Angelo
Manitta: Volubile cosmo. BIN BANG – La
via dello Zodiaco II. Il Convivio. Castiglione di Sicilia. 2012. Pagg. 136
€. 15,00
La spinta alla ricerca, l’azzardo ad oltrepassare il limen della vicenda umana
Bel testo, intanto, questo di
Angelo Manitta; un libro piacevole da sfogliarsi e da accarezzare; un’edizione
ben curata che invoglia a consultare, che si presenta con un aspetto estetico
di ottima fattura: dalla semplicità della copertina, ai caratteri ben
leggibili; dalla composizione, all’impatto grafico nel suo insieme; insomma un
volume che non si perde in inutili fronzoli ma che fa della sua concretezza un
prodromico invito ad affrontare la sostanza, gli intendimenti poetici, e tutti
i loro significanti metrici con autoptica vicinanza. Dacché ha già la sua
importanza l’intervento di un editore che faccia da scrematura per onorare una
collana di tutto rispetto. Quindi iniziamo a sfogliare, ad ascoltare lo
sfrigolio delle pagine, a spilluzzicare in qua e in là le parole, i sintagmi, i
nèssi, gli azzardi allusivi. Per poi tuffarci anima e corpo negli scarti creativi
di una lettura attenta e meticolosa, che ti porti a capire in che maniera
l’anima e la mente del poeta riesca a tradursi, a compattarsi, a ritrattarsi in
corpi e figure che ne delineino la struttura complessiva. Poema epico. Termine
che ci ri-porta a grandi voli di classica memoria, dove l’uomo-poeta azzardava
slanci verso mondi atti a sottrarlo da una condizione di effimera mortalità; ad
elevarlo verso infiniti ardori di sapere, e di gesta immortali. Verso onirici
spazi che, attraverso un catartico viaggio, lo affrancavano dalla sua
terrenità. Considerando che nella sua storia, in tutto il suo percorso
filosofico-esistenziale, ha sempre vissuto, l’uomo, questo sentimento di
dualità, questa dicotomica contrapposizione fra bene e male, Caino e Abele,
notte e giorno; quel dualismo che ha
sempre costituito il sale e il pepe ed il terriccio fertile della poesia.
D’altronde “Fatti non foste a viver come bruti…”, o senza scomodare Dante, “Quis scit, an adiciant hodiernae crastina
/ summae / tempora di superi?”, “Chi sa se gli
dèi superni aggiungeranno alla somma attuale un tempo futuro?”, o senza scomodare Orazio, “la
vie un milieu entre rien e tout”, afferma Pascal. Fra niente e tutto per dare
l’idea della insoluzione del nostro cammino e della sua irrequietezza
esistenziale, per dare l’dea di quanto l’uomo sia perennemente combattuto in
questa diatriba del suo essere mortale. E qui, veramente, ci si trova di fronte
ad un’opera di cospicuo spessore emotivo-cunturale. L’autore snocciola tutto il
suo voluminoso sapere in una versificazione che si compatta ampiamente con gli
slanci dell’anima; con la plurivocità di un sentire spinto dall’urgenza di
esternare figure di grande potenzialità storica attraverso una ricerca di
autoptica valenza. Decantate, magari, in un animo generoso e zuppato di ars
inveniendi desideroso di ri-portarle a vivere. Sì, perché la prima cosa che
salta agli occhi e alla mente è l’agilità con cui l’autore tratta la parola. E
lo fa con una energia semantico-allusiva di grande impatto empatico, con una
potenzialità creativa dai toni epico-lirici. Perché, al fin fine, di epica si
tratta, topos che ci porterebbe a pensare a qualcosa che si ricollega ad un
filone odissaico. E c’è l’aspetto positivo di questo filone, c’è tutto: la
spinta alla ricerca, l’azzardo ad oltrepassare il limen della nostra vicenda
umana, l’avventura verso scoperte che elevino oltre la siepe, dacché per il
Sapere Ulisse si fece legare all’albero maestro col rischio della stessa vita.
