Simonetta
Longo: Notturlabio. Previsioni dall’ombra
Puntoacapo
Editrice. Pasturana (AL). 2014. Pg. 124. € 13,00
Poesia
fluida, densa, ammiccante, i cui legami di complessa metaforicità abbracciano
con sintonia gli abbrivi propositivi di un’anima tutta volta a comunicarci sensazioni
di polisemica fattura. Un mélange tra:
ispirazione
mantico-sepolcrale di memoria protoromantica inglese;
poetica
decadente dal sapore di “poesie maudite”;
e
repêchage di un mito ancestrale il cui mondo era territorio di poeti e
preveggenti.
Mistero della notte. Una ricerca
continua di spazi che vadano oltre gli orizzonti per superare il crinale fra il razionale e l’irrazionale. Un faro sulle rocce
solitarie dell’Oceano, che, non potendo squarciare le tenebre oltre i limiti
del suo potere, ben rappresenta lo spirito dei veri poeti: quelli intenti ad
una ricerca tanto inquieta quanto tormentata. D’altronde Alfredo Panzini
definiva i poeti (quelli veri, e Simonetta… lo è) “simili al faro del mare”. Un’impresa
quanto meno difficile e improbabile, ma estremamente suggestiva che dà
nutrimento ed energia al canto. Notturlabio:
riferimento all’antico strumento con cui
i naviganti determinavano grossolanamente l’ora tramite l’osservazione di due
stelle dell’Orsa. Quale metafora più calzante per introdurci in un percorso fatto
di allusioni fono-simboliche di sapore romantico. Di quel romanticismo che legge
nel mare, con gli occhi di Delacroix, il simbolo degli slanci verso una libertà
indeterminata e irraggiungibile; e che vede nei lontani orizzonti marini
l’azzardo umano a superare i limiti terreni. Poesia misterica, alla Thomas
Gray, da protoromanticismo fine settecento inglese, appunto, in cui l’upupa viene
presa erroneamente per simbolo come abitante notturno delle incavità dei
teschi; con quel fascino di preveggenza cassandrica, appartenente alla parte nascosta
dell’anima di ognuno di noi, che si sfuma in tutti i 6 sottotitoli dell’opera: ciascuno
per ogni senso con uno e ½ in più. Quello baudelairiano, direi, che il maudit
assegna al potere ipersensitivo dei poeti. Per cui solo loro possono percepire
quella musicalità insita nella Natura a unire fra loro le cose divise agli
occhi dei semplici mortali. Una musicalità impercettibile, quindi, che è alla
base dell’armonia dell’universo. D’altronde i decadenti fanno del ricorso al
panismo, al senso del mistero, alla
sonorità e alle figure retoriche (anafora, sinestesia, anastrofe,
allitterazioni, metonimia, metafora, iperbole, onomatopea) il punto focale
della loro poetica per rendere più misterioso e più incisivo l’effetto dell’armonia
del verso.
Addirittura
il D’Annunzio traduce questo accorgimento stilistico in una vera orchestrazione
visiva ed uditiva, ricorrendo alle gocce della pioggia sulle foglie per simboleggiare
gli accordi delle dita dei musicanti. Mentre il senso del mistero lo trasmette
ricorrendo a vaghezze iperboliche tese ad ampliare gli spazi delle ombre del
bosco. A Marina di Pisa, luogo ispiratore de La pioggia nel pineto, il poeta slarga le distanze strettissime con
espressioni tipo “Chi sa” “Chi sa dove”, offrendo anche quei risultati di
indeterminatezza, che sono l’antiporta del misterioso fascino del luogo. Poesia
senza trama, quindi, giocata tutta su percezioni, e sensazioni. Effetti che l’abruzzese,
secondo il suo modo di estetizzare, porta al parossismo; come, d’altronde, fa
con lo stesso panismo, trasfigurando Ermione nelle policromie di una Natura umanizzata
con una completa metamorfosi. Tutto questo per dire in quanta complessità creativa
ci imbattiamo con la silloge della Nostra. Un’opera di perspicua frequentazione
letteraria dai toni di orfica tensione, dove l’impiego di vaghezze semantiche e
di nèssi tecnico-fonici fanno di tutto per abbracciare gli abbrivi sensoriali
ed emotivi di un’anima carica di suggestioni e di mistero per lo sperdimento di
una poetessa, cosciente della impossibilità di penetrare nei dilemmi della
vita, e di non poter risolvere i tanti suoi quesiti:
Vago da sola sulla terra
lungo le ferite della notte
cercando un passo nuovo
e tutto è silenzio
intorno
cerchi d’alberi
intrichi di rovi
misteri di nuvole sparse
come squarci al velo del buio… (Notturlabio).
Un
azzardo continuo verso orizzonti che vadano
oltre il fatto di esistere. D’altronde la Longo sa dei limiti del nostro
esistere, delle difficoltà di aprirsi all’azzurro per captare soluzioni ai
tanti interrogativi della nostra vicenda. Un malum vitae e uno spleen
che si fanno determinanti per la resa del canto in questa silloge.
Un’inquietudine che fa da leitmotiv,
da colonna sonora nello spartito dell’opera. E se la poetessa è chiusa in un
labirinto di condizionali:
Rinchiusa
in un labirinto
di vorrei
abbandonavo
la mia identità
in un ripetersi
di specchi
il gioco infinito
richiamava alla mente
altre donne
ma io?... (Il
minotauro),
è
perché:
… Dovevo uccidere
i miei minotauri notturni
per ritrovarmi
e riflettermi
nei tuoi occhi (Il minotauro).
Poesia
snella, agile, libera da vincoli metrici per declinare con più spontaneità i
battiti diastolici del cuore. Immaginazione, sogno, vertigini sensoriali,
rievocazioni di plurivocità artistica, realtà rivisitata dopo una lunga
decantazione in un’anima zeppa di suggestioni emotive: un mélange disvelante
luci ed ombre (malinconia, abbandono, essere pietra, disperato il tuo canto,
pianto ripetuto, terrore di volti notturni) in un linguismo originale che
inganna l’armamentario retorico e l’insidia dei luoghi comuni; un percorso dove
l’attesa di un dio ebbro che beva la malinconia fa da substrato fertile a punte
di lirismo:
… No, Teseo, oltre il muro
il tuo indugio non pesa più
attendo ormai
come un viaggio nuovo
la ricompensa dell’indovino
due palme di sogno
e un dio ebbro
che mi beva
la malinconia
(Arianna).
E
il giuoco tematico, prendendo mosse da riferimenti a grandi artisti o a grandi
storie, si articola su previsioni di notevole ars inveniendi:
da
De Chirico, La ricompensa dell’indovino:
Non è te Teseo
che attendo
la mia ragione è fuggita
col filo
e non è al tuo abbandono
che penso…
(Arianna),
da
R. Magritte, La battaglia delle Argonne:
È notte, no era l’alba
sopra un ciglio di luna
tu nuvola leggera ed io roccia
antica
la battaglia iniziò, già perduta
inerme d’arcano silenzio
t’amai
forzando il mio essere pietra
fino al cielo…
(Battaglia delle Argonne),
dove
un gioco di iperboliche allusioni si declina in un lirismo di erotica vicinanza,
di oggettivante profusione;
da
G. Moreau, Orfeo:
Amore
la tua voce è così dolce
così disperato il tuo canto
anche la roccia piange
anche le foglie lo assecondano
precipitando… (Orfeo),
da
E. Satie, Gnossienne n. 1:
Sul tetto di Notre Dame
il tempo non passa mai
è uno spartito che non leggo
ritmo lento di pianto
ripetuto…
(Gnossienne n. 1 o la chimera di Notre Dame),
dalla
Nike di Samotracia:
Mi dà brividi il vento
troppo leggera è la veste
sotto cui freme il marmo pario
ma devo forzare le ali
all’impeto:
Ecco la triremi!...
(Nike (mutilata))
dall’Apocalisse,
16, 3-16:
… Ma io ho sogni di sveglia
e terrori di volti notturni
e non so
perché vivo una vita da cieca.
Gli antichi li dissero
Presagi
(Presagi).
per
terminare in un Notturno con Variazione
su Alcmane: tante citazioni incipitarie che danno il via a meditazioni di
proficua valenza culturale. Un grande pozzo di sapere a cui la Nostra attinge
con generosa spontaneità senza sottrarre
niente all’originalità del canto; incrementandone, anzi, gli abbrivi
esistenziali ricorrendo a contaminazioni paniche di grande resa visiva:
Dormono le cime degli alberi e
le radici,
i pieni e i vuoti,
e le pietre del lento fiume,
e le stagioni che ai sogni
s’apprendono, e gli anni,
e le ombre nei sentieri del
bosco assorto
Dormono le solitudini degli
uomini
placato sussulto d’attesa
(Variazione su Almane).
Solitudini
che dormono e che si fondono col mistero delle ombre del bosco in balia di un
eracliteo scorrere del tempo.
Nazario
Pardini
Grazie per la lettura intensa e profondissima; Notturlabio è davero un grande libro di poesia, vera e originale.
RispondiEliminaMauro Ferrari