mercoledì 14 maggio 2014

N. PARDINI: LETTURA DI "VOLUBILE COSMO", DI ANGELO MANITTA




Angelo Manitta: Volubile cosmo. BIN BANG – La via dello Zodiaco II. Il Convivio. Castiglione di Sicilia. 2012. Pagg. 136 
€. 15,00

  La spinta alla ricerca, l’azzardo ad oltrepassare il limen della vicenda umana


Bel testo, intanto, questo di Angelo Manitta; un libro piacevole da sfogliarsi e da accarezzare; un’edizione ben curata che invoglia a consultare, che si presenta con un aspetto estetico di ottima fattura: dalla semplicità della copertina, ai caratteri ben leggibili; dalla composizione, all’impatto grafico nel suo insieme; insomma un volume che non si perde in inutili fronzoli ma che fa della sua concretezza un prodromico invito ad affrontare la sostanza, gli intendimenti poetici, e tutti i loro significanti metrici con autoptica vicinanza. Dacché ha già la sua importanza l’intervento di un editore che faccia da scrematura per onorare una collana di tutto rispetto. Quindi iniziamo a sfogliare, ad ascoltare lo sfrigolio delle pagine, a spilluzzicare in qua e in là le parole, i sintagmi, i nèssi, gli azzardi allusivi. Per poi tuffarci anima e corpo negli scarti creativi di una lettura attenta e meticolosa, che ti porti a capire in che maniera l’anima e la mente del poeta riesca a tradursi, a compattarsi, a ritrattarsi in corpi e figure che ne delineino la struttura complessiva. Poema epico. Termine che ci ri-porta a grandi voli di classica memoria, dove l’uomo-poeta azzardava slanci verso mondi atti a sottrarlo da una condizione di effimera mortalità; ad elevarlo verso infiniti ardori di sapere, e di gesta immortali. Verso onirici spazi che, attraverso un catartico viaggio, lo affrancavano dalla sua terrenità. Considerando che nella sua storia, in tutto il suo percorso filosofico-esistenziale, ha sempre vissuto, l’uomo, questo sentimento di dualità, questa dicotomica contrapposizione fra bene e male, Caino e Abele, notte e giorno; quel dualismo  che ha sempre costituito il sale e il pepe ed il terriccio fertile della poesia. D’altronde “Fatti non foste a viver come bruti…”, o senza scomodare Dante, “Quis scit, an adiciant hodiernae crastina / summae / tempora di superi?”, “Chi sa se gli dèi superni aggiungeranno alla somma attuale un tempo futuro?”, o senza scomodare Orazio, “la vie un milieu entre rien e tout”, afferma Pascal. Fra niente e tutto per dare l’idea della insoluzione del nostro cammino e della sua irrequietezza esistenziale, per dare l’dea di quanto l’uomo sia perennemente combattuto in questa diatriba del suo essere mortale. E qui, veramente, ci si trova di fronte ad un’opera di cospicuo spessore emotivo-cunturale. L’autore snocciola tutto il suo voluminoso sapere in una versificazione che si compatta ampiamente con gli slanci dell’anima; con la plurivocità di un sentire spinto dall’urgenza di esternare figure di grande potenzialità storica attraverso una ricerca di autoptica valenza. Decantate, magari, in un animo generoso e zuppato di ars inveniendi desideroso di ri-portarle a vivere. Sì, perché la prima cosa che salta agli occhi e alla mente è l’agilità con cui l’autore tratta la parola. E lo fa con una energia semantico-allusiva di grande impatto empatico, con una potenzialità creativa dai toni epico-lirici. Perché, al fin fine, di epica si tratta, topos che ci porterebbe a pensare a qualcosa che si ricollega ad un filone odissaico. E c’è l’aspetto positivo di questo filone, c’è tutto: la spinta alla ricerca, l’azzardo ad oltrepassare il limen della nostra vicenda umana, l’avventura verso scoperte che elevino oltre la siepe, dacché per il Sapere Ulisse si fece legare all’albero maestro col rischio della stessa vita. E che cosa significavano le sirene se non che il nuovo, la scoperta, il fine verso il quale è indirizzato ogni palpito, pur coscienti della labilità delle nostre forze? Ma la grande novità è che l’autore sa tingere di una vernice lucida e fresca tutto il pathos del suo racconto. Per cui l’opera si fa nuova, attuale, e estremamente contemporanea per la forma, per i significanti appoggiati su un tappeto che collega la nostra vicenda umana col tempo, per la sostanza culturale, per l’analisi introspettiva e per la fresca e libera agilità prosodica. Innumerevoli i personaggi trattati che, epicamente, con tutta la loro magica forza umana e disumana, fuoriescono dal profondo pozzo della vis creativa del Nostro: personaggi tutti degni di passare  alla Storia  attraverso un processo di sonora invadenza che nella mente dell’autore assume proporzioni di gigantesca statura letteraria: si tratta di una parte di un ampio poema in 12 libri, in 108 canti, con impostazione classica, ma in stile e versi liberi - di cui Manitta ha completato la prima stesura -, che, con le loro varianti metriche, riescono a combaciare timbricamente  gli input emotivi dell’autore. In definitiva questa parte risulta composta di cinque canti, ognuno contraddistinto da un segno dello zodiaco: XXVI (Leo), XXVII (Cancer), XXVIII (Gemini), XXIX (Taurus), XXX (Aries), XXXI (Pisces). Un’opera mastodontica per originalità e per struttura, dacché incontriamo figure della letteratura, della scienza, della filosofia,  della pittura, di coinvolgimento tanatico ed erotico … Uno spaziare a 360° gradi su tutto il mondo storico-culturale che fa dell’autore un vero cultore della bellezza artistico-intellettiva. Pulcritudine, proprio, vera pulcritudine di un poeta che dà tutto se stesso al canto, al vero canto, quello sostanziato da contenuti di alto spessore fono- prosodico dove l’ieri, l’oggi e il domani si embricano con energica compattezza stilistico-novativa, dando forma al logos della poesia. E soprattutto considerando il fatto che sarebbe facile cadere nel retorico o nel pedante in una trattazione del genere, dacché la poesia si ciba soprattutto di fantasia, spontaneità, di anima memoriale, e vicissitudine esistenziale che tendono a fare del biografismo un prolungamento dell’essere. Ma l’autore ovvia a tutto questo con una verginità intuitiva, una vicinanza emotiva, ed un ductus esplorativo talmente sentiti e spontanei che fanno del sapere un magma fortemente presente da tradursi facilmente in una liricità di effettiva resa poematica. Per cui non vi è nessuna differenza fra impegno e soggettivismo, fra lirismo e oggettivismo, tutto scaturisce da un’anima che ha tenuto nelle pieghe dei sui reconditi anfratti il saporito alone di una storia, mutatasi, con duttilità, in immagine; in una visione attorniata da una calda partecipazione emotiva. Di sicuro un articolato linguistico di vaghezze semantiche vòlto a sottrarre la bellezza alla voracità del tempo; una versificazione che si eleva alla grande, per congettura e sostanza, sopra a tanta poesia infarcita di ismi di stampo “modernista d’assalto”, destinata a cadere nel nulla per carenza ispirativa e per una decisa volontà di sperimentare, rifiutando per principio ogni collegamento ad una tradizione. Quando si sa che il futuro ha bisogno del passato per crescere.
        Versi, dunque, che, dalla solida e moderna tenuta, riescono ad evitare l’insidia dei luoghi comuni nel delineare fra le presenze femminili Giulia Beccaria, Lucrezia Borgia, Virginia de Leyra… rappresentanti di un plurale erotismo che tanto sa di vicenda umana. O nel delineare una serie di uomini che hanno dato la vita per sfoltire le brume dell’infinito: Cartesio, Erasmo, … Lutero, Calvino,… ; o artisti del calibro di Modigliani, Manet, Bernini, Michelangelo; o regnanti da Carlo V a Napoleone… Tutti personaggi che nella loro plurivocità ci offrono una netta e chiara gamma della storia umana; della vita in tutta la sua vicenda da via crucis: solitudini, amori traditi, dolori, abbagli di potere, errori, colpe; ma anche risalite e ascese verso vertici di luce e di speranza, di lotte e di rinascite che elevino al di sopra delle miserie. Perché al fin fine quel che prevale nel poema è l’amore per la vita. Per la sua sacralità. Per questa esperienza unica e irripetibile che vale la pena di vivere, anche se fra tormenti e delusioni. E mi piace riportare i versi incipitarî che introducono la storia di Giulia Beccaria, credo fra i più liricamente redditizi, per renderci conto del valore di tanta poesia e di quale dolcezza e armonia - da romanza pucciniana direi – sia condito questo incipit amoroso:

Non resisto alla pura  vertigine dell’amore.
L’eterno ritorno dei meandri del sole
accordano impulsi segreti di onde
che uniscono ombre e foglie lontane (Giulia Beccaria, pagg. 8).

Una vera simbiotica fusione fra sentimento erotico e panismo simbolico in uno spartito musicale libero che gioca il tutto affidandosi al verbo e ai suoi intarsi per rendere appetibile la lettura.
        E tanti sarebbero i pezzi da riportare e da segnalare per la loro portata di gioiosa comunicabilità con la Bellezza. Cosa che non facciamo per non tramutare questa nostra chiacchierata in un testo che rischia di annoiare per il troppo suo prolungarsi.
        La vita è l’arte dell’incontro affermava un poeta brasiliano  Vinicius De Morales. E vita e poesia sono la stessa cosa. E qui c’è tutta la vita, proprio tutta, rappresentata dai più disparati simboli che ne costituiscono nel bene o nel male un valido tassello. C’è tutto l’essere e l’esistere, quel fatto che rende l’uomo un essere razionale soggetto ad una perenne inquietudine per la coscienza dei suoi limiti. Per quella dualità di memoria pascaliana fra lo stare e il volare; per quella perenne voglia di protrarsi oltre, verso il più, la grandezza dell’arte, della pittura, della poesia; verso quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile, alla coda dell’eterno:

Paul Gauguin

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Lontano, lontano, da qui sulla capanna
sconsacrata dell’aborigeno aprico, della donna
che s’addentra a seni nudi nell’onda

della foresta. La  nudità dell’uomo, peccato
primigenio ed incompreso, è caccia frugifera
di substanziale vita, arcuati suppellettili
di caccia tra idoli blasfemi ed impietriti.

L’uomo è là nella sua solitudine che cura
la pelle delicata del bambino e strofina
odori di singhiozzi che accorciano brezze
di capelli. La profondità della riva sommerge

desideri e sogni d’un multiforme incubo
che smuore all’ombra d’un truculento gatto,
totem d’antichi orrori e seducenti
notti. Andiamo verso il sole e la collina,
(…) (pagg. 71-72).

Manitta, incastonando in un poema di coinvolgente attualità una molteplicità di figure umane, concretizza i processi della sua filosofia e la ricerca del suo alter ego.  
Ma possiamo anche affermare, senza alcun dubbio di essere smentiti, che col suo intervento zeppo di fattività estetico-intellettiva abbia ottenuto risultati di evidente compattezza ed organicità formale, dando luogo alla ri-nascita di un genere letterario che, pur affondando le radici nella storia dell’umanità, si presenta nuovo per sostanza e potenzialità creativa.    

                                                Nazario Pardini


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