PRESENTAZIONI
DI
"FRAGILE. MANEGGIARE CON CURA"
DI ESTER CECERE
E DI
"IMPRONTE SULL'ACQUA"
DI MARCO MASTRILLI
RECENSIONE DI CLAUDIO FIORENTINI
SU
"FRAGILE MANEGGIARE CON CURA"
DI ESTER CECERE
Per
favore, fate silenzio. Non parlate a voce alta, che è fragile questo brusio.
Non cercate di brillare in questa pudica oscurità, perché ci sono parole che
contengono cose fragili, da maneggiare con cura.
Personalmente,
non ho sentito subito questo richiamo, forse perché un titolo come questo prima
di esser letto dovrebbe essere capito. Cosa significa fragile e cosa significa
maneggiare con cura. Cosa c’è qui dentro che può rompersi con un gesto brusco,
con una voce più forte, con un piccolo urto, con uno starnuto o con una lettura
sbagliata?
Forse
questo è il senso del titolo: non leggere così come si legge un libro di
poesie, ma delicatamente, in punta di piedi, e con quel pizzico di distacco in
più, che ci permette di riattaccarci a ciò che passa tra le parole.
Non
nego che ho faticato a leggere il libro, non per livello di difficoltà o di
complessità, ma proprio il contrario. Per leggere bisogna prima svuotarsi
completamente, liberarsi da pesi e fardelli, dimenticare orpelli e lagne, per
non ritrovarli qui, per non proiettarli in queste poesie. Troppo rischioso è
leggere avendo un vissuto da scaricare e proiettare, leggeremmo i nostri
rancori, i nostri dolori… Quindi mi sono dotato di un trapano elettrico, una
levigatrice e un avvitatore, ho buttato via le mie proiezioni e ho scolpito le
parole che ho letto in ogni verso. Ho lavorato in questo modo, ripulendo la
lettura, togliendo me, togliendo le mie sovrastrutture, togliendo la pietra
inutile dalla scultura che c’è sotto, per ritrovare il nulla ed affrontare il
verso, libero da me. E ho trovato le parole che da sole valgono per quello che
sono, e in questi versi chiedono di essere toccate, e accarezzate.
Ecco
come si legge questa poesia: è TATTILE.
Allora
ho cambiato registro di lettura, ed ho cominciato a toccare le parole nei
versi, come se toccassi una ringhiera in ferro battuto lavorata secondo metodi
antichi e, seguendo le curve e gli angoli di queste strutture, ho capito come
farmi sedurre dalla forma poetica espressa in questo libro. Per questo è vero
che occorre maneggiare, ma proprio maneggiare, e per giunta con cura.
Quindi,
allontanando le mani, rimangono le emanazioni di queste forme che non si esprimono più col contatto, ma con lo sfioramento,
con l’irradiazione, col calore e col freddo, con la vibrazione. E la poesia
diventa pranopoesia.
Dopo
questa esperienza di lettura, ho dato uno sguardo alle note dell’autrice: nel suo piccolo questa silloge vuole
richiamare l’attenzione sulla fragilità dell’anima.
E
mi son detto: ma l’anima come si può dire fragile, se resiste anche alla nostra
più abietta cecità?
Non
credo che l’anima sia fragile, semmai lo è la nostra integrità, e quindi la
nostra capacità di discernimento che è in continua crescita, può avere delle
sbandate… in fondo se l’anima non spicca il volo, è solo perché non le diamo
ascolto, e la voce ignobile della più gretta umanità ci guida in un baratro da
cui, per fortuna, si può sempre uscire.
E
se reali sono gli orchi. Ma le streghe
consenzienti sono le vergini fanciulle che al ben noto gioco stanno.
d’aliti di vento sospinta,
elegante e fragile, nell’aria danzo.
I
grandi e poderosi versi di questa raccolta pesano come pietre scolpite. Non si
tratta di poesia leggera e dolce, dolce e leggera è la musica che li
accompagna, ma ingannevole è l’armonia perché, in realtà, queste poesie sono
dolore, sono quello che ci portiamo appresso come fardello nel nostro vivere:
Ch’io viva godendo di notti
senza luna. Ch’io viva fremendo allo schiaffo del maestrale. Ch’io viva
apprezzando il volo basso dei pipistrelli.
Eppure,
dice godendo, fremendo e apprezzando, e per quanto lugubri siano le metafore,
luminoso è il passaggio del poeta in quelle lande. Quindi questo grido si
ribella alla rassegnazione, perché nell’antro popolato da pipistrelli esiste un
sogno da sognare, perché quando il maestrale ci schiaffeggia si ripulisce
l’aria, perché nelle notti senza luna si vedono più stelle.
Vediamole
allora queste stelle, sforziamoci con gli occhi, rimaniamo svegli, e
dimentichiamo le nostre piccolezze umane per ripulire l’anima da quella crosta
di vizi e desideri che tanto ci fanno soffrire. Per questo
Non scriverò d’amore. È parco
archelogico il mio cuore da sofferta polvere sepolto. È corredo funerario la
trepidazione dell’attesa. È lacrimatoio infranto persino l’abbandono.
Dice Ester.
Ma
non è tutto finito. La polvere sofferta può esser spazzata via dal maestrale
che ti schiaffeggia, la trepidazione dell’attesa può diventare gioia se ci
rendiamo conto che ogni goccia di tempo è un attimo di vita, e l’abbandono è
necessario per finire le lacrime, e nel vuoto che rimane lasciar spazio a un
nuovo sorriso.
E
dato che
Già delinea l’aurora contorni
e colori e riemergono torpidi strade, palazzi e bagliori.
allora
Su, mettiamo la maschera e al
ballo parte prendiamo. Un inchino cortese, una mano con grazia baciata.
Minuetti, quadriglie, leggiadri danziamo. Sulle punte dei piedi come piume
volteggiamo
Ma
poi
Vanifichiamo così un altro
giorno ancora aspettando la notte, la sola sincera.
Sembra
che tutto sia vano, inutile, che tutto sia fatto per dare la nostra energia a
un altro giorno, e non il contrario. E infatti
A vivere ho abdicato. Non mi
scalda la carezza del sole che scioglie cristalli nel cuore.
Ma
per fortuna la vita non si lascia vincere e
Mi sorprende il vento a
scompigliare leggero ricordi dismessi.
Ma
i ricordi servono a ben poco, del resto non sono che un moto dell’anima, uno
dei tanti, per cui
M’osserva smarrita il sorriso
del mare che a orizzonti stranieri ora prelude.
E
il vento è salvifico, è in esso che si trova la risposta, è nel vento che
finalmente risorge la gioia e la voglia di prender parte a questo circo
dell’umanità. Quindi
Una folata di vita ho
respirato. Me l’ha portata il maestrale di maggio. Di cresta in cresta sul mare
agitato saltava. D’improvviso, ne ho sentito il profumo, l’alito fresco sulla
pelle spenta. Forse, muterò il lamento in canto.
E
infatti, a questa lirica fa seguito una che canta ciò che di più profondo ci
anima, l’amore per i figli, la più profonda delle luci che un essere umano
conosca.
Il
libro, dopo aver percorso la lacerazione dell’anima e la sedimentazione del
dolore, si dispiega in una chiusa di profonda capacità contemplativa, dove riaffiora
la speranza e si canta un augurio
benvenuti frulli d’ali, nidi e
pigolii. Ché i giorni, da fitta nebbia resi indistinguibili, non siano solo
d’albe e di tramonti sequenze ineludibili.
Perché
dal finestrino, la vita. E alla stazione, forse, un abbraccio di fine
corsa.
Claudio
Fiorentini
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