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mercoledì 12 marzo 2014

FRANCESCO ARONNE: LETTURA DI "BLUMENBILDER", DI G. LINGUAGLOSSA



Giorgio Linguaglossa


FRESCHI DI STAMPA: BLUMENBILDER  
(NATURA MORTA CON FIORI)  
DI GIORGIO LINGUAGLOSSA
di Francesco Aronne  


L’odore di inchiostro fresco si impasta con le parole e, se trattasi di versi, da questa mescolanza possono evaporare emozioni e scaglie di vagheggiati sentimenti.
Tengo tra le mani il nuovo libro di Giorgio Linguaglossa sospeso tra l’ipotesi del suo contenuto e l’intrigante titolo germanico, Blumenbilder (sottotitolato Natura morta con fiori) con la sua forza, per me, evocatrice. Penetrante wort che mi riporta, con la sua deformazione spazio temporale, in distanti trascorsi della mia esistenza.  Lontane domeniche straniere consumate tra il museo di Pergamo e boschi di betulle nei dintorni di Berlino, tra Alexander Platz e le alture di Seelow, con l’orecchio della mente teso a captare il respiro dei poderosi fantasmi dell’Armata Rossa comandati dal maresciallo Žukov,  il micidiale sibilo delle Katjuša, il rumore dei cingoli dei carri T-34 che avanzavano inesorabili, da Stalingrado, spianando residui brandelli di nazionalsocialismo e di libertà. Echi di passi tra la Turm Straβe o il Rathaus di Spandau fino al Bauhaus Archiv, zavorrato dal peso di quegli strani moti interiori, tanto più intensi quanto più si manifestano nei paraggi del Polo Nord.
L’odore dei tigli in un viale di primavera ed i colori di quel cielo berlinese ritornano, si ribellano alla quiete apparente dell’intorno dimenandosi al mio interno.
Mi aggrappo alle pagine del libro come ad un’ancora per sfuggire all’inatteso e improvviso vortice emotivo. Scivolo, e non senza meraviglia, fra i solchi delle sue profonde righe. Mi colgo insaziabile e vorace nella appassionante lettura.
Leggo d’un fiato la fuorviante prefazione di Andrej Silkin, e resto intontito dai seducenti arabeschi che trasudano da ogni sillaba il suo affetto per l’autore.
Non mi dovrei meravigliare, e mi stupisco che non lo faccio, convinto come sono che i versi, a qualsiasi latitudine, sono un menzognero e fallace specchio in cui ognuno non può che riflettere se stesso o la propria ombra, peraltro in fugaci e a volte irripetibili transitori. Ogni visione altrui non può che essere un filtro deviante.
Mi lascio andare e affondo nei versi che tornano a riveder le stelle risalendo dai profondi cunicoli della miniera dell’anima incarnata tra le viscere del suo autore e allagata dalle secrezioni del suo inconscio. Versi sospinti da un gorgoglio effervescente in un percorso ascensionale, lungo un quarto di secolo, e destinati, nel percepito intento di Giorgio Linguaglossa,  alla definitiva sepoltura tra le pagine intonse della sua stele cartacea. I rinsecchiti agglomerati di incartapecorite e polverose parole immaginati dopo la lettura delle prime righe del libello, vengono disattesi e la risultante dell’avanzare tra i versi si offre sorprendente. L’avvertenza dell’autore, raccolta dal prefatore, vuole deviare l’approccio alle poesie ridotte a manifestazione fenomenica di un ologramma immateriale. Risultato antico di una sorta di immagine rifratta oramai disciolta o evaporata in una nuvola, del poeta, di quello che fu. Le poesie proposte assurgono a struttura atomica primordiale e nucleo immarcescibile di ciò che ne rimane.
Una foto virata seppia di tutti i suoi io andati, quelli seguiti e quelli in divenire, un filo sottile che li tiene uniti e sventolanti. Un’immagine che risuona però come poco credibile, smascherata proprio dai versi ancora vitali, insensibili alla polvere e avvolti dalla brina del mattino.
Non è una lettura, per me, semplice. La percezione dei versi mi ritorna come un album fotografico di un mondo, più mondi irreali. “Rugiada. Nella lastra gelatinosa della fotografia è entrato un bosco pieno di foglie…”. Moti convettivi e alterazioni relazionali mescolano alcune componenti strutturali della realtà. Parole in libertà che, nel sorprendermi, tornano a sfogliare ricordi trapassati. Mi estraneo ancora, mi vedo perso in una stazione ferroviaria ad inseguire ritardi di treni, arrivato da un altrove, finito in un dove, proteso verso un altrove diverso dal primo. Prigioniero in una non voluta griglia spazio-temporale mi rifugio nei titoli di un chiosco, tra gente distratta, gente che parte, gente che torna, gente che sosta, come nei quadri di Boccioni. Compro un libro per farne un grimaldello con cui divellere quelle invisibili sbarre della prigione di un ritardo di treni ora perso nell’oblio.
Tra i tanti scelsi Les Champs Magnétiques” di Andrè Breton e Philippe Soupault. E fu un ottima cura per la debilitante empasse, per l’impazienza e la voglia di fuga da quella sperduta stazione che non ricordo neanche più. Complesse e impercettibili assonanze colte tra i versi di questa nuova lettura hanno riattivato un lontano e sfocato ricordo.
