Voglio
concludere di notte
questo
lungo viaggio dentro lʼuomo
perché
nero è il suo colore e la madre
luna
sua unica speranza
sepolta
nel cuore di giaguaro.
Scrivo
da un Paese Paradiso
spaccato
in due dal cemento
segnato
dallʼincuria e dal tormento
inflitto
a ogni forma di bellezza;
qui
dove lʼora suona
con
la campana e la sirena
e
Dio eterizzato sʼaddormenta
dal
fetore dei rifiuti a cielo aperto,
nella
notte si leva dai covili
un
sordido rancore, dilaga
nel
fosco di campagne addormentate
si
mescola al veleno delle mafie
allʼarroganza dei forti e alle
legalizzate
porcherie dʼun sistema
corrotto
dai piedi alla cervice,
duro
fino al cuore
e
il mattino trova noi tutti un poco
più
velenosi di ieri, più scontenti
noi
che vogliamo tutto avere
senza
la fatica dellʼingegno,
maestri
dellʼinsipido senza cultura,
noi
che non sappiamo più la terra
il
murmure dellʼacqua, il
profumo
del
vento sullʼoceano dei
prati
siamo
un popolo che grufola indeciso
nel
suo passato e nel futuro
così
che scorre il presente e ci ingolfa
in
una dialettica improbabile
fra
ciò che siamo e che dovremo essere
e
ride il mondo e ci sbeffeggia
“ecco
gli eredi del grande
Rinascimento,
il popolo dʼartisti
che
vive allegramente in cicaleccio
per
ogni inutile argomento
mentre
la sua grande storia muore
in
una sabba di merda e di cemento
svenduto
dai corrotti e dai ruffiani,
popolo
di pezzenti e teatranti
di
ricchi ingordi e spietati
popolo
indaffarato di scrocconi
e
lestofanti
piazzaioli
imboniti e imbonitori
gente
che tutto vuole
senza
nulla dare
disposta
a farsi sfruttare per unʼesistenza
fatta
di gioco e gratta e
vinci”.
Non
vale dimetterti
se
ci sei dentro
non
vale neppure indignarsi e scendere in piazza
chiamando
pane e vendetta
agli
dèi della chiacchiera,
non
vale dopo gli anni del silenzio
al
torpore di promesse invereconde
non
vale abbandonare il carro dei perdenti
per
dire “non nel mio nome” dopo lʼassenso
omertoso
e il dileggio
per
chi ancora osava un pensiero
per
chi pagava lʼignavia del
vostro
stolido
privato
con
il travaglio dʼuna vita
schedata
voi
che avete accettato ogni stortura
col
mugugno dʼosteria, voi
che col voto
avete
avvallato ogni ricatto
ogni
mafia e illegale potere,
tirando
a campare, in attesa
che
una briciola cadesse dal desco dei forti
per
potervi accapigliare come cani, sgomitare
sognando
in cuor vostro vacche grasse
speranze
di spreco
al
di là di ogni spreco, ingozzarvi
di
ogni inutile oggetto e strasazi
volere
ancora e ancora volere
e
poi vomitare sul paesaggio
i
vostri immani rifiuti, i veleni;
voi
che alimentate lʼinflazione e la rapina
della
finanza col vostro stesso danaro
voi
che corrompete con scarpette e magliette
cibi,
bevande, giochi insanguinati
i
vostri figli – un mondo
dʼoggetti che grondano sangue
di
Paesi lontani, di donne e bambini
falcidiati
dalla vostra rapina -, voi
che
amate la durezza del cemento
e
disprezzate la tenerezza dei marmi antichi,
avete
costruito un Paese insopportabile
dal
quale si può soltanto evadere.
Per
questo invocate morte da ogni cellula
del
vostro corpo, da ogni pensiero. Per questo
vi
appare nemico ogni essere
un
pericolo il possibile,
un
azzardo il cambiamento: voi
vi
concedete come puttane antiche
e
disperate, ad ogni lestofante,
popolo
bastardo e inemendabile,
che
apri lʼali ad ogni vento fascista
ad
ogni duce che ti inchiodi, ad ogni
smania
presidenzialista – perché non sai
parlare
col nemico, vedere
dentro
lʼuomo che ti sta dinnanzi.
É
per questo che la notte ci tormenta
da
madre diviene matrigna e la luna
da
vergine si fa puttana,
è
per questo che il mio
cuore
gronda sangue e rimorso
per
non aver imbracciato il mitra
arrugginito
di mio padre partigiano,
di
non esser calato in piazza
puntarvelo
contro e dire
“altolà
folla di assassini
molecole
impazzite del sistema
questo
mitra è innocuo ma prometto
che
sparerà terribili parole
per
farvi tutti morire di vergogna,
voi
che soltanto bramate
di
tornare al mondo di ieri
dove
si viveva senza pensare
dove
dileggiaste lʼarte col
furore
integralista
perché
lʼarte vuole un mondo giusto. Io
mai
più sarò nuvola in
calzoni *
e
dunque sbranatemi poiché
al
poeta non rimane che lʼinsulto
come
estrema parola dʼamore”.
Gianmario
Lucini
* Riferimento al titolo del noto
poemetto di
Vladimir
Majakowskij
Gianmario
Lucini (Sondrio,
1953) è editore con la
sigla CFR, critico e poeta. Pubblicazioni recenti di
poesia: A futura
memoria, Il disgusto (2011), Monologo
del dittatore, Krisis, Poemetti del dito bestiario
e altre confessioni (2012),
Sapienziali, Per
il bosco, Canto dei bambini perduti (con disegni
di G. Cuttone - 2013). Ha scritto la parte saggistica
di Poeti e poetiche 1 e 2 (2012/13),Retrobottega
1, 2 e 3 (2011/12/13) e il saggio
Ipotesi
sulla nascita della poesia (2013).
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