Guido Zavanone: TEMPO NUOVO
De Ferrari
Editore. Genova. 2013. Pg. 80. € 10,00
Un realismo psicologico che
tocca punte di alta poesia
Fenollosa Ernest Francisco affermava che la poesia è l’arte del tempo.
Perché riportare tale affermazione. Perché il tema del tempo ha una funzione
determinante nella poesia di Zavanone. Non solo da un punto di vista del
memoriale, ma soprattutto da quello della realtà contingente: hic et nunc. In lui l’ieri, l’oggi e il
domani si embricano indissolubilmente per dare energia espansiva al suo poema. È
cosciente del tepus fugit Zavanone. E
la realtà circostante la vive come frammento del suo essere mortale e degradante.
Ma dall’altra parte sente l’urgenza di farne un accadimento perpetuo, di
vincerne quel sapore di caducità, ricorrendo all’idea di arte/poesia; per proiettarsi
oltre il breve tratto della vicenda umana. Oltre lo sfacimento degli
autunni;
per accostare le chant d’un chardonneret
che sa tanto d’azzurro:
… Dov’era la foresta
si leverà un canto d’uccello
che nessuno potrà individuare
né preferire e neppur
intendere
salvo, lo Spirito divino
che lui l’ascolterà dicendo
“E’ un cardellino” (Profezia).
Afferma un poeta francese: “Dans
l'âme de chacun on peut retrouver, cachés, le poète et le mystique: un élan au
de là du temps”. Sì, vincere quel frangente che ci lega ad uno spazio ristretto
del nostro esistere. Alla nostra vicenda esistenziale. E d’altronde l’uomo non
può contenere il tutto; è fatto per una misura terrena; ed è da lì che deriva
la sua inquietudine, il suo male di vivere; quella naturale quanto dolorosa
diatriba fra la sua precarietà e il suo azzardo oltre la siepe. E anche se la
nostra anima può raggiungere le vette più alte dell’immaginazione e della
meditazione, da là gli sguardi si
sperderanno in orizzonti cosparsi di bruma. Sì!, la nostra mente non è fatta per contenere il tutto.
Quindi misuriamoci con la realtà che ci circonda. E Zavanone lo fa. La assorbe
questa realtà, la elabora e ri/elabora. La fa sua e la fa decantare per ri/portarla
a una vita zeppa del suo sentire, del suo dolore, anche. Sembra che la sua
poesia nasca dal percorso tormentato di una via
crucis. Da un redde rationem
ultimativo:
… Nave abbrunata e senza
equipaggio
dolce volto polena
accostatevi a me che
v’attendo
sulla banchina deserta
per l’ultimo viaggio (Volto d’angelo).
E gran parte della grande poesia,
per non dire des poètes maudits, fa
grande uso di questo sentimento di solitudine e di sperdimento. Un senso di
solitudine che mai è propinato in maniera aggressiva dal poeta, ma direi
sotteso e addolcito da un gioco di metafore e di nessi allusivi di resa lirica.
Ed è bello leggerlo in francese. Il canto si fa più melodico, più gentile, più
sonoro, più umanamente epocale. Ed è lì che il Nostro ci sa offrire una buona
fetta della sua sapientia linguisticocomunicativa.
La natura stessa mai è vissuta come semplice configurazione bucolicoidilliaca.
Ogni tratto di panorama, ogni sfavillìo di luce, od ogni fievolezza ombratile
non ha mai una semplice funzione descrittivodecorativa, ma declina in configurazioni visive i patemi emotivi. Il Nostro parla con la voce di
Pan. Ed è a lui che affida tutta la sua emozione poetica:
La sera attraverso i rami
che la stagione veste
di foglie gialle e di rame
filtra nel bosco
la sua malinconia… (Sera d’autunno).
E quale stagione può essere più vicina alla sottrazione delle sottrazioni
umane. Il poeta fa dell’autunno una storia universale senza cadere nel becero sentimentalismo.
Un realismo psicologico che tocca punte di alta poesia.
È
da lì che parte il suo poema, la sua ricerca filosofica, anche. Perché in fin
dei conti la poesia e la filosofia si rassomigliano tanto, dacché il loro scopo
è quello di scoprire, o di avvicinarsi il più possibile alla verità. Di
agguantarne la coda, almeno, visto che la vera verità è un grande ed
imperscrutabile mistero per le corde
umane. Ed è partendo dalle piccole cose, dai minimi fatti, che Zavanone cerca
di elevarsi all’oltre, cerca di azzardare lo sguardo verso orizzonti che hanno
tanto del sempre. E già nella prima poesia dedicata al lettore c’è questo
tentativo di allungare l’umano all’orecchio di un dio:
… O se il suo canto
risuonerà ancora
sulla Terrea deserta
forse solo un fruscio
da qualche vecchio disco
per l’orecchio di un dio (Al lettore).
C’è, qui, la coscienza della precarietà
dell’umano vivere, ma anche la speranza in un fruscio spirituale che tanto sappia
di slancio all’eterno; di spiraglio aperto ad una lampara che illumini il
buiore della notte, e vinca lo scorrere
monotono e vano del giorno:
M’accosto fraterno e presago
gli tocco la rigida mano
io dalla vita lui dalla morte
guardiamo
questo scorrere monotono e
vano
(Il vicino).
Un
ossimorico sciogliersi del canto; una contrapposizione appetitosa fra il tema
del mistero di una fine e l’strema musicalità del verso che non disdice rime, assonanze,
allitterazioni o altre accortezze fonico-allusive da romanza d’autore. Una
sicurezza del ductus poetico di
perspicua sapidità disvelatrice. Un importante uso del significante metrico. Ma
anche un affondo mordace alla verità di quegli accidents che da mortali dobbiamo subire in contrapposizione
all’eterna bellezza del poieo.
Ed è
proprio nella poesia eponima del testo che il poeta si spende quasi
ironicamente, ma con grande disillusione, nel Tempo
nuovo della sua vita. Nel tempo in cui la carne dimostra tutta la sua
debolezza, quella di una terrenità sconcertante:
… sonno profondo senza sogni per una
ben dosata anestesia
mentre un bisturi affonda
indifferente
nella mia carne viva. Oh
poesia! (Tempo nuovo).
La
vita è l’arte dell’incontro, diceva il poeta brasiliano Vinicius de
Morales, e vita e poesia sono la stessa cosa. E lo sono anche per Zavanone.
Perché il suo poema la contiene tutta questa vita; ne contiene la realtà più
cruda, l’immaginifico, l’illusione e la disillusione, il dolore e la melanconia;
ma anche il tentativo di scavalcarne i limiti. Ed è proprio questo polemos fra gli opposti a iniettare
sostanza e potenzialità a un poetare in cui la morte assume una valenza
determinante; dove il tempo fruga fra i rifiuti e cerca le ragioni nascoste tra
le mappe confuse della storia e ascolta
la voce smarrita di tutto ciò che non torna; e dove l’autore non prova né odio
né amore perché dalla tomba l’eterno ha un sentore di marcio e sa che il
mestiere di vivere è duro quando è suonata l’ora di morire.
Un realismo di autoptica vis creativa che infilza le perle di
questo racconto in una collana lucente; in una collana che riceve tutto il
calore del seno del poeta. E anche se vagisce un autunno che indifferente porta
via fra le pozzanghere i resti di un’estate procace; e anche se lo stesso
autunno è compassionevole verso un albero bruciato:
Sia consolato quest’albero
più non vedrà le sue foglie
ad una ad una cadere dai rami,
strisciare,
imputridire nel fango
(L’albero nudo),
c’è
sempre una luce, un fiore, una rinascita; c’è la vita, unica, sacrosanta e
irripetibile, a vincere sul tutto. Perché quel che traspare, alla fine, è
l’amore per questa avventura. Dacché il dolore del Nostro deriva proprio dalla
coscienza della sua mortalità; dall’attaccamento al bene più grande che ci sia
stato donato. Ma ci sarà una nuova primavera, verzicante, ad azzardare le sue
tenere foglie alle intemperie:
…
Presto accorrerà la primavera
a rivestirlo di foglie
diritto e forte
guarderà in faccia il cielo
che scenderà tra le fronde
a riposare
la sua faticosa eternità
(D’inverno l’albero),
una
epifanica primavera che porterà il cielo a riposarsi fra le fragili fronde. Ed
è in questa amalgama che si ritrova Zavanone.
Nazario Pardini
08/03/2014
Nessun commento:
Posta un commento