DON
COSCIOTTO E SENZAPANCIA
Quel
pezzo di petto di pollo che, fritto a mezzogiorno, transita tra due catene ininterrotte
di organi, passando tra laringe e faringe, a seconda dello sporgere e del
rientrare di quelle, vien, quasi ad un tratto, compresso, e prende corso e
figura di esofago, tra una trachea davanti, e un ampio polmone dall’altra
parte; e il cardias, che ivi sfiora il fegato, par che renda ancor più
sensibile questa trasformazione, e segni il punto in cui l’esofago cessa, e il
vasto buco ricomincia, per pigliar poi il
nome di stomaco dove le pareti, allontanandosi di nuovo, lasciano il cibo
distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni.
E
proprio quel cibo, quel pollo di cui dicevamo, è causa, insieme ad altre
vivande, con il passar del tempo ed il ruotar delle clessidre, di un gonfiore
del corpo dell’uomo goloso il quale, pian piano, diventa obeso.
Come
nel caso di specie, del nobil Cervantes di Saavedra, il quale viveva e mangiava
(per forza, non si mangia per vivere?) qualche secolo fa nell’assolata
Ispagna.
Spendeva,
infatti, molta parte della sua rendita per mangiar bue e maiale quasi tutti i giorni, carne con salsa
il più delle sere, pecora il sabato, tacchino di venerdì, con l’aggiunta di
qualche piccioncino alla domenica. Essendo il nobiluomo così grasso (pardon,
così ben messo), gli fu affibiato un adeguato soprannome: Don Cosciotto.
Amava
vestir con un saio di prezioso panno di lana, calzoni e pantofole di velluto.
Non
dovendosi guadagnare il pane ( e la carne) col sudore della fronte, si dedicava
a ciò per cui era destinato un cavaliere del suo lignaggio: l’esercizio della
caccia e la lettura di libri che riportavano gesta cavalleresche. E con gran
dedizione si applicava al lavoro di Cavaliere, girovagando in cerca di
fanciulle da proteggere, draghi da uccidere, maghi e streghe da rendere
inoffensivi. Ovviamente possedeva pure un magro cavallo di nome Ronzinante ed aveva
un servitore chiamato Senzapancia.
Senzapancia…non
è , per caso, che quel nomignolo derivasse dalla magrezza del suo corpo, dal
viso affilato per i consueti digiuni e borbottii dello stomaco? Avete
indovinato! Era magro magro magro, costantemente alla ricerca di cibo che non
si faceva però, ahimè, raggiungere. Il
suo padrone, in verità, non gli passava un gran ché di salario; insomma , al
suo buon servitor Senzapancia l’idalgo Don Cosciotto non elargiva molta …
mancia! Eppure, e questo per far colpo
sul popolino, sulla considerazione della gente più povera e sui suoi simili,
egli sempre allungava ai malcapitati di passaggio, attento però a non sfiorar
neppure il questuante, una, non tanto congrua, offerta. Da qui il soprannome suo completo: Don
Cosciotto della mancia !!
Tanto
dunque era largo, rotondo e sazio l’uno, quanto l’altro si ritrovava secco, alto
ed emaciato, quasi come a ricalcare la costituzione di Ronzinante, neanche lui poi
tanto alimentato da Don Cosciotto. Lo spettacolo che si presentava agli occhi
di chi vedeva transitar i due era , a dir poco, irreale: un nobile, rivestito
di armatura, elmo in testa e lancia in mano, grasso grasso anziché no, in
groppa ad un povero cavallo sofferente più lungo
che largo, e subito dietro, cavalcando un asino di bassa statura, uno
scudiero rinsecchito, più alto che largo, triste e silenzioso.
Le
avventure che i due attraversarono, in
lungo ed in largo per tutta la Spagna, in quei tempi non tanto lontani,
sono così numerose che mi occorrerebbe un indice con tanto di capitoli
numerati, dal primo al centesimo, forse.
Ma io,
che oggi non ho molto tempo da dedicarvi, voglio comunque raccontarvene una.
E
questa avvenne un dì sull’estremo promontorio di Fisterra, di faccia all’Atlantico, là dove il vento
soffia con decisa violenza sulle rocce che cadono a strapiombo nell’oceano, sui
prati pieni d’erba e sulle pecore e capre che la brucano , sui tetti delle piccole case
colorate.
Era
ormai quasi l’ora dell’imbrunire e il nostro, in compagnia del fedele servo, era,
al solito, in cerca di nobili imprese da portare a termine. Stavano giusto, i due, discutendo
dell’ineguagliabile cortesia con cui alcuni caprai li avevano accolti la sera
prima, di come certi pezzi di capra
bolliti erano stati trasportati dalla pentola al loro stomaco, e di quanto le
pelli di pecora avevano poi dolcemente cullato i loro sogni che, in quