Scrivere
di Poesia, e fare Poesia sono cose serie; non si improvvisa, se poveri di mente
o di emozioni. E basta questo? No di certo. Lo scoglio più grande è forse la
parola, che il poeta, come giocoliere, lavora, rintaglia, smussa, arrotonda,
dilata, inventa insomma; fino a darle quel senso umano che dell'umano ha
qualcosa di più.
Se poi la Natura ti s'aggrappa all'anima, la fa sua
quest’anima, la rapisce e la trascina fra colline aspre di mare, su montagne
brillanti di neve, su piane meriggiate di sole, o su orizzonti senza limiti per
gli azzardi di una vista mortale, e dopo averla colorata è disposta a ridartela,
ma carica di sostanza che parla di te, della tua storia, è lei che dice tutto,
e tu, silenzioso e in estasi, l'ascolti mentre proficua ti rende la sua preda.
E' tutto là il grande senso della poesia: andare oltre i confini dello spazio
ristretto in cui viviamo. Ed è quello che fanno i POETI con le loro impennate
verbali, con le loro intuizioni etimo-foniche, con le loro vibrazioni interiori
e con quel grande slancio fonico-linguistico vòlto a completare l'equilibrio eternamente umano e dis/umano fra il seno che canta e la
parola che suona.
Ed è proprio in questi poeti che con i mezzi terreni, forse
troppo terreni, si cerca, con una vertiginosa verticalità, di allungare lo
sguardo oltre quei limiti che esigono l'apporto dell'anima. Se poi l'abbondanza
di emozioni è sorretta e controllata da intrecci metrici di grande impatto
armonico si fa da brividi il poièin. E parlo dell'impiego di una saggia varietà
versificatoria, che passando da misure brevi a più ampie prepara il terreno a
una cascata di armonie, epicentri e culmini di luminosa liricità. Direbbe il poeta: "La vita ha
bisogno del sogno, come la morte ha bisogno della vita. Ma è proprio la morte
a far sì che il sogno vada oltre l'umano per farsi sostanza, e pezzo di un
cuore che vinca la sorte".
Qui si canta; i versi dicono di musicalità, dicono di cultura, di organicità, di equilibrio, di suoni che
accarezzano i sensi, di misure intrecciate in nèssi corrispondenti ai ritmi che
da sempre pulsano nell’umano esistere. Da che l’uomo è uomo. E non c’è
argomento che non sia adatto a tradursi in poesia: sociale, politico, erotico,
religioso…
Basta che il Poeta lo faccia suo, lo imbeva del suo sentire, lo trasformi in immagine e lo renda al foglio pregno di vitalità. Sta qui la differenza fra realtà e immagine. Se mi soffermo su un oggettivismo piatto, disanimato, e impersonale tutto al più faccio cronaca, non certo poesia.
Basta che il Poeta lo faccia suo, lo imbeva del suo sentire, lo trasformi in immagine e lo renda al foglio pregno di vitalità. Sta qui la differenza fra realtà e immagine. Se mi soffermo su un oggettivismo piatto, disanimato, e impersonale tutto al più faccio cronaca, non certo poesia.
I più
grandi autori antichi e contemporanei ci hanno dimostrato che l’unico mezzo di ostacolare
la morte è il ricorso alla memoria. A quel pozzo inesauribile di vicende che,
sfumate dal tempo, ma non vinte, ci parlano di fragilità, di amore, di
malinconia, di cose perse, e sempre vive; di vicende che ci chiedono di tornare a respirare aria di terra natale, familiare.
E noi possiamo farlo,
possiamo soddisfare le richieste di tali vicende: lo possiamo fare
incastonandole nell’armonia del canto.
Nazario
Pardini
Paolo Ruffilli
Il tempo
Il tempo è un fiume
che scorre lento, placido
a tratti, ma solo nel suo
corso di pianura, perché
da giovane corre veloce
e impetuosamente
salta trabocca e spande.
E tuttavia, placato,
è pronto a ripigliare forza
e intorbidando l’acqua chiara
a rompere in furia
gli argini e le sponde,
a strabordare e travolgendo
e sradicando tutto
fuori dal suo corso
ad affogare.
che scorre lento, placido
a tratti, ma solo nel suo
corso di pianura, perché
da giovane corre veloce
e impetuosamente
salta trabocca e spande.