Le poesie di Linguaglossa restituiscono interconnessioni profonde tra visioni oniriche e stratificazioni esasperate o forse solo rifratte della realtà ordinaria.
Il linguaggio è ardito e accattivante “… dalla prospettiva isometrica dell’aria osservo il ragno dodecapodo che risale il margine ove dormi …”, poeticamente efficace, a tratti ondivago, a tratti deformante, ma sempre avventatamente attraente.
Gnomi, folletti, elfi trasmutati per l’occasione in guardinfanti o angeli gobbi si riaffacciano con caotiche frequenze qua e là tra i versi e sembrano destinati a depistare il lettore con immaginative suggestioni.
A volte calano da alberi, a volte animano scene di quadri scoloriti appesi alle pareti dei ricordi, a volte assumono sembianze di mobili immobili, arredi immateriali della scenografia di spinose e irrisolte rievocazioni. Presenze perturbanti che, nella apparente marginalità della loro forma, finiscono con lo spostare il baricentro emozionale di un incontro, di occultarne i  laceranti  sfilacciamenti e fastidi, che governano la riappropriazione del proprio corpo dopo la interpolazione con quello dell’amata (o dell’emotivamente considerata) e il mesto ritorno alla propria biologica e debilitante solitudine. Indefinite e impreparate creature popolanti la notte del sentimento sono, nei versi, chiamate a impersonare le ansie, le paure, i disagi, i timori, le scuse, le vie di fuga dell’autore ed a presiedere ad amplessi reali o immaginari che si svolgono nelle diverse tonalità lucenti del giorno. Entità amorfe destinate a inquinarne il contesto.
“… fauni di marmo e veneri nude belle come orchidee lungo lo stagno che cullava le pallide ninfee … ricordi? Regnava un’atmosfera di lussuria e di oltraggio.”
Contesti di incontri costruiti con meticolosa ed ossessiva precisione su letti di insidiose e lusingatrici parole, che interpretano immagini a volte strumentalmente deliranti. Maniacali preparativi che sembrano fallire per cronologie distorte e folli: l’ingovernabilità del tempo che restituisce l’epilogo di tormentati e sfasati incontri.
Simbiosi mancate, contrazioni del diaframma, distratte da figure classiche e mitologiche. L’Ippogrifo, Armida, Ulisse con Mozart, Chopin e Colombina vengono coinvolti in scenari con orizzonti surreali le cui tinte sono colori trasformati dai dolori di un Werter canuto, assoggettato nel crepuscolo ad oppiacei e anfetamine.
Eppure la vitalità dei versi si materializza nella luminescenza del linguaggio carico di una energia che a tratti dà l’idea di essere gestita a fatica dall’autore. Vocaboli impressionanti di cui sfuggono i significati intenzionali sembrano trasudati da dizionari fantastici di lingue sconosciute. Parole misteriche che deviano volutamente da orizzonti vagamente interpretativi rimandando ad una percezione extrasensoriale alimentata dai bassifondi dell’inconscio. Il richiamo stavolta porta ad Artaud, al suo “l’intelligenza che mi occupa, l’inconscio che mi alimenta …”  negli anfratti dei suoi “Frammenti di un diario d’inferno”.
La poesia, come le lacrime, è una sorta di patrimonio universale. Proprio come le lacrime che in una istantanea celano la loro origine, anche la poesia occulta nei versi la falsità delle raffigurazioni scenografiche oltre il confine del suo sipario. Come canto di sirena i versi convertono il lettore all’innocenza del mentire, una sorta di serpente che mangia la sua coda. Il simbolismo antico dell’Uroboro teso a rendere il cerchio perfetto dove il punto di arrivo raggiunge il punto di partenza.
Nei versi di Linguaglossa il fine lettore potrà scorgere caleidoscopiche sfumature in grado di estraniarlo dalle angustie del presente e potrà lasciarsi accattivare dallo stile generatore di un album inusuale di colorite memorie. Memorie per immagini fatte versi, memorie in versi che si fanno immagini.
Quello che a me è rimasto, oltre al piacere con cui mi sono fatto avanti tra le pagine, è stata una percepita anarchia del desiderio. Come se i moti compulsivi di una vita avessero trovato quieto e temporaneo albergo nelle poesie contenute nel volume, debordando però incontenibili da alcune invisibili fessure.
Quando completo la lettura di un volume, cosa che non sempre accade, l’ultimo punto lascia dietro l’ultima parola e con essi mi restituisce un senso di vuoto e di tristezza.“Blumenbilder“, alla fine del suo percorso in versi, mi ha riportato alla immagine di partenza, a quella natura morta con fiori, che, più volte nel leggere, ho provato inutilmente a immaginare e contestualizzare nei versi.
La natura morta con fiori nel vaso di Ambrosius Bosschaert o piuttosto quella di Caravaggio, quale scegliere come finale rappresentazione di queste divagazioni?
Quella che mi torna più attinente  è la “Natura morta con fiori, libri e teschio” della fine del XVII secolo.


Tra Cinquecento e Seicento, nelle opere pittoriche di italiani e fiamminghi comparvero diversi elementi simbolici: fiori appassiti, frutti bacati, libri vecchi, teschi, clessidre, moccoli di candele. Gli artisti intendevano raffigurare la fugacità della bellezza nel transito terreno, l’inesorabilità corrosiva del tempo, il trionfo della morte sulla vita. Solo più tardi si riconobbero i valori estetici e strutturali degli oggetti raffigurati e la natura morta finì inesorabilmente col perdere i significati allegorici associati. Eppure i quadri ispiratori erano sempre gli stessi.
E così è dei versi che oscillano nella mente di chi legge e si riflettono negli specchi del tempo in cui sono letti, destinati a mutare con gli anni le vibrazioni irradiate.
La lettura di “Blumenbilder” non delude certamente il temerario esploratore disponibile ad affrontarne il labirinto, attraversarne i concentrici circuiti, attento nello schivarne i ben nascosti stratagemmi.
Unica inevitabile incognita a cui il lettore è esposto è di non vedere dopo essersi perso tra questi versi, con lo stesso occhio gli scritti attuali del suo autore.



3 commenti:

  1. Sono grato a Francesco Aronne, intellettuale eclettico e curioso, per questo pezzo che esula dai vezzi letterari dei nostri recensori, scritto in una prosa ricca e come esondante di ricordi, di digressioni, di divagazioni... così, ritengo debba essere la vera scrittura critica, simile a una passeggiata dell'astronauta nel cosmo del mistero delle cose.
    Una scrittura mirabile per precisione e decorazione. Come quella di un caso etrusco.

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  2. Benché la poesia non mi appassioni, devo ammettere che Blumenbilder è un'opera che considero davvero importante - come non ce ne sono molte, oggi, in Italia. Peccato che Giorgio sia un giovane scrittore emergente! Se avesse avuto 102 anni, avrebbe vinto il premio Nobel, se non almeno il premio Alzheimer. Giorgio, al massimo in Italia non ti resta che mirare ad un amaro Strega [non sono un robot 637468 7843].

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  3. Giorgio, la tua è un'operazione distruttiva geniale, è un'imboscata letale. Hai sgominato una intera legione, con un manipolo di britanni dipinti d'azzurro. Ma i critici se ne saranno davvero resi conto?! Ti invidio.

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