E che cosa significavano le sirene se non che il nuovo, la scoperta, il fine
verso il quale è indirizzato ogni palpito, pur coscienti della labilità delle
nostre forze? Ma la grande novità è che l’autore sa tingere di una vernice
lucida e fresca tutto il pathos del suo racconto. Per cui l’opera si fa nuova,
attuale, e estremamente contemporanea per la forma, per i significanti appoggiati
su un tappeto che collega la nostra vicenda umana col tempo, per la sostanza
culturale, per l’analisi introspettiva e per la fresca e libera agilità
prosodica. Innumerevoli i personaggi trattati che, epicamente, con tutta la loro
magica forza umana e disumana, fuoriescono dal profondo pozzo della vis
creativa del Nostro: personaggi tutti degni di passare alla Storia
attraverso un processo di sonora invadenza che nella mente dell’autore
assume proporzioni di gigantesca statura letteraria: si tratta di una parte di un ampio poema in 12 libri,
in 108 canti, con impostazione classica, ma in stile e versi liberi - di cui
Manitta ha completato la prima stesura -, che, con le loro varianti metriche,
riescono a combaciare timbricamente gli
input emotivi dell’autore. In definitiva questa parte risulta composta di
cinque canti, ognuno contraddistinto da un segno dello zodiaco: XXVI (Leo),
XXVII (Cancer), XXVIII (Gemini), XXIX (Taurus), XXX (Aries), XXXI (Pisces). Un’opera
mastodontica per originalità e per struttura, dacché incontriamo figure della
letteratura, della scienza, della filosofia,
della pittura, di coinvolgimento tanatico ed erotico … Uno spaziare a
360° gradi su tutto il mondo storico-culturale che fa dell’autore un vero
cultore della bellezza artistico-intellettiva. Pulcritudine, proprio, vera
pulcritudine di un poeta che dà tutto se stesso al canto, al vero canto, quello
sostanziato da contenuti di alto spessore fono- prosodico dove l’ieri, l’oggi e
il domani si embricano con energica compattezza stilistico-novativa, dando
forma al logos della poesia. E soprattutto considerando il fatto che sarebbe
facile cadere nel retorico o nel pedante in una trattazione del genere, dacché
la poesia si ciba soprattutto di fantasia, spontaneità, di anima memoriale, e
vicissitudine esistenziale che tendono a fare del biografismo un prolungamento
dell’essere. Ma l’autore ovvia a tutto questo con una verginità intuitiva, una
vicinanza emotiva, ed un ductus esplorativo talmente sentiti e spontanei che
fanno del sapere un magma fortemente presente da tradursi facilmente in una liricità
di effettiva resa poematica. Per cui non vi è nessuna differenza fra impegno e
soggettivismo, fra lirismo e oggettivismo, tutto scaturisce da un’anima che ha
tenuto nelle pieghe dei sui reconditi anfratti il saporito alone di una storia,
mutatasi, con duttilità, in immagine; in una visione attorniata da una calda
partecipazione emotiva. Di sicuro un articolato linguistico di vaghezze
semantiche vòlto a sottrarre la bellezza alla voracità del tempo; una
versificazione che si eleva alla grande, per congettura e sostanza, sopra a
tanta poesia infarcita di ismi di stampo “modernista d’assalto”, destinata a
cadere nel nulla per carenza ispirativa e per una decisa volontà di
sperimentare, rifiutando per principio ogni collegamento ad una tradizione. Quando
si sa che il futuro ha bisogno del passato per crescere.