E tuttavia, placato,
è pronto a ripigliare forza
e intorbidando l’acqua chiara
a rompere in furia
gli argini e le sponde,
a strabordare e travolgendo
e sradicando tutto
fuori dal suo corso
ad affogare.
Antonio Spagnuolo
Antiche mura
La strada è
sempre un tocco di ricordi,
tra le
memorie, in cerca degli autunni trascorsi:
foglie di
betulla, gialle, le chiavi del cancello,
l’andirivieni
degli scrosci , le utopie ,
di quei
teneri colori di violetto,
quando la
città consumava il suo sonno,
e i
disinganni laceravano tele
per i polsi
incalliti nella gloria.
Ad ascoltare
melodie, o nelle tracce apparenti,
il
susseguirsi delle urgenze quotidiane
incidono in
cadenze ed i ciottoli hanno il timore
di presenze
nascoste.
I calzari
nell’improvvisa speranza
hanno la
rabbia allacciata alle vicende
del destino
che incombe.
Fu in quel
tempo che gli sguardi
intesero
indecise le parole,
per
raccontare gli assurdi mutamenti
di una antica
metropoli,
nelle incaute
libertà delle ombre.
Ma oltre il
respiro un tentativo
di stupire
alla corsa,
prima di
distruggere i consensi,
e confondere
il sudore che segna l’orizzonte.
A
riallacciare i nostri giorni al passato
egualmente lusinghe
e narrazioni
scandiscono
il pensiero riflesso tra le ciglia.
Ninnj Di Stefano Busà
E il mondo poi si sfalda
Il giorno contraddice i suoi roseti,
stilla albe di luce
su cime disseccate,
fronde ed erbe nuove sorridono.
Ma tornano inquiete le memorie,
naufraghe d’aria le farfalle in bozzolo.
Artigli inesorabili, le rese,
fuochi fatui sui sentieri del mondo,
mentre in terra di riporto
sopravvive il dolore dell’uomo,
presagio uguale che rinfocola la pena.
E il mondo poi si sfalda,
si mostra decomposto, in migrazione,
straniero a se stesso.
L’aurora scorre come fioca luce,
confida nella poesia del cuore,
magari nella felicità dell’attimo
che strazia il gioco delle trasparenze,
si fa già sonno al suo risveglio.
Umberto Vicaretti
Uccello migratore perso al vento
La notte distilla silenzi e attese,
a guado, inquiete, tornano memorie.
Sul quadrante dell’orologio a muro
lente salpano le ore verso l’alba,
naufraghe al sogno di cobalto e luce.
Qui, tra pareti assorte e stupefatte,
come il ragno immemore e tenace
anch’io fallaci reti tendo ai sogni
e aspetto.
Disdicono
le farfalle
gli abbracci che promisero ai rosai,
e inesorabilmente il tempo sfalda
certezze e accordi, calici corrompe.
Il giorno sarà sangue e lunghi
artigli,
luce decomposta, disarmonia
che lacera presepi e redenzioni.
Ahi! fiumi, messaggeri della Terra,
dov’è ora l’Eden, e perché scolora
l’azzurro delle vostre vene in minio?
Bruciano le città del mondo e alti
crepitano fuochi e ampolle d’odio.
Già s’invera il presagio della notte
ed io ritrovo intatta la mia pena,
uccello migratore perso al vento,
straniero ai cieli ed alle rotte
amiche.
Invano cerco approdi oltre le nebbie
e ignoti e incerti séguito orizzonti.
Confusamente stretto alla mia resa,
smarriti viaggiatori insieme andiamo.
E non sappiamo,
non
sappiamo dove.
Pasquale Balestriere
Avventura
Non più frontiere ha questa sera
che sgronda a brani
memorie e si trascina
alle spalle un giorno morto
con indicibile dolcezza.
Perciò saprei ridire ad una ad una
le favole impiccate al campanile.
Ma guardo avanti, ché grave mi spinge
l’arido tempo con passo tiranno.
