Sulla poesia
di Massimiliano Maccaroni
Nota
critica di Carmelo Consoli (collaboratore di Lèucade)
Mi vengono
in mente, leggendo i versi di Massimiliano Maccaroni, certi poeti e sognatori di
strade che attaccano le loro poesie ai muri e dai muri attendono occhi desiderosi
di letture ed emozioni. Parimenti mi ritornano in testa autori e cadenze
contrari alle convenzioni della società come quelli della beat-generation
americana, Jack Kerouac, tanto per citarne uno. La poesia, si sa ha sempre nuove frontiere, spesso limitrofe alle
situazioni parossistiche che possono talora
sconcertare i tranquilli frequentatori del verso melodioso, dell'endecasillabo,
della rima ricercata. Quella di Maccaroni è poesia dura, ribelle, anticonvenzionale,
contrassegnata da una parola che vuole dissacrare costumi ed usanze. Partendo da
una spietata visione dei giorni e dei paesaggi egli passa in rassegna la parte nascosta
e spesso rifiutata degli atteggiamenti e delle cose siano esse muri o cementi di
vecchi palazzi, oppure sensazioni proibite,
provocanti dichiarazioni come avviene
nella poesia “As-sumut”, o ancora
enuncia freneticamente formule, diagrammi e teoremi ancorandosi ad una fissità
di situazioni e deduzioni, come nella poesia “Formule”. Ma la sua voglia sfrenata di denunce e liberazioni è pari al riconoscimento dei propri limiti, della
propria fragilità e spesso ricorre in lui il desiderio di accedere a piccole felicità
e stupori, alla normalità, di pensare al trascendente, di sottoporsi ad auto analisi.
Come ampia è la sua libertà di sguardo e
di dichiarazioni è altrettanto fuori controllo( ma solo apparentemente) il suo versificare.
Frasi lunghe perentorie, controllate, ingabbiate da una punteggiatura fitta, sottolineate.
Una versificazione che ha una propria cadenza narrativa, scarnificata. Ama
procedere per lampi e tensioni. Ma se vogliamo
questa poesia contiene anche una musicalità
che sorprende, qualcosa che assomiglia ad una cadenza di tipo “rap” . I
versi di Massimiliano Maccaroni dunque straripano con la loro animosa parola che
tenta di sottrarsi ai conformismi della società e ricerca ideali a cui collegarsi
come accade nella poesia “Labbra” ( Omaggio a Jeff Konns). La sua scrittura, forse
ostile da digerire al primo impatto, è vera poesia in quanto profondo scavo dell'anima e ricerca
di verità esistenziale nella sua autentica, ruvida, disarmonica bellezza.
Carmelo
Consoli, collaboratore di Lèucade
7.
Venn
Su
questa mattina Dio ha scritto una poesia.
Nessuno
di noi la vede, nemmeno alzando lo sguardo ai gesti del cielo.
Una
manciata di versi,
le
frasi sui muri all’ombra dei ponti,
ricordano
tanto i diagrammi di Venn.
Lettere
abbracciate, nomi, cuori bislacchi,
le
relazioni che possono esistere fra insiemi diversi.
Credo
sia il modo che usano i ragazzi per appartenersi.
Per
non colare, quando l’acqua prova a cancellarli.
Gli
eterni messaggi d’inetta saggezza.
Su
questa mattina inchiodo il sole alle assi,
la
precaria stabilità dei chioschi a una terra,
il
labbro sul labbro,
il
silenzio, alla mia mano.
E
le rime che passano da qui,
raccontano
il cemento d’un amore grigio,
dei
vecchi palazzi
sulla
strada per İzmit.
E’
bellezza, sognare.
1. Labbra. (“Lips”. Omaggio a Jeff Koons)
Giallo mais disseminato.
Poche nuvole d’estate orfane di sole.
Le bocche chiuse – aperte,
quiete e desiderio,
materia opposta a spirito:
un mondo fragile di foglie colori.
La scia d’arancio succosa e strappata disegna il
mezzo cuore.
L’amore mai chiuso,
è la capacità dell’uomo sensibile di spremere succo
senza il frutto.
Ciocche di capelli in una valle d’ombra,
l’occhio, spalancato al cielo, guarda due diverse
dimensioni;
e pare attento, disperato di scoprire.
Qui, è confusione di sensi.
Più in alto, tutto è marginale.
11.
As-sûmut
La
parte essenziale di me,
là dove il silenzio, non è la misura della solitudine.
As-sûmut, le direzioni.
L’angolo
tra l’anima e il piede dell’astro.
Ciò
che ho appena scritto, è il frutto d’un immaginario tiro di crack.
Non
sono convinto che la mia sia poesia.
Invidio
quei poeti che sanno scrivere di stelle come se le avessero in tasca.
Invidio
la loro capacità di “ibridare” una semplice forma,
la
parola sorprendente, la sfumatura obbligata, una certa metrica sereniana,
l’invettiva
conversa, l’impietosa velleità qualunquistica.
La
versificazione sfrontata di una poetica Pop.
Amo
il suono che fa as-sûmut.
Semplicemente
questo.
Mi
piace la sensazione della lingua che sfiora il palato quando sibilo le esse.
C’è
l’aspettativa di un cunnilinguo, nel muoverla così.
As-sûmut.
Lo
sussurrerei all’orecchio di una donna
per
farle capire che la amo,
che
voglio scoparla,
che
voglio sposarla.
Lo
urlerei a Dio, quando sbaglia.
Resta
il fatto,
che
poter toccare una stella,
è
impossibile,
per
me.
10.
Autovalutazione
Ero
la mano che afferrava senza sosta.
Incerto,
sbilenco, il non-pensiero, i passi corti all’ombra d’una gonna.
Le
mezze voci appena comprensibili.
Ero
le braccia a un coniglio senz’occhi,
nel
posto giusto, ogni giorno: in piedi, sulla riva del latte.
Poi,
i giradischi, i capelli intrecciati di Jenny, le auto veloci,
il
tempo degli sforzi d’amore, fino a sanguinare.
Il
cielo snob sopra il mare di Nizza
e
un croupier, che accetta scommesse d’innocenza.
Bambino
incattivito e specchi:
rasoi,
barbe incolte, mille ciglia in controluce.
Qualcosa
di felice.
Certe
notti.
6.
Dieci spine di Ginestra
Si
può dire che l’uomo è in guerra con l’amore?
Dopo
l’ennesimo ti amo finito nel macero della canapa, credo proprio di sì.
Ogni
volta che questo accade ordino a un Lockeed Martin di pattugliare il
cielo a caccia del nemico.
Sto
alla finestra, in attesa, mentre fumo una sigaretta e ogni stella che conto è
una stella che complica il buio.
La
perdo, la cerco ancora, la ritrovo, svogliata e lontana, fino a decidere di
guardarne un’altra.
Sono
così uguali, cambia solo la distanza dai balconi delle case.
Scappano
via ma rimangono appese.
Le
stelle sono il passaggio più breve per la malinconia, una strada stretta che
costeggia un dirupo sul mare.
Qualcosa
è caduto dalla luna nel mio giardino.
Ha
lasciato una scia che non vuole sparire.
Il
cielo è così terso oggi. Perfino lui lo sa e si specchia nell’acqua.
Una
donna prende corpo dalle rose a cespuglio che ho piantato ad ottobre.
Avanza
lentamente, si avvicina fino a saldarmi i suoi occhi negli occhi.
Ma
questa forma di donna...
Imprecisa
e sfumata.
Questa
donna che apre la bocca e soffia scarabocchi; è tutte le parole mai scritte
sull’amore.
Chiaro,
scuro, enunciato, nascosto, vaporoso, indigesto, esitante, animoso.
Parliamo
di noi per un po’, come ho fatto con tutte le altre
e
quando il profilo delle labbra supera il confine delle nazioni,
i
primi colpi di mortaio, cadono vicino ai bivacchi notturni dei soldati.
La
tregua non dura per sempre.
E’
vitale far evolvere una situazione di stallo in una passione.
Molti
non lo apprendono e galleggiano in bicchieri ricolmi.
Gettano
via l’opportunità di soffrire dolcemente, di temere l’agguato, di poter
raccontare una storia,da vecchi.
Lottare,
quando si vorrebbe morire nei lunghi silenzi di Rongbuck.
Alla
fine, c’è sempre una guerra che non possiamo evitare.
Le
nostre gole assetate, la
Drosera intricata, dieci spine di Ginestra in un bosco.
9. Formule
Il numero piramidale quadrato.
n e n+1 sono due numeri consecutivi,
quindi uno dei due è pari.
Uno tra n, n+1 e 2n+1 è
multiplo di 3.
Un
problema enumerativo, interessa la valutazione delle somme delle potenze di
interi successivi.
La
mappa che associa un sottoinsieme A di X alla sua funzione
indicatrice 1A è iniettiva.
I
teoremi centrali del limite, sono una famiglia di teoremi di convergenza
debole, nell'ambito della teoria della probabilità.
Si noti ora che ogni numero naturale n è
compreso tra due quadrati consecutivi.
Si noti ora che è la massima differenza possibile
tra e .
Ma questa serie è notoriamente convergente.
La retta dei
reali è immersa nella retta degli iperreali.
La congettura di Riemann riguarda gli
zeri non banali e afferma che la parte reale di ogni radice non banale, è ½.
Supponiamo per assurdo che l'intervallo [0,1]
sia numerabile.
Se X è un insieme
non vuoto, su cui è definita una relazione d'ordine parziale, tale che ogni sua catena possiede un maggiorante; allora X contiene almeno un elemento massimale.
Il fumo del mio
sigaro disegna strane curve che salgono al soffitto.
Le tende del salone
pendono dall’alto verso il basso e ondeggiano, quando c’è corrente.
Una tazza di caffè
poggia sul piano di cristallo del tavolo. E’ in attesa di essere gustata.
Dal rubinetto della
cucina cola una goccia che batte sul bordo di un piatto sporco.
Mi torna in mente
mia moglie.
Le chiedevo di
indossare calze a rete sotto la tuta da ginnastica, tacchi alti e di impastarsi
le labbra con un rossetto dalla tinta molto forte.
La volevo vedere
sgraziata, bizzarra, come una ballerina di burlesque a fine carriera.
Mangiavamo in fretta
cose leggere, ci spogliavamo e facevamo l’amore sul divano.
Era il tempo
dell’istinto primordiale condiviso e delle piacevoli umiliazioni corporali.
Prima che un figlio
mai nato, spegnesse la conducibilità dei circuiti.
Poi non era più con
me, nemmeno a colazione e oggi, direi, è riuscita nell’impresa di dare l’avvio
a una forma malsana di rancore misto alla pietà.
Le luci della chiesa
vicino al parco sono accese. Deduco vi sia stata messa.
Il geranio nel vaso
in terrazzo non ha un bell’aspetto.
Forse ha bisogno di
un concime.
Anche io ne avrei.
Ieri ho visto un
anziano rovistare tra i rifiuti.
E un cane che
osservava, sperando anche lui che ci fosse un boccone da rubare.
A cosa serve, mi
chiedo, la vita di un clochard che dorme in un cartone.
Sono terrorizzato
dalle conseguenze della matematica.
Non esistono formule
per spiegare gli eventi.
E oltre il confine
c’è il deserto.
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