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lunedì 2 giugno 2014

MICHELE BATTAGLINO SU "QUATTRO LIRICHE DI N. PARDINI"

Variazioni sul tema della morte in quattro liriche
di Nazario Pardini



di Michele Battaglino 

   Queste quattro liriche sono altrettante originalissime variazioni di un tema centrale per tutti gli uomini: la morte. Le prime tre hanno in comune la struttura, il linguaggio e l’identificazione dell’io narrante con l’autore.
   Il peso delle pietre è la massa dei ricordi delle persone care scomparse, degli affetti, dei sogni, degli amori, che il poeta custodisce gelosamente e si tiene addosso come un «sacco di pietre aggrappato alle spalle», con l’intento di portarselo con sé oltre il fiume della morte.
   In Oltre il muro, l’autore immagina che le anime dei suoi cari defunti (padre, madre, fratello), a notte fonda, mentre i viventi dormono, «s’incontrano tra i tigli / ed i cipressi» sul prato interno al cimitero e «parlano di affetti e di ricordi», senza proferir parole, ma «l’aria che vibra» è il segno della loro momentanea risorta vitalità.
   Nel componimento La morte è la morte in persona che si presenta al poeta non «nei modi più strani» con cui l’ha sempre ritratta, ma come una «donna avvilita / macilenta e silente». E lui chiede ancora (e lei lo concede) «un attimo solo» per sistemare gli ultimi versi. Questi diranno della morte che è venuta e gli ha preso il corpo, «ma lo spirito lasciò / in mezzo ai mortali». Arriva infine la morte e se lo porta via, ma lo spirito «s’azzarda» a restare, ad «aggrapparsi alle nubi», inutilmente.
   Il quarto componimento è diverso dagli altri per struttura, linguaggio e oggettività della rappresentazione. Parla il greco Alceo in un canto che raccoglie per l’ultima volta tutti i temi della sua poetica: la passione civile e politica, l’amore e l’amicizia, l’occasione conviviale e il vino, la precarietà dell’esistenza umana. Prima che giunga la morte, Alceo vede con gli occhi della mente un festino con «sciami di fanciulle dalle guance / rosate e dai capelli d’oro» e un banchetto con l’amico Melanippo e gli altri, che invita a ubriacarsi e a lasciarsi sommergere dall’oblio per non pensare alla morte.
   Fin dalla prima lettura questi testi mostrano alcune peculiarità che potrei sintetizzare così: chiarezza espressiva, abbondanza di immagini, calore sentimentale.
   Il messaggio appare subito comprensibile, anche se (giustamente) non è veicolato mediante concetti, ma tramite grappoli di immagini, quasi pannelli diversi che illuminano o arricchiscono il motivo centrale. E questo è un Leitmotiv, una colonna sonora che attraversa tutto il componimento.
  La naturalezza di cui sto parlando non è frutto di ingenuità o mera spontaneità o limitatezza culturale, ma è il risultato di una profonda cultura, di un lungo esercizio e di una consolidata competenza tecnica. Pertanto, siamo di fronte a una semplicità apparente, soltanto perché la mano dell’artista sembra abilmente nascosta e di primo acchito quasi invisibile. È la chiarezza icastica che solo i veri poeti raggiungono dopo anni di scrittura e di sperimentazioni.
   Pardini procede generalmente per sequele di metafore e analogie che aprono continuamente nuovi scenari, quasi anelli di una catena. Ecco due esempi. Per dire che porterà sempre con sé il sacco dei ricordi oltre la morte, scrive: «L’abbraccerò con tutto il suo sapore / di terra coltrata, di verde di mare, / di luce di sole, / di perse parole» (Il peso delle pietre). Nella lirica La morte questa è ritratta con le seguenti immagini: «foglie dai rami cadenti,/ sere offuscate da brume,/ tramonti con neri pensieri,/ libecci che arruffano aghi,/…/ stecchi di tigli / su vaste distese nevate / e tramonti e serate / e anime morte randagie…».
   Rare sono le similitudini: «come natante tra le acque,/ come uccello tra i boschi,/ come vento tra i pini» (La morte); «quali cerbiatte sussultanti all’ombre /…/ quali puledre indomite di Tracia» (Il canto di Alceo).
   Una musica ininterrotta percorre l’intero componimento, gonfiandosi di note e armonie man mano che si va avanti (come palla di neve che, scendendo al piano, s’ingrossa vieppiù), grazie ad alcuni piccoli accorgimenti tecnici.
   Innanzitutto, una quantità di rime interne e assonanze con accento tonico preferibilmente sulla a (una vocale aperta che allarga l’ampiezza dell’immagine e del suono): «volati… tatuati… intrecciate… volati… tornati… sgretolata…restate… andate… aggrappato… guadare… volare… coltrata» (Il peso delle pietre); «offuscate… salate… nevate…serate… nottate… occupata… incavati… murato» (La morte). Ne Il canto di Alceo questa frequenza è più contenuta e distanziata, ma il ritmo viene ripetuto ogni tanto e l’eco resta nell’orecchio fino al termine della lettura: «cantare, v.1… chiara… mare, v.3… speculare, v.6… dimenticare, v.19… verginale, v.34… esalare, v.37… pensare, v.46… riassaggiare, v.50… vesperale, v.65» o anche «rifletteranno, v.13…sfioreranno, v.14… faranno, v. 18… ecciteranno, v.27… saranno, v.36».
   Un altro stilema caro al Pardini (e utilizzato nelle tre liriche fatte di versi liberi e di varia lunghezza, con prevalenza di quinari, senari e settenari) è la ripresa immediata, nelle prime parole del verso successivo, di una rima, che ne prolunga e incatena i suoni. Porto qualche esempio, aggiungendo di mio solamente il corsivo, per meglio evidenziare il concetto. Da Il peso delle pietre: «Di sguardi di lava volati nel cielo / e tornati a pesare…// restate nell’animo / e poi andate a sostare… // lo renderò una piuma,/ per fargli guadare quel fiume,/ per farlo volare». Da Oltre il muro: «e fra le stelle / belle le mie anime…// parlano di affetti e di ricordi / ai bordi dei sepolcri... // ma vedi l’aria che vibra / l’aria che tocca le fronde…// le lievi foglie / alle soglie dei sepolcri…// La vita, la morte,/ le corte strade,/ le rade immagini dei viventi,/ gli spenti visi del passato: tutto è beato ora…// e si anima nel tardi;/ se guardi sotto l’ombre…// i tramonti attendono l’oscuro,/ il puro regno / oltre quel muro…». Da La morte: «macilenta e silente / che striscia fra gente occupata / che conto non tiene / di pene, di affanni,/ di giorni, di anni
   Nella poesia che porta il suo nome, la morte è presente dappertutto, direttamente all’inizio e alla fine e indirettamente tante altre volte, attraverso un intelligente ricorso da parte del poeta a vocaboli indicanti oscurità, dolore, rottura, fine e simili, come «rami cadenti, sere offuscate da brume, neri pensieri, resti di mare, stecchi di tigli, anime morte, fonde nottate, macilenta, pene, affanni, dispersi, ultimi giorni, ultime cose, macule, ombre, occhi incavati, volto di cera, patisci, ultime ore, dolore dell’ultimo giorno, morte, murato, breve è il tragitto».
   Il canto di Alceo è un poemetto di 67 versi. Il metro scelto è l’endecasillabo sciolto, che meglio si adatta alla dimensione narrativa, mitica, epica e al canto a voce spiegata, volutamente spezzato verso la metà con l’unico settenario ‘E prima che la morte’ (v. 29). Lo stile si fa più sostenuto, più classicheggiante, ma conserva sempre la solita limpidezza e la vitalità tipiche del nostro autore.
   La lingua di questi componimenti è un italiano medio-colto, lessicalmente ricco e vario, preciso e chiaro, depurato dalle incrostazioni storico-culturali e riportato all’originaria genuinità. Contiene, inoltre, una larghissima presenza (oltre che di verbi e sostantivi) di participi e di semplici aggettivi che non sono quasi mai puramente esornativi, perché portano con sé una figura, un oggetto, un colore, un movimento. Se ne potrebbe tirar fuori un lungo elenco, soprattutto da Il canto di Alceo.
   Mi sono fermato sugli aspetti formali non perché questi di per sé siano sufficienti a generare poesia, ma perché, come si sa, ogni opera d’arte è un’operazione culturale, dotta che, grazie alla fantasia creatrice, riesce a manipolare sentimenti e passioni, gioie e dolori, sogni e amarezze, chiudendoli in una scrittura congeniale e perfetta, capace di sprigionare immagini vive e palpitanti. E questo avviene magistralmente nelle poesie di Nazario Pardini.

                                       Michele Battaglino



Il peso delle pietre

Arnold Bockin Toteninsel (L'isola dei morti)











E ci portiamo dietro questo peso
di pietre graffite da nomi
di padri e di madri
volati all’azzurro.
Di pezzi di muro
tatuati da dita intrecciate di sogni
per dire: “Ti amo.”
Di gerle di sere
d’incontri d’amore
corrose da acide piogge di tempo.
Di sguardi di lava volati nel cielo
e tornati a pesare.
E di forza rocciosa
sgretolata da ore, da giorni
in pese parole
restate nell’animo
e poi andate a sostare.
Lo porterò con me oltre quel fiume
quel sacco di pietre aggrappato alle spalle.
Lo renderò leggero,
lo renderò una piuma,
per fargli guadare quel fiume,
per farlo volare.
L’abbraccerò con tutto il suo sapore
di terra coltrata, di verde di mare,
di luce di sole, di perse parole
per non farlo morire.

(Da I canti dell’assenza, inedito)
 
Il volo di Icaro. Copertina (Inedito) 




Oltre quel muro









La notte
ai flebili lumi
e fra le stelle
belle le mie anime
sul prato al cimitero;
all’ora tarda,
quando i viventi
sono nei giacigli,
s’incontrano tra i tigli
ed i cipressi.
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia.
Restano le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie
alle soglie dei sepolcri.
La vita, la morte,
le corte strade,
le rade immagini dei viventi,
gli spenti visi del passato:
tutto è beato ora.
Il regno dei morti
vive di nuovo,
sorge alla penombra
e si anima nel tardi;
se guardi sotto l’ombre
dei cipressi,
i tramonti attendono l’oscuro,
il puro regno
oltre quel muro
dei nostri cimiteri.
(Da I simboli del mito, Pomezia 2013)




La morte

Mare in tempesta












“Eccomi giunta!
Mi hai ritratto
nei modi più strani:
foglie dai rami cadenti,
sere offuscate da brume,
tramonti con neri pensieri,
libecci che arruffano aghi,
resti di mare
su aride spiagge salate,
stecchi di tigli
su vaste distese nevate
e tramonti e serate
e anime morte randagie
e battere colpi
nei folti di fonde nottate.
Ora che sono giunta
mi vedi;
l’aspetto mio esterno
è quello di donna avvilita,
macilenta e silente
che striscia fra gente occupata
che conto non tiene
di pene, di affanni,
di giorni, di anni.”.
“Io sono il poeta
ritarda la meta di un attimo solo
che finisca i miei versi:
sono quelli dispersi
degli ultimi giorni,
dirò le ultime cose:
voleranno domani
tra macule, ombre e barlumi.”.
La donna severa
con gli occhi incavati
sul volto di cera
“Finisci” gli disse
“Patisci le ultime ore,
il dolore dell’ultimo giorno.”.
E corte le note sui righi:
“Venne la morte
e prese il mio corpo,
ma lo spirito lasciò
in mezzo ai mortali
come natante tra le acque,
come uccello tra i boschi,
come vento tra i pini.
Lasciò l’etere suo sulle carte.
Lo lasciò murato
nell’immagine perenne
della donna che amò,
lo lasciò tra musiche cocenti
alla ricerca di cieli
che mai ebbe raggiunti.”.
“Eccomi giunta!
Prepara il tuo seno
che breve è il tragitto
che insieme faremo.”.
Ed ancora vola lo spirito
e s’azzarda nell’ora più tarda
ad aggrapparsi alle nubi,
ma restano sospese le ali
tra l’arie più sacre
e i peccati mortali.
(Da Dicotomie, Milano 2014)





Il canto di Alceo


Mare cupo di Eno













Se a me è cantare, lo farò stasera
sullo splendido fiume che disperde
l’anima chiara dentro il mare di Eno. 
Il sole fuoco strugge la sua mole
in mezzo all’onde e il cielo rutilante
è speculare ai gorghi rumorosi
della foce. Diffonde il suo mugghìo
sui pascoli prativi della Tracia
verde e distesa. Ed io farò che appaiano
gli sciami di fanciulle dalle guance
rosate e dai capelli d’oro nelle
tremule note delle ghiaie. I guadi
rifletteranno trepide le cosce
(le sfioreranno mani dolcemente)
lucide come d’olio. E questa sera
nel festino lucente delle coppe
traboccanti del nettare che i colli
dettero generosi, ci faranno
dimenticare l’ardua eccitazione
delle ferali gesta. Sia il simposio
stasiotica fucina e gran sollievo
d’asperità. Leggiadre le figure
d’efebica snellezza còlte d’ansito
quali cerbiatte sussultanti all’ombre
sperse nel bosco o ardue di volute
quali puledre indomite di Tracia
negli scarti selvaggi, ecciteranno
i nostri sensi gonfi di passione.
E prima che la morte
ci getti alla deriva nelle forre
(il nostro crine bianco sarà scherno
e ludibrio di freschi sguardi ai brividi
d’amore) palperemo i corpi freschi
di verginale pelle di fanciulle
esili e generose. I bei tramonti
saranno qui con noi con il respiro
di divini salmastri ad esalare
gli acuti della vita. Il cielo è fulvo,
è rosso, è bianco, è verde per gli svoli
di colimbi, d’aironi e cormorani
che frangono nel rosso della sera
gemme bianche dai frutti alle correnti
del fiume testimone. Menalippo
e tu mio amico, e tu, e tutti voi
che baciati da sorte generosa
vi vedete, cessate di pensare
al torbido Acheronte. Ubriacatevi
e Menalippo tu fallo con noi;
tu forse credi di poter rivivere
questa luce di sole. Riassaggiare
il nettare che turba od i piaceri
del corpo, se una volta nel buiore
sarai dell’Acheronte. Non sogniamo!
Nemmeno la saggezza, neanche quella
valse a Sisifo, seppure figlio d’Eolo,
un re. Alla morte si pensava Sisifo
di avere scampo. Ma sotto la terra
nera, arrivato là oltre Acheronte,
il re figlio di Crono lo tormenta.
“Fugite quaerere!”. Noi siamo ancora
giovani per quel mondo. Non pensiamo
a quel regno. Da là non si ritorna.
Non rivedremo più le iridescenti
luci riflesse sopra i verdi pampini
di un sole vesperale. Sia sommersa
la sorte dall’oblio che l’ebbrezza
ci donerà d’efebico sopore.

(Da Canti arcaici in Alla volta di Lèucade, Viareggio 1999)





2 commenti:

  1. Molto bella questa panoramica di poesie dove ogni parola sulla morte non è che un inno alla vita. Complimenti, professore.

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  2. Su “Oltre quel muro” ho già espresso il mio pensiero. Ma qui è diverso: è diverso il clima, il luogo, il soggetto. Già, la morte. Ma qui è diverso: qui Nazario Pardini usa altri strumenti. Non il sistro, non il cembalo, se non per calibrare il ritmo del verso, non solo la lira nella sua mano. Qui il poeta imbraccia, meglio “abbraccia” la cetra sacra, per un concerto che va oltre la morte. Va alla vita, perché i versi resistano al tempo, va al concerto del sentire e della visionaria realtà dell’oltre. E si misura con se stesso e si supera, forse, perché un conto è leggere queste liriche una alla volta, separatamente, ed un’altra cosa è averle insieme nei suoni e nelle immagini che hanno il sapore, il gusto della memoria e del divenire, senza disperdere la dolcezza del presente. E si ripete il canto greco - gli elegi - in versi italici. E le parole e le immagini diventano un canto, ed il canto si fa cantica, celebrazione non della morte ma della vita, sacralità della parola, nella sua essenza e nella sua purezza.
    Umberto Cerio

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