirare ad un amaro Strega [non sono un robot 637468 7843].
RispondiEliminaGiorgio, la tua è un'operazione distruttiva geniale, è un'imboscata letale. Hai sgominato una intera legione, con un manipolo di britanni dipinti d'azzurro. Ma i critici se ne saranno davvero resi conto?! Ti invidio.
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