DOPO IL MODERNO?
Quello che un critico come Giorgio
Linguaglossa vede attraverso la cortina di nebbia della «nuova ideologia del
conformismo», è la «nuova insensibilità» delle masse post-culturali nella
situazione del Dopo il Moderno, fenomeno cresciuto all’ombra del
letargo politico dell’Italia e dell’Europa. La parola «impegno» è ormai
invecchiata e fuori corso, il «qualunquismo», il «talqualismo» e il «turismo
poetico» della poesia delle giovani generazioni è una spia allarmante di questo
conservatorismo di massa. Ormai nessuno delle nuove generazioni si pone la domanda
di comprendere il mondo con spiegazioni, ipotesi, responsabilità; una pedestre
mitologia della scrittura che la mia generazione aveva debellato, riacquista
vigore e credibilità: lo scrivere bene, l’innocenza dello scrittore,
addirittura la «irresponsabilità dello scrittore», l’aura (che ritorna!) delle
parole poetiche di certa poesia femminile, l’invasione delle storie d’amore
catechizzate, drammatizzate e agghindate secondo uno smaccato (e ingenuo)
montaggio di pezzi del cuore infranto. È ritornata la retorica della bella e
dannata interiorità e del buonismo, ottimi sostituti della riflessione
politico-estetica sulla situazione attuale di quello che il critico romano
chiama «discorso poetico».
«Questa spoliticizzazione dell’arte, -
scriveva nel 1953 Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura -
della Letteratura, non può essere accidentale, particolare. È l’espressione di
una crisi generale che si potrebbe così definire: ideologicamente la borghesia
non ha più realtà immediata, moltiplica gli schermi, i ricambi, le
meditazioni: quasi non le si riconosce più una fisionomia».[1]
Forse oggi (e basta dare uno sguardo al
proliferare dei blog letterari) siamo nel bel mezzo di una nuova forma di
conformismo: un omologismo che non tollera l’esistenza di un
diverso assetto del pensiero. C’è una simil-critica di cortigiani e una critica
che non ha diritto di cittadinanza. È l’ideologia dell’omologismo che
qui si annuncia.
Come Linguaglossa ha illustrato, oggi,
anche nella situazione di disarmo generale dell’intelligenza del Dopo
il Moderno, non ci può essere altra strada che quella di un nuovo impegno e
di una nuova responsabilità dello scrittore e del discorso poetico.
Mi stupisce che critici e autori delle nuove generazioni come Salvatore
Ritrovato e Stefano Dal Bianco rivalutino invece la «irresponsabilità» della
scrittura letteraria. Questi autori dicono che lo scrittore non ha delle
«risposte» da dare al suo pubblico, confondendo due concetti molto diversi e
distanti tra loro, anzi, a mio avviso oggi lo scrittore è tanto più
«responsabile» proprio in quanto non ha alcuna «risposta» da offrire in
garanzia al lettore. Io piuttosto direi che oggi, molto più di ieri, il ruolo
dello scrittore dipende dalla tragicità di un linguaggio impossibile.
È questo il problema.
Il critico romano rivendica, con sottile
ironia socratica, che oggi l’unica forma possibile di scrittura è davvero quella
del talqualismo delle «scritture letterarie denaturate alla
Valerio Magrelli e alla Vivian Lamarque»; «al di fuori del minimalismo sembra
non esserci nient’altro che il minimalismo. Ma non è vero. Bisogna dirlo con
forza ai giovani: non imitate i modelli deresponsabilizzanti offerti dai falsi
padri. La via da seguire è esattamente l’opposta: la critica radicale ai falsi
padri e ai falsi modelli che essi rappresentano». Sono scritture che hanno
avuto successo e hanno fatto scuola. E chi osa mettersi contro il successo e i
grandi marchi editoriali che li hanno pubblicati? Ed ecco spiegato il successo
di epigoni degli epigoni come la poesia di Gianni D’Elia e di Franco Buffoni. È
un epigonismo che si autogenera e che non sembra avere fine. Qui, credo, siamo andati
ben oltre l’«ideologia del conformismo», siamo entrati, senza che ce ne siamo
resi conto, nella nuova situazione dell’omologismo e
dell’emulazione.
L’arte e la letteratura europea dagli anni
Novanta del Novecento in poi, segnano una lenta e inarrestabile crisi della
grande cultura novecentesca? Non so, può darsi. Il fatto indiscusso è che la
poesia dell’ultima decade del Novecento sembra avviata in una
inarrestabile deriva epigonica delle grandi direttrici della
cultura novecentesca. Si profila una interminabile cultura epigonica,
la crisi di identità di una cultura. Nel frattempo, nel 1989
crolla il muro di Berlino, scompare il limen con la divisione
in due parti dell’Europa e dell’Italia (un fenomeno simile a quello del crollo
di una diga). Ciò che in qualche modo contribuiva, almeno in Italia, a tenere
in vita una visione critica è venuto meno, in più c’è stato
l’esaurimento di un modello di sviluppo delle economie capitalistiche del mondo
occidentale e la fine della prima Repubblica.»
Giuseppe Pedota (1939-2008) è stato un grande pittore e un lirico di felice ispirazione, una intelligenza sempre contro corrente, ho collaborato con lui dal 1993 al 2005, a quel tempo facevamo una rivista "Poiesis". Questo scritto ora che l'autore è morto, assume per me il valore di un testamento spirituale e di una forte testimonianza per il rinnovamento della poesia.
RispondiEliminaPedota punta tutto sul concetto di "responsabilità" dello scrittore e del poeta, non va tanto per il sottile, indica il degrado e lo chiama "omologismo", qualcosa che va molto al di là del "conformismo", lo chiama "emulazione" come alla corte di un satrapo dove i poeti di corte e i letterati si affanno ad incensare le lodi del pubblico del Satrapo con testi sempre più sciatti e volgari, e fa due nomi di questo tipo di pseudo poesia: Franco Buffoni e Gianni D'Elia, ma l'elenco potrebbe essere lungo, intendo l'elenco di scritture irresponsabili (così le definiva Pedota) e cortigiane.
Pedota riteneva che dove c'è una poesia cortigiana e irresponsabile è risibile parlare di critica, si hanno al massimo scritture "talqualiste", lessicalmente neutre e sintatticamente ordinate agli ordini del Principe di turno.
Oggi che il paese è immerso in questa nebbia palustre penso che ci sia sempre più bisogno di spiriti liberi e indipendenti come quello di Giuseppe Pedota.
Se il blog me le chiede, invierò al blog le sue poesie, sono pure e snelle come il suo spirito. E vere.
Ninnj Di Stefano Busà
RispondiEliminaGent.mo Linguaglossa,
mi trovo attaccata, incollata alla sua idea della "nuova critica" come un francobollo. Le sue idee in proposito sono l'esatta visione di ciò che penso anch'io...e che vado affermando da tempo. Riflettevo qualche giorno fa, sulla reale collocazione della Critica riguardo alla pagina della Letteratura del futuro: il minimalismo ha creato mostri, da cui non riusciremo a divincolarci, senza aver assunto nei riguardi di questo movimento "irriguardoso" verso le generazioni che verranno, con un atto di dichiarazione di guerra, respingimento forzoso, molto più forzoso di quanto in realtà gli stessi epigoni lo hanno accolto: ignorandolo, non trasmettendolo, lasciandolo al palo, al lento depauperamento di circostanze sfavorevoli e insensate che lo hanno determinato.
Pienamente d'accordo con Giuseppe Pedota (e con Giorgio Linguaglossa che ne propone questo vibrante appello) sui mali del Postmoderno. Di questo omologismo imperante che inebetisce le menti e omogeneizza culture, individui e popoli, assassinando ogni identità, ho già parlato e tornerò a farlo, ma non in questa sede, dove è necessaria la massima sintesi. Esprimerò qui soltanto la mia perplessità in merito alla ricetta proposta, oscillante tra l'accettazione tragica di tale ineluttabile e intollerabile realtà, ed il desiderio nostalgico di tornare ai padri della Modernità, intendendo con ciò il recupero di quel diffuso ideologismo (di destra, di sinistra, di centro) che a mio modo di vedere è l'antecedente più immediato dell'omologismo attuale, anziché la sua negazione. Quale altro è, infatti, l'obiettivo di ogni ideologia, se non di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza, eliminando ogni diversità? E non è esattamente questo il risultato raggiunto dall'omologazione imperante? Dove sta allora il tradimento delle nuove leve rispetto alle precedenti? Io vedo solo e soltanto continuità, per cui dico che bisogna invertire la rotta, ponendo in discussione radicalmente i criteri di una cultura millenaria fondata sul dispotismo e sulla follia della razionalità.
RispondiEliminaFranco Campegiani