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martedì 15 luglio 2014

N. PARDINI LETTURA DI "NOTTURLABIO...", DI SIMONETTA LONGO



Simonetta Longo: Notturlabio. Previsioni dall’ombra
Puntoacapo Editrice. Pasturana (AL). 2014. Pg. 124. € 13,00

Poesia fluida, densa, ammiccante, i cui legami di complessa metaforicità abbracciano con sintonia gli abbrivi propositivi di un’anima tutta volta a comunicarci sensazioni di polisemica fattura. Un mélange tra:
ispirazione mantico-sepolcrale di memoria  protoromantica inglese;
poetica decadente dal sapore di “poesie maudite”;
e repêchage di un mito ancestrale il cui mondo era territorio di poeti e preveggenti.
        Mistero della notte. Una ricerca continua di spazi che vadano oltre  gli orizzonti per superare il crinale fra il razionale e l’irrazionale. Un faro sulle rocce solitarie dell’Oceano, che, non potendo squarciare le tenebre oltre i limiti del suo potere, ben rappresenta lo spirito dei veri poeti: quelli intenti ad una ricerca tanto inquieta quanto tormentata. D’altronde Alfredo Panzini definiva i poeti (quelli veri, e Simonetta… lo è) “simili al faro del mare”. Un’impresa quanto meno difficile e improbabile, ma estremamente suggestiva che dà nutrimento ed energia al canto. Notturlabio: riferimento  all’antico strumento con cui i naviganti determinavano grossolanamente l’ora tramite l’osservazione di due stelle dell’Orsa. Quale metafora più calzante per introdurci in un percorso fatto di allusioni fono-simboliche di sapore romantico. Di quel romanticismo che legge nel mare, con gli occhi di Delacroix, il simbolo degli slanci verso una libertà indeterminata e irraggiungibile; e che vede nei lontani orizzonti marini l’azzardo umano a superare i limiti terreni. Poesia misterica, alla Thomas Gray, da protoromanticismo fine settecento inglese, appunto, in cui l’upupa viene presa erroneamente per simbolo come abitante notturno delle incavità dei teschi; con quel fascino di preveggenza cassandrica, appartenente alla parte nascosta dell’anima di ognuno di noi, che si sfuma in tutti i 6 sottotitoli dell’opera: ciascuno per ogni senso con uno e ½ in più. Quello baudelairiano, direi, che il maudit assegna al potere ipersensitivo dei poeti. Per cui solo loro possono percepire quella musicalità insita nella Natura a unire fra loro le cose divise agli occhi dei semplici mortali. Una musicalità impercettibile, quindi, che è alla base dell’armonia dell’universo. D’altronde i decadenti fanno del ricorso al panismo, al senso del mistero, alla  sonorità e alle figure retoriche (anafora, sinestesia, anastrofe, allitterazioni, metonimia, metafora, iperbole, onomatopea) il punto focale della loro poetica per rendere più misterioso e più incisivo l’effetto dell’armonia del verso.
Addirittura il D’Annunzio traduce questo accorgimento stilistico in una vera orchestrazione visiva ed uditiva, ricorrendo alle gocce della pioggia sulle foglie per simboleggiare gli accordi delle dita dei musicanti. Mentre il senso del mistero lo trasmette ricorrendo a vaghezze iperboliche tese ad ampliare gli spazi delle ombre del bosco. A Marina di Pisa, luogo ispiratore de La pioggia nel pineto, il poeta slarga le distanze strettissime con espressioni tipo “Chi sa” “Chi sa dove”, offrendo anche quei risultati di indeterminatezza, che sono l’antiporta del misterioso fascino del luogo. Poesia senza trama, quindi, giocata tutta su percezioni, e sensazioni. Effetti che l’abruzzese, secondo il suo modo di estetizzare, porta al parossismo; come, d’altronde, fa con lo stesso panismo, trasfigurando Ermione nelle policromie di una Natura umanizzata con una completa metamorfosi. Tutto questo per dire in quanta complessità creativa ci imbattiamo con la silloge della Nostra. Un’opera di perspicua frequentazione letteraria dai toni di orfica tensione, dove l’impiego di vaghezze semantiche e di nèssi tecnico-fonici fanno di tutto per abbracciare gli abbrivi sensoriali ed emotivi di un’anima carica di suggestioni e di mistero per lo sperdimento di una poetessa, cosciente della impossibilità di penetrare nei dilemmi della vita, e di non poter risolvere i tanti suoi quesiti:

Vago da sola sulla terra
lungo le ferite della  notte
cercando un passo nuovo
e tutto è silenzio
intorno
cerchi d’alberi
intrichi di rovi
misteri di nuvole sparse
come squarci al velo del buio… (Notturlabio).   

Un azzardo continuo verso orizzonti che vadano  oltre il fatto di esistere. D’altronde la Longo sa dei limiti del nostro esistere, delle difficoltà di aprirsi all’azzurro per captare soluzioni ai tanti interrogativi della nostra vicenda. Un malum vitae e uno spleen che si fanno determinanti per la resa del canto in questa silloge. Un’inquietudine che fa da leitmotiv, da colonna sonora nello spartito dell’opera. E se la poetessa è chiusa in un labirinto di condizionali:

Rinchiusa
in un labirinto             
di vorrei
abbandonavo
la mia identità
in un ripetersi
di specchi
il gioco infinito
richiamava alla mente
altre donne
ma io?... (Il minotauro),

è perché:

… Dovevo uccidere
i miei minotauri notturni
per ritrovarmi
e riflettermi
nei tuoi occhi (Il minotauro).

Poesia snella, agile, libera da vincoli metrici per declinare con più spontaneità i battiti diastolici del cuore. Immaginazione, sogno, vertigini sensoriali, rievocazioni di plurivocità artistica, realtà rivisitata dopo una lunga decantazione in un’anima zeppa di suggestioni emotive: un mélange disvelante luci ed ombre (malinconia, abbandono, essere pietra, disperato il tuo canto, pianto ripetuto, terrore di volti notturni) in un linguismo originale che inganna l’armamentario retorico e l’insidia dei luoghi comuni; un percorso dove l’attesa di un dio ebbro che beva la malinconia fa da substrato fertile a punte di lirismo:

 … No, Teseo, oltre il muro
il tuo indugio non pesa più
attendo ormai
come un viaggio nuovo
la ricompensa dell’indovino
due palme di sogno
e un dio ebbro
che mi beva
la malinconia (Arianna).

E il giuoco tematico, prendendo mosse da riferimenti a grandi artisti o a grandi storie, si articola su previsioni di notevole ars inveniendi:

da De Chirico, La ricompensa dell’indovino:

Non è te Teseo
che attendo
la mia ragione è fuggita
col filo
e non è al tuo abbandono
che penso… (Arianna),

da R. Magritte, La battaglia delle Argonne:

È notte, no era l’alba
sopra un ciglio di luna
tu nuvola leggera ed io roccia antica
la  battaglia iniziò, già perduta
inerme d’arcano silenzio t’amai
forzando il mio essere pietra
fino al cielo… (Battaglia delle Argonne),

dove un gioco di iperboliche allusioni si declina in un lirismo di erotica vicinanza, di oggettivante profusione;

da G. Moreau, Orfeo:

Amore
la tua voce è così dolce
così disperato il tuo canto
anche la roccia piange
anche le foglie lo assecondano
precipitando… (Orfeo),

da E. Satie, Gnossienne n. 1:  

Sul tetto di Notre Dame
il tempo non passa  mai
è uno spartito che non leggo
ritmo lento di pianto
ripetuto… (Gnossienne n. 1 o la chimera di Notre Dame),

dalla Nike di Samotracia:

Mi dà brividi il vento
troppo leggera è la veste
sotto cui freme il marmo pario
ma devo forzare le ali
all’impeto:
Ecco la triremi!... (Nike (mutilata))

dall’Apocalisse, 16, 3-16:

… Ma io ho sogni di sveglia
e terrori di volti notturni
e non so
perché vivo una vita da cieca.
Gli  antichi li dissero
Presagi (Presagi).




per terminare in un Notturno con Variazione su Alcmane: tante citazioni incipitarie che danno il via a meditazioni di proficua valenza culturale. Un grande pozzo di sapere a cui la Nostra attinge con generosa spontaneità senza  sottrarre niente all’originalità del canto; incrementandone, anzi, gli abbrivi esistenziali ricorrendo a contaminazioni paniche di grande resa visiva:

Dormono le cime degli alberi e le radici,
i pieni e i vuoti,
e le pietre del lento fiume,
e le stagioni che ai sogni s’apprendono, e gli anni,
e le ombre nei sentieri del bosco assorto
Dormono le solitudini degli uomini
placato sussulto d’attesa (Variazione su Almane).

Solitudini che dormono e che si fondono col mistero delle ombre del bosco in balia di un eracliteo scorrere del tempo.


                                     Nazario Pardini

1 commento:

  1. Grazie per la lettura intensa e profondissima; Notturlabio è davero un grande libro di poesia, vera e originale.
    Mauro Ferrari

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