Serena
Siniscalco: IL POESIARIO IX
Genesi
Editrice. Torino. Pp. 128. € 20,00
Un’opera che tocca tutti i
tasti dell’umana vicenda
Da oltre nove anni immota
langue
l’altalena dell’angelo
piccino,
nell’angolo riposto del giardino.
Mi piace iniziare da questi
versi per scrivere sulla poesia di Serena Siniscalco. Una poesia dolce,
duttile, carezzevole, melanconica, anche, che fa dell’armonia un valore
aggiunto. Sì, perché Serena non si avventura in un poetare libero dove il verso
va a capo quando vuole. Lei lo domina, lo adatta al suo sentire, ne fa un
compagno fedele della sua quotidianità, della sua serenità o del suo dolore. Ed
è così che il verso diventa un graffito della sua anima. C’è dolore, sì, nella
sua poesia. Un dolore che nasce da disavventure umanamente incomprensibili.
Come quella di una perdita rievocata da quell’altalena umanizzata nel suo
languire; ma c’è anche la felicità, la gioia per l’ultimo germoglio, o per la
vita, perché Serena crede nella vita, nella sua sacralità, e nel supremo dono
che le è toccato:
.…Ho acquistato importanza,
sono quercia
nel vasto mio giardino,
regina d’alberi, orgogliosa e
fiera
di quanto nella vita ho
seminato.
E’ l’ultimo mio dono, ultimo
nato,
l’ultimo mio bene
l’aire mi dà a non morire
ancora (L’ultimo germoglio).
Ed
è abitudine della poetessa rivolgersi alla natura, renderla partecipe della sua
profonda umanità. C’è con tutta la sua
forza cromatico/allusiva, con figurazioni che mai sono oziose, ma sempre in
sintonia con la sua sensibilità pronta a dribblare il sentimentalismo.
Già ebbi a dire in una mia recensione
sul suo Poesiario VIII: “… Una poesia tutta volta a dipingere Serena Siniscalco,
la sua storia, una realtà interiore, disposta a coinvolgere ogni particolare in
tale funzione. Ogni pur minimo tratto della quotidianità. Ed è poetando con
simboli, con figure stilistiche che il linguaggio sa farsi allegorico,
allusivo. E che le serpi, la chiave
segreta, il bosso, la vela bianca, la clessidra assumono connotazioni ben
precise nel rivestire impulsi emotivo-intellettivi. Tanto che, dicendo
allegoricamente, la Nostra dà l’idea di collocarsi, con una serenità disarmante,
oltre le cose; su una torre ariostesca, dalla quale il mondo si fa più piccolo,
le vicende meno drammatiche, e lo spleen
storia normale, fatale allo sguardo disincantato della poetessa; al suo
sentire; dove ogni elemento cospira a che la di lei dimensione spirituale ne
esca pulita, aperta, gioviale, pensosa; umana, insomma, e se triste, pur sempre volta
a rapire la luce al buio della notte…”. Ed è proprio così. Mai si scade
nella sua poesia in un piangersi addosso, in una becera lamentatio, in un melico sentimentalismo decadente. La Nostra
dipinge i fatti, gli accadimenti, nel loro dipanarsi naturale e quotidiano; i
suoi stati d’animo emotivamente coinvolgenti. Ed è il memoriale che spesso
entra in scena, un memoriale che la riporta ad antiche primavere:
La neve. Oh, la mia neve ad
inalbare
Erte irte di larici ed abeti,
in raggi appena tiepidi
iemali,
a strie di sci, binari
voluttuosi;
membranze perse ormai di
quell’albore,
nella valle che il cuore
m’accarezza.
Addio mia giovinezza! (La Valtellina).
E c’è la curiosità, la sorpresa, la meraviglia
della scoperta:
Poi in un istante iridescente
il fiore
si sfuma nella bruma e poi
dispare.
Stupita resto di madre natura,
sempre così ineffabile ed
arcana
nel “divertissement” dono agli
umani,
che in tarda età mi meraviglia
ancora.
Ma
vi si legge anche un pensamento profondo sulla questione dell’inquietudine
umana. Su tutto ciò che di inspiegabile ci assilla e ci sgomenta. E volgere lo
sguardo oltre la siepe, spesso ci dà la dimensione della nostra pochezza. Della
fragilità del nostro esistere:
Che c’è al di là del muro oltre
la siepe,/
intrico cespuglioso e
impenetrabile/
che il guardo m’impedisce a
ritrovarvi/
l’inconosciuto senso della
vita? (Oltre la siepe).
Riflessioni,
melanconie, giochi di andate e ritorni, rievocazioni. E tutto in un dipanarsi
da sinfonia wagneriana. Tutto è morbido, delicatamente espanso da un un ars inveniendi di assidua frequentazione
poetica. Perché Serena crede nel verso metricamente calcolato, anche se
generosamente ispirato; nel verso adatto a pizzicare le sue corde per far
emettere suoni gradevoli e suadenti all’ascolto. Insomma un’opera complessa
nella sua semplicità. Un’opera che tocca tutti i tasti dell’umana vicenda. Ma
che sprona alla vita, a pensar positivo; a inneggiare all’amore, come fulcro
del mondo, con una speranza in cuore:
“Oh stelle mute nel silenzio arcano
(…)
Avrò
stanza fra voi,
lieta ed immensa nello spazio
eterno?”
Taci! Avverto un richiamo, già
uno stacco
da questa pure tanto amata
terra,
che m’incanta, m’affascina,
seduce.
E in vostra luce colgo la
speranza (Speranza di stelle),
sì,
un abbraccio totale a questa terra che l’affascina e seduce. E tanta luce in questi versi, tanta
luce che illumina <<“L’uomo del mio sorriso!”/ E fu lui, solo lui,
l’amato sposo>> (L’uomo del mio sorriso).
Nazario Pardini
10/03/2014
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