sabato 24 maggio 2014

E. CECERE E M. MASTRILLI: "PRESENTAZIONE". RECENSIONE DI C. FIORENTINI SU "FRAGILE..."


PRESENTAZIONI 
DI 
"FRAGILE. MANEGGIARE CON CURA" 
DI ESTER CECERE 
E DI 
"IMPRONTE SULL'ACQUA" 
DI MARCO MASTRILLI


RECENSIONE DI CLAUDIO FIORENTINI 
SU 
"FRAGILE MANEGGIARE CON CURA" 
DI ESTER CECERE

Per favore, fate silenzio. Non parlate a voce alta, che è fragile questo brusio. Non cercate di brillare in questa pudica oscurità, perché ci sono parole che contengono cose fragili, da maneggiare con cura.
Personalmente, non ho sentito subito questo richiamo, forse perché un titolo come questo prima di esser letto dovrebbe essere capito. Cosa significa fragile e cosa significa maneggiare con cura. Cosa c’è qui dentro che può rompersi con un gesto brusco, con una voce più forte, con un piccolo urto, con uno starnuto o con una lettura sbagliata?
Forse questo è il senso del titolo: non leggere così come si legge un libro di poesie, ma delicatamente, in punta di piedi, e con quel pizzico di distacco in più, che ci permette di riattaccarci a ciò che passa tra le parole.
Non nego che ho faticato a leggere il libro, non per livello di difficoltà o di complessità, ma proprio il contrario. Per leggere bisogna prima svuotarsi completamente, liberarsi da pesi e fardelli, dimenticare orpelli e lagne, per non ritrovarli qui, per non proiettarli in queste poesie. Troppo rischioso è leggere avendo un vissuto da scaricare e proiettare, leggeremmo i nostri rancori, i nostri dolori… Quindi mi sono dotato di un trapano elettrico, una levigatrice e un avvitatore, ho buttato via le mie proiezioni e ho scolpito le parole che ho letto in ogni verso. Ho lavorato in questo modo, ripulendo la lettura, togliendo me, togliendo le mie sovrastrutture, togliendo la pietra inutile dalla scultura che c’è sotto, per ritrovare il nulla ed affrontare il verso, libero da me. E ho trovato le parole che da sole valgono per quello che sono, e in questi versi chiedono di essere toccate, e accarezzate.
Ecco come si legge questa poesia: è TATTILE.
Allora ho cambiato registro di lettura, ed ho cominciato a toccare le parole nei versi, come se toccassi una ringhiera in ferro battuto lavorata secondo metodi antichi e, seguendo le curve e gli angoli di queste strutture, ho capito come farmi sedurre dalla forma poetica espressa in questo libro. Per questo è vero che occorre maneggiare, ma proprio maneggiare, e per giunta con cura.
Quindi, allontanando le mani, rimangono le emanazioni di queste forme che non  si esprimono più col contatto, ma con lo sfioramento, con l’irradiazione, col calore e col freddo, con la vibrazione. E la poesia diventa pranopoesia.
Dopo questa esperienza di lettura, ho dato uno sguardo alle note dell’autrice: nel suo piccolo questa silloge vuole richiamare l’attenzione sulla fragilità dell’anima.
E mi son detto: ma l’anima come si può dire fragile, se resiste anche alla nostra più abietta cecità?
Non credo che l’anima sia fragile, semmai lo è la nostra integrità, e quindi la nostra capacità di discernimento che è in continua crescita, può avere delle sbandate… in fondo se l’anima non spicca il volo, è solo perché non le diamo ascolto, e la voce ignobile della più gretta umanità ci guida in un baratro da cui, per fortuna, si può sempre uscire.
E se reali sono gli orchi. Ma le streghe consenzienti sono le vergini fanciulle che al ben noto gioco stanno.
d’aliti di vento sospinta, elegante e fragile, nell’aria danzo.
I grandi e poderosi versi di questa raccolta pesano come pietre scolpite. Non si tratta di poesia leggera e dolce, dolce e leggera è la musica che li accompagna, ma ingannevole è l’armonia perché, in realtà, queste poesie sono dolore, sono quello che ci portiamo appresso come fardello nel nostro vivere:
Ch’io viva godendo di notti senza luna. Ch’io viva fremendo allo schiaffo del maestrale. Ch’io viva apprezzando il volo basso dei pipistrelli.
Eppure, dice godendo, fremendo e apprezzando, e per quanto lugubri siano le metafore, luminoso è il passaggio del poeta in quelle lande. Quindi questo grido si ribella alla rassegnazione, perché nell’antro popolato da pipistrelli esiste un sogno da sognare, perché quando il maestrale ci schiaffeggia si ripulisce l’aria, perché nelle notti senza luna si vedono più stelle.
Vediamole allora queste stelle, sforziamoci con gli occhi, rimaniamo svegli, e dimentichiamo le nostre piccolezze umane per ripulire l’anima da quella crosta di vizi e desideri che tanto ci fanno soffrire. Per questo
Non scriverò d’amore. È parco archelogico il mio cuore da sofferta polvere sepolto. È corredo funerario la trepidazione dell’attesa. È lacrimatoio infranto persino l’abbandono.
 Dice Ester.
Ma non è tutto finito. La polvere sofferta può esser spazzata via dal maestrale che ti schiaffeggia, la trepidazione dell’attesa può diventare gioia se ci rendiamo conto che ogni goccia di tempo è un attimo di vita, e l’abbandono è necessario per finire le lacrime, e nel vuoto che rimane lasciar spazio a un nuovo sorriso.
E dato che 
Già delinea l’aurora contorni e colori e riemergono torpidi strade, palazzi e bagliori.
allora
Su, mettiamo la maschera e al ballo parte prendiamo. Un inchino cortese, una mano con grazia baciata. Minuetti, quadriglie, leggiadri danziamo. Sulle punte dei piedi come piume volteggiamo
Ma poi
Vanifichiamo così un altro giorno ancora aspettando la notte, la sola sincera.
Sembra che tutto sia vano, inutile, che tutto sia fatto per dare la nostra energia a un altro giorno, e non il contrario. E infatti
A vivere ho abdicato. Non mi scalda la carezza del sole che scioglie cristalli nel cuore.
Ma per fortuna la vita non si lascia vincere e
Mi sorprende il vento a scompigliare leggero ricordi dismessi.
Ma i ricordi servono a ben poco, del resto non sono che un moto dell’anima, uno dei tanti, per cui
M’osserva smarrita il sorriso del mare che a orizzonti stranieri ora prelude.
E il vento è salvifico, è in esso che si trova la risposta, è nel vento che finalmente risorge la gioia e la voglia di prender parte a questo circo dell’umanità. Quindi
Una folata di vita ho respirato. Me l’ha portata il maestrale di maggio. Di cresta in cresta sul mare agitato saltava. D’improvviso, ne ho sentito il profumo, l’alito fresco sulla pelle spenta. Forse, muterò il lamento in canto.
E infatti, a questa lirica fa seguito una che canta ciò che di più profondo ci anima, l’amore per i figli, la più profonda delle luci che un essere umano conosca.
Il libro, dopo aver percorso la lacerazione dell’anima e la sedimentazione del dolore, si dispiega in una chiusa di profonda capacità contemplativa, dove riaffiora la speranza e si canta un augurio
benvenuti frulli d’ali, nidi e pigolii. Ché i giorni, da fitta nebbia resi indistinguibili, non siano solo d’albe e di tramonti sequenze ineludibili.
Perché dal finestrino, la vita. E alla stazione, forse, un abbraccio di fine corsa.


                                           Claudio Fiorentini

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