Versi, dunque, che, dalla solida e
moderna tenuta, riescono ad evitare l’insidia dei luoghi comuni nel delineare
fra le presenze femminili Giulia Beccaria, Lucrezia Borgia, Virginia de Leyra…
rappresentanti di un plurale erotismo che tanto sa di vicenda umana. O nel
delineare una serie di uomini che hanno dato la vita per sfoltire le brume
dell’infinito: Cartesio, Erasmo, … Lutero, Calvino,… ; o artisti del calibro di
Modigliani, Manet, Bernini, Michelangelo; o regnanti da Carlo V a Napoleone…
Tutti personaggi che nella loro plurivocità ci offrono una netta e chiara gamma
della storia umana; della vita in tutta la sua vicenda da via crucis:
solitudini, amori traditi, dolori, abbagli di potere, errori, colpe; ma anche
risalite e ascese verso vertici di luce e di speranza, di lotte e di rinascite
che elevino al di sopra delle miserie. Perché al fin fine quel che prevale nel
poema è l’amore per la vita. Per la sua sacralità. Per questa esperienza unica
e irripetibile che vale la pena di vivere, anche se fra tormenti e delusioni. E
mi piace riportare i versi incipitarî che introducono la storia di Giulia
Beccaria, credo fra i più liricamente redditizi, per renderci conto del valore di
tanta poesia e di quale dolcezza e armonia - da romanza pucciniana direi – sia
condito questo incipit amoroso:
Non resisto alla pura
vertigine dell’amore.
L’eterno
ritorno dei meandri del sole
accordano
impulsi segreti di onde
che uniscono
ombre e foglie lontane (Giulia
Beccaria, pagg. 8).
Una vera simbiotica fusione fra sentimento erotico e
panismo simbolico in uno spartito musicale libero che gioca il tutto affidandosi
al verbo e ai suoi intarsi per rendere appetibile la lettura.
E tanti
sarebbero i pezzi da riportare e da segnalare per la loro portata di gioiosa
comunicabilità con la Bellezza. Cosa che non facciamo per non tramutare questa
nostra chiacchierata in un testo che rischia di annoiare per il troppo suo
prolungarsi.
La vita è
l’arte dell’incontro affermava un poeta brasiliano Vinicius De Morales. E vita e poesia sono la
stessa cosa. E qui c’è tutta la vita, proprio tutta, rappresentata dai più
disparati simboli che ne costituiscono nel bene o nel male un valido tassello.
C’è tutto l’essere e l’esistere, quel fatto che rende l’uomo un essere
razionale soggetto ad una perenne inquietudine per la coscienza dei suoi
limiti. Per quella dualità di memoria pascaliana fra lo stare e il volare; per
quella perenne voglia di protrarsi oltre, verso il più, la grandezza dell’arte,
della pittura, della poesia; verso quella parte di noi che più si avvicina
all’inarrivabile, alla coda dell’eterno:
Paul Gauguin
Da dove
veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Lontano,
lontano, da qui sulla capanna
sconsacrata
dell’aborigeno aprico, della donna
che s’addentra
a seni nudi nell’onda
della foresta.
La nudità dell’uomo, peccato
primigenio ed
incompreso, è caccia frugifera
di substanziale
vita, arcuati suppellettili
di caccia tra
idoli blasfemi ed impietriti.
L’uomo è là
nella sua solitudine che cura
la pelle
delicata del bambino e strofina
odori di
singhiozzi che accorciano brezze
di capelli. La
profondità della riva sommerge
desideri e
sogni d’un multiforme incubo
che smuore
all’ombra d’un truculento gatto,
totem d’antichi
orrori e seducenti
notti. Andiamo
verso il sole e la collina,
(…) (pagg. 71-72).
Manitta, incastonando in un poema di coinvolgente
attualità una molteplicità di figure umane, concretizza i processi della sua
filosofia e la ricerca del suo alter ego.
Ma possiamo anche affermare, senza alcun dubbio di
essere smentiti, che col suo intervento zeppo di fattività
estetico-intellettiva abbia ottenuto risultati di evidente compattezza ed
organicità formale, dando luogo alla ri-nascita di un genere letterario che,
pur affondando le radici nella storia dell’umanità, si presenta nuovo per
sostanza e potenzialità creativa.
Nazario Pardini
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