Al vento ve n’andate, amori miei,
al vento, che mi strappa a giorno a
giorno
scaglie di cuore. Un manipolo ardente
di strade uguali si sfrangia
in questa sorda avventura. Per una
d’esse me n’andrò rinnegando
le scelte dagli occhi di vento.
Ho cuore puro e mano ferma: viatico
bastevole per chi
è risoluto alla vita.
Maria Ebe Argenti
Le cose semplici
Era il profumo delle cose semplici,
del caffellatte caldo nella tazza,
del pane abbrustolito sulla stufa
a riscaldare l’aria dell’ambiente,
un’aria che sapeva di carezze
e di felicità fatta di niente.
C’erano le galline nel pollaio
e l’orto steso al sole lungo l’argine
ed io non seppi mai dove finiva
quel sentiero tracciato dal passaggio
di gente del paese o di chiunque
saltasse loro il ticchio di sorprendere
il mormorio del fiume che fuggiva,
fuggiva verso il mare;
non seppi mai la varietà dei fiori
che punteggiavano il trifoglio, soffice
sotto i piccoli passi di una bimba,
ma conobbi il gradevole profumo
sottile e persistente di quei fiori
quando, dalla finestra, una ventata
faceva entrare le odorose essenze
a voler dire, forse, che la vita
ama il profumo delle cose semplici,
che fanno meno amara l’esistenza
nel momento in cui deve armonizzare
con la complessità dell’universo,
a gloria di Colui che tutto
move,
in una parte più e meno altrove.
Nazario Pardini
Parla ancora
Parla ancora!
Odo rare parole
nel bosco piangente
aghi di pino.
L’acqua calante
sciacquetta e s’allontana
coperta di pianti
dai candidi gabbiani;
parla!
Calde parole
ho bisogno di udire;
la morte divise il mio seno
e il corpo sepolto
lasciò lo spirito randagio.
Alimenta quest’anima deserta
fra le macchie dei pini e degli abeti:
i pruni ostili ricoprono infecondi
le spiagge della nostra rena.
Ora ti sento:
semplici parole
sgorgate da profondi affetti
fra le frasche dei mirti
e fra gli arbusti
riprendono i profumi
della mia pineta.
L’anima mia respira,
si fa corpo,
l’acqua non sciacqua,
ma voce chiara
e ben distinta
mi parla
delle lunghe pene
che ti tennero lontana.
I pescatori
di salmastro rosi
ricamano le reti
del tuo perpetuo canto.
La mia anima e la tua voce
sugli ultimi butti
dei giganti pini
guardano il cielo.
Parla ancora!
Il mio corpo si desta
se il tuo respiro
si rafforza e mi pervade.
Andiamo a rivedere il mare
anima in pena:
libero come sempre
mangia la rena
e ci abbandona.
No! Non fuggire!
Non mi lasciar
fra il frammentato albore
dell’acqua tremolante.
Odo parole stanche;
il vento riporta
i soliti rumori
dei remi sulle barche,
dei pescatori intenti,
dell’acqua fredda
sulle marcite foglie.
Parla!
Non ti allontanare:
vago di nuovo
e più non ti ritrovo
nell’acuto
dell’odor del mare.
Carla Baroni
I miei giorni remoti
I miei giorni remoti, cantilena
senza acuti o gorgheggi a nota alta,
ombre lunghe curvate nella sera
a cercare ristoro dentro ai sogni.
Se poi verde rimane ancora l'olmo
che intravidi per caso a Castelvecchio
od il muschio colato alla ferita
di un ontano gigante lungo il Po
l'acqua scorre. Invano la marcita
dà asilo al ramarro e alla castagna;
l'acqua scorre, inutile clessidra
del mio tempo rimasto sulle sponde
di una cava dall'onda imputridita.
I miei giorni remoti, cantilena
senza acuti o gorgheggi a nota alta,
ombre lunghe curvate nella sera
a cercare ristoro dentro ai sogni.
Se poi verde rimane ancora l'olmo
che intravidi per caso a Castelvecchio
od il muschio colato alla ferita
di un ontano gigante lungo il Po
l'acqua scorre. Invano la marcita
dà asilo al ramarro e alla castagna;
l'acqua scorre, inutile clessidra
del mio tempo rimasto sulle sponde
di una cava dall'onda imputridita.
Sandro Angelucci
Dove il limite si perde
Sono atomi
gangli della mia stessa carne
questi profumi
che un refolo di vento mi consegna.
Fiori di campo
erba recisa forse,
forse soltanto essenze.
Ma dentro, oltre, fino in fondo,
più in là e più sensibilmente?
Laggiù - o lassù -
dove, sfocato, il limite si perde?
Se non si può
almeno ci si provi con il cuore
ad intuire:
ci scopriremo non formati ancora
proiettati come luce nel futuro.
S’inizia a vivere
quando non c’è più nulla da capire.
Loriana Capecchi
Soffia libero il vento
Soffia libero il vento dove vuole
cercando il petto morbido di uccelli
e briglie discioglie ai cavalli
leggeri di nubi gitane.
E' cielo sopra gli orti
sopra i tetti
sopra le braccia aperte dei balconi.
Vagano cirri in fila e poi si sfanno.
Son nuvole le pecore nel prato.
Ed io qui ancora
/ fra le dita l'erba /
qui un'anima del corpo prigioniera
invidio i piedi liberi del vento
su tenerezze morbide di fieni
se scivola sul grano già l'estate
e l'aria azzurra azzurra si fa voglia
di quell' infanzia che non ritrovai
fedele ad aspettarmi sulla soglia
della mia casa aperta in faccia al cielo
dove giocò la fresca tramontana
con l'anima di panni stesi al sole.
E invano ammicca il tempo tra le pietre
del vecchio muro che non ha memoria
le primavere strette fra le mani
strappate ai cigli verdi delle fosse
nidi graffiando posti in fondo al cuore.
La vita passa e non la puoi fermare.
Di quel giocarsi i giorni scalzi al
vento
stregati dalla nenia di una conta
non restano che graffi sui ginocchi
e l'eco di una fiaba
la più cara
rimpianto come rondine di sera
che riga, nera, l'aria del tramonto.
Paolo Polvani
I gerani
Sono tranquilli scalatori:
si sono arrampicati
fino all'estremo rosso
senza un cenno d'affanno,
senza un lamento.
Sono acrobati del colore:
si tengono in equilibrio
tra bellezza e meraviglia.
Sono maestri pirotecnici:
hanno guizzi di fuochi d'artificio,
i petali sono lapilli di vulcano
che segnano l'inchiostro della notte.
Non bruciano
eppure vivono perennemente sulle soglie
del fuoco.
Se li guardi a lungo sanno come
stordirti
ma tengono ben salda la testa sulle
spalle.
Soltanto dondolano lentamente
sotto la carezza di un domestico vento.
Si tengono abbracciati stretti a un
acuto profumo.
Sanno come si vive:
spargono bellezza senza chiedere nulla
in cambio.
Sanno come si muore:
senza clamori, in silenzio,
in punta di piedi se ne vanno.
Giacomo Manzoni di Chiosca
Ottobre
Dopo la pioggia,
ecco, risplende il sole
in un trionfo vivo di colori.
Si veste la betulla giallo oro,
ed è rosso il prunalbo, e verde il pino,
e salta tra i suoi rami un cardellino.
Solo la calle dorme nella nebbia,
ma ne odo il respiro; e a mezzogiorno
ci manda dolce un canto di campane.
Restiamo qui, tesoro, stringi in pugno
questa luce d'ottobre, questo sogno
che ancora ci è concesso di sperare.
Restiamo qui, tesoro, è primavera
se mi tieni per mano ancora un'ora.
in un trionfo vivo di colori.
Si veste la betulla giallo oro,
ed è rosso il prunalbo, e verde il pino,
e salta tra i suoi rami un cardellino.
Solo la calle dorme nella nebbia,
ma ne odo il respiro; e a mezzogiorno
ci manda dolce un canto di campane.
Restiamo qui, tesoro, stringi in pugno
questa luce d'ottobre, questo sogno
che ancora ci è concesso di sperare.
Restiamo qui, tesoro, è primavera
se mi tieni per mano ancora un'ora.
Paolo Sangiovanni
Strada facendo
Ti dirò di mio padre questa sera
che rileggeva Sàlgari sul tardi.
E poi si addormentava con la testa
sul tavolo in cucina. Ti dirò
di lui, dei suoi rimorsi. I suoi peccati
così veniali da stupirne adesso.
Perché un padre è un’ellisse che ritorna
al punto di partenza ogni stagione.
Con le rondini, i crochi, gli ombrelloni.
E io penso che occorra ricordarlo
una volta ogni tanto nella vita
alla ricerca di quelle radici
che abbiamo lacerato nel cammino,
mendicanti di questa società
senza più Società. Destrutturata.
Deragliati, dispersi, ci accaniamo
sul povero più povero. E la notte
dentro i nostri lettucci immaginiamo
con invidia le vite dei più forti.
Degli assassini, dei lenoni, degli
usurai che ci smerciano parole
false,inutili,ambigue. A tradimento.
Ma dei perdenti, ma di nostro padre
no. Noi di loro non parliamo mai.
E invece poter dire qualche volta
del proprio padre quando non c’è più
senza false emozioni, solamente
con la turbata tenerezza di
chi sa che sta seguendo la sua traccia
inavvertitamente, è come fare
un cedimento al Buono. Al naturale.
Cadere mentre si parlava d’altro.
Come quelle fortezze medievali
definite imprendibili che poi
aperto solo un varco in qualche punto
i nemici invadevano a migliaia.
E non è una questione di vecchiaia,
di confusione, di navi attraccate
ai porti del buon senso o della resa
Strada facendo mentre pedaliamo
credendo di redigere importanze
la catena si allenta e ci stanchiamo.
E all’improvviso diventiamo vecchi.
E un modo nuovo di lettura allora
più ragionato e tenero ci prende.
Ci regola la vita. E riviviamo
accanto all’orlo del cratere che
sembra ci stia inghiottendo e non
lo fa
prima dell’ora ignota che ci attende.
Strada facendo mentre il tempo passa
tutti abbiamo paura di morire.
Ma non si può negare di esser vivi,
di essere stati vivi. Così allora
per non fuggire anch’io, per perdonarmi
ti dirò di mio padre questa sera.
Dopo mi sentirò solo e distrutto.
Come una cosa. Come una barchetta
che il vento spinge o che rallenta e
ferma.
E tutto non dipende mai da noi.
Franco Campegiani
Duende
E’ un fuoco di terra il mio dio.
Dalla caverna mi chiama
con scosse telluriche,
assiso tra fiasche panciute
nei più segreti grottini.
E sta con la vergine luna,
colmo il calice
dell’argenteo suo sangue.
Con lei danzerà,
con lei annegherà
dentro i limpidi specchi
delle botti là fuori a stagnare.
Tra i filari domani
verrà l’alba versando
quel suo fresco vino turchese
nella coppa del mio cranio.
Con il cuore a galla,
fra onde di gioia,
scoprirò quanto si amino
il cielo e la terra.
Nel mio fascio di nervi e di sangue,
tra resti di folla esultante,
allora si che potrò dileguarmi
sul dirupo più alto del mondo.
Dove nessuno saprà che risorgo.
Gianni Rescigno
In sogno una poesia
Per te
ho in sogno una poesia
e non
riesco ad afferrarne
gemiti
e sussurri.
Guizzano
nella luce del pensiero
nel buio
della notte
dove vado lento
con
occhi spalancati per incontrarti
anche
se mi sei accanto.Umberto Cerio
Migrare
E poi migrare!
Come l’ultima notte d’amore
all’ultimo giro di luna
nell’antro sconosciuto di Endimione
dopo l’addio alla terra che dorme.
Non chiedetemi ora di restare:
questo è il mio sogno assurdo,
l’ambiguo allontanarsi di stagioni.
Ascoltami, mia
terra:
questo frecciare di pensieri
oltre il mare, oltre terre sconosciute
è un pianto silenzioso,
come di donne atterrite a notte
dal rischio dei gommoni
su mare oscuro, greve di dolore.
Ascoltami, mia
terra:
non ti tradisco se il mio cuore affranto
vive naufragio atroce
sul mare di Sicilia o su altro mare
e se non vuol tornare
come emigrante di altri tempi.
E’ azzurro senza
amore
o un amore furtivo e clandestino,
autunno ritrovato
-rubato tra i ricordi degli ulivi-
nel giro di una nave senza vele.
Cos’è l’assenza
della luce
che ho sentito nel tuo ventre oscuro,
-la povertà del mondo-
e cos’è questo migrare d’anima
che atroce si ripete
nel tempo scosceso della mia vita?
Così, così è morire
poco per volta, senza mai sognare.
Ricchezza interiore e studio della parola sono le direttrici che, "dagli scogli di Leucade", hanno ispirato questa prima selezione poetica operata da Nazario Pardini. Due direttrici - specifica l'autore - che viaggiano all'unisono verso "quel senso dell'umano che dell'umano ha qualcosa di più". Qualsiasi argomento può essere adatto a tradursi in poesia (sociale, politico, religioso, erotico...), purché ci sia il poeta che sappia trasformare la realtà in immagine, l'oggetto in simbolo, la particolarità in universalità. E qui va chiarito che "universale" (o "essenziale", o "archetipico") non è sinonimo di "staticità", come viene spesso, ma erroneamente, inteso. "Eterno" è ciò che è identico a se stesso, e quindi eternamente vivo e nuovo nella temporalità. Questa è la Memoria di cui parla Pardini. Non un ricordo di cose morte e sepolte dal tempo, ma una presenza sanguigna e reale, nel tempo, della loro eternità. Così tutta la Natura parla all'uomo di se stesso, della sua essenza immortale, della sua più profonda verità. E la musica non è un vestito preconfezionato, un "a priori", una gabbia, ma è l'armonia delle cose stesse, delle cose in sé. E' l'onda sonora e nuda dell'universo, la musica di quelle essenze che possono anche permettersi di filtrare ritmi già noti, dando comunque loro nuova verginità.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Una interpretazione perfetta del mio assunto; con l'aggiunta dell'anima della tua filosofia mitopoietica che non è altro che la mia stessa anima. La memoria non è di certo staticità "Non un ricordo di cose morte e sepolte dal tempo, ma una presenza sanguigna e reale, nel tempo, della loro eternità. Così tutta la Natura parla all'uomo di se stesso, della sua essenza immortale, della sua più profonda verità". Grazie Franco della tua ricchissima e incisiva nota esplicativa.
EliminaNazario
Grande poesia, grande Antologia. Questa è arte; non di certo altra roba che ho avuto la l'occasione di leggere da poco pubblicata su questo, onesto, libero, e intellettualmente valido, blog.
RispondiEliminaFulvia
Ninnj Di Stefano Busà
RispondiEliminaChe sorpresa imbattersi, senza esserne al corrente, in un altro tuo lavoro esegetico a vasto raggio d'azione! Per te la scrittura parte dal verso, ma non si esaurisce in se stesso, si articola, si ristruttura, si rimodula in altra categoria, come un ragno tesse la tela per nuove avventure letterarie, si riossigena di quell'antica eppur sempre nuova linfa che della poesia fa il suo arcolaio, con cui tessere nuovi equilibri semantici, nuovi linguismi, nuove verità immortali che permangono come nuova vita e speranza negli adepti. La tua fiducia nel modello della parola come non ha eguali: sei un profondo conoscitore di anime, il tuo pensiero va oltre le Colonne d'Ercole di un'eternità che si fa vita e parola in sé, alligna e scaturisce dalla stessa filosofia del pensiero che la trasferisce e la proietta. Mantieni sempre alto il credenziale mitopoietico del sublime. La tua parola è un assunto di libertà nell'ambito del mistero che la circonda. Grazie, per avermi inclusa nella tua antologia che ritengo esplicativa nel disegno programmatico di un "domani " che si propone come ordine necessitante ad una selezione di nomi che dovranno prendere il posto dei predecessori...complimenti! Prima o poi avverrà il -cambio di guardia- non resteremo di certo ai soliti quattro: Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi...