Fulvio
Castellani: SERA DI PAROLE
IBISKOS ULIVIERI. Empoli. 2010. Pagg. 66. €.
12,00
Poesia
chiara, limpida, educata dal silenzio ad una frequentazione autoptica
dell’interiorità. Educata a oggettivare in semantiche allusioni abbrivi di
vertigini esistenziali. Cospirazioni panico-emotive che azzardano sguardi oltre
orizzonti impenetrabili per le nostre miopie di esseri umani; oltre
autunni che simboleggiano con i loro
sempre più brevi singhiozzi lo scorrere fugace della vita. Ed è questa la stagione più vicina al tormento del fatto
di esistere: alla dualità fra il nostro essere terreni e il nostro ambire al sempre;
fra la nostra fragilità e il nostro slancio all’azzurro. Un aveu che contiene brandelli d’anima di
ognuno di noi; che si stacca dal contingente e dal personale per innalzarsi ad un
sentimento di levatura universale, dove uno spleen
di forte tenuta verbale riesce ad evitare l’insidia de luoghi comuni:
…
E i giorni si aggomitolano
e i pensieri
le pagine di un diario senza
parole
diventano ombre
percorsi vagabondi
brevi, sempre più brevi
singhiozzi d’autunno (Singhiozzi d’autunno).
Singhiozzi
di una malinconica visione; di una cosciente apprensione del tempus fugit, di una precarietà che
inquieta, di una strada che si perde in un misterioso quanto mai inestricabile cul de sac senza ritorni:
A volte allungo il passo
rincorrendo papaveri bugiardi
e mi fermo
a chiedere elemosine
di sorrisi
ma la strada
mai non ritorna
sui miei passi
oltre il naufragio
e la muraglia dei sogni (Oltre il naufragio).
Forse
i sogni, sì, i sogni potrebbero proiettare il nostro spirito oltre la siepe, la nostra condizione di estrema
fragilità oltre un realismo crudo e sottrattivo. D’altronde l’atto onirico fa
parete della vita, e ne costituisce un momento essenziale, come ne fa parte la
morte. E chi dice che senza l’idea di Thanatos
la vita potrebbe apparire più lieta. Più vivibile. Non è forse questa idea ad
equilibrare i nostri comportamenti; a farci abbandonare a momenti di fuga, legati
al quando e al dove del vivere?
Ma
c’è l’inverno che corre forte, insaziabile e frenetico a bruciare l’ora calda
del ricordo; un ricordo che a volte assume valenza di sfida rigenerante, a
volte mera visione della casualità di un fatto:
…
L’inverno corre
a lunghi passi e altèri
brucia l’ora calda
del ricordo
l’ansimare lieto
di un fazzoletto bianco
al di là del muro
… (Senza fare altro).
…
Ed ecco la nebbia
l’affiorare di un naufragio
atteso
la fredda luce
che s’inclina abbozzando
notti irridenti
ingrigite di un’agonia
mugghiante
da un indugiare pigro
e senza senso.
…
(Forse invano).
Nemmeno il memoriale, il sacro
patrimonio del nostro esistere, regge in questo impietoso confronto, in questo
improponibile rapporto della nostra vicenda umana col tempo. E le parole, le
parole di questa sera autunnale, scorrono veloci, incalzanti, libere,
avvolgenti, nuove dettate da un’anima tutta intenta a tradurre il suo pathos in un realismo lirico di grande
impatto eufonico e plurale. Una parola che gioca con misure ora brevi, ora
ampie, con figure di alto simbolismo allusivo, con nèssi intrecciati in
costruzioni di apodittica vicinanza per l’ardore espansivo di metafore. Una
parola che mai è soddisfatta del suo logos
e che tenta ermeneuticamente di andare
oltre il senso del suo valore semantico per agguantare una interiorità che
riflette, medita, si sorprende, si illude e disillude. Di un cuore che tenta di
nutrirsi di scorse primavere, di fulgidi raggi, creandosi alcòve di riposo,
distrazioni da un impietoso e quanto mai inquietante sentimento di redde rationem. Una riflessione che la
nostra natura non contiene; l’infinito, la morte, e l’oltre sono misure in cui
si disperde l’anima umana. In cui si misura la nostra vicissitudine
occasionale. E quante volte in una qualsiasi notte di agosto ci siamo azzardati
in sperdimenti stellari senza uscita, senza soluzione: da brividi! Così, breve
è il riposo, ed immediato il ritorno a quei perché che non hanno risposte:
…
E il cuore si fa specchio
di ricordi e di momenti
irridendo il rotolare rauco
di domande senza risposta (Dietro la siepe).
Sì,
una nebbia che tutto nasconde; una luce fredda; un naufragio atteso; una notte
che chiude un travaglio fatto di attese:
…
Ed ecco la nebbia
l’affiorare di un naufragio
atteso… (ibidem).
E
alla intensità emotiva di una vicissitudine esistenziale si alternano input
ispirativi di spontanea potenza creativa:
il
sentimento erotico, con tutta la sua pluralità espansiva e umanamente
coinvolgente:
…
Non servono parole
alla voglia di amarti
ma indugio ancora
ad addolcire il sogno
con la dolce fragilità di una
parola sola… (Dolce
fragilità),
il
panismo simbolico, e tutto il suo potere oggettivante col ricorso a realtà ora tenui, ora
sfavillanti, ora decadenti, ed ora dolcemente vicine al consumarsi di una
storia:
D’azzurro
m’inonda il sole all’alba
svestendo ombre e silenzi
ciarlando brioso
al respiro leggero
di una voce che lenta
s’apre alla luce del cuore (Nudità),
il
linguismo, e la cospirazione di una parola che si fa sempre più fluida e
generosa nell’accostare autunni a vicende troppo umane:
La colpa è di nessuno
se la parola scivola via
leggera e assente
come foglia secca
al respiro dell’autunno.
…
(La colpa di nessuno).
E
c’è il silenzio, sì, il silenzio questo grande collaboratore rumoroso a
parlarci della vita, della sua invadenza mortale, in un colloquio stretto e
serrato, raccolto e meditativo:
…
Ma è più facile ch’io perda
per la strada
l’incendio di un sorriso
e che finisca per accogliere
le mie ceneri
in un fazzoletto di silenzi (In un fazzoletto).
Insomma
un’opera che in tutta la sua plurivocità ci dice dell’uomo e del suo
esistere. E ce lo dice prendendoci per
mano e portandoci a gustare sprazzi di sapido naturismo senza mai cadute di
stile; dribblando il sentimentalismo coll’esperire controllatissima effusività:
tintinni di campanacci al pascolo, tepore
di un bacio che l’erba sugge da una campanula raminga, autunni che vestono con
l’oro della loro vetustà richiami mortali, albe che frenano magie di onde dal
respiro lieve, o dolci brezze che corrompono tempi screpolati. Un abbraccio
al mondo tutto intero, alla sua totalità in un impeto di amore. Sì, anche se il
Nostro sente che “Non c’è scampo/ al grigio dell’autunno/ al brivido che
sgretola/ risvegli e inutili bagliori”, anche se affida spesso a questa
stagione tutto il suo taedium vitae, dacché
meglio di ogni altra ci dà l’idea dell’indebolirsi di un ciclo, al fin fine lo
fa perché in lui c’è questa ribellione verso un mondo che ci ha voluti
umanamente fragili e impotenti. E questa ribellione non è altro che il frutto
del suo forte legame alla vita. Del suo grande amore per essa che, alfine,
traspare chiaro dal sottofondo dell’opera; da ogni
manifestazione del suo
percorso umanamente
disumano, semplicemente complesso, ma veramente unico e ineguagliabile:
…
E allungo il passo
di rinnovato stupore (Stupore).
Nazario Pardini
13/05/2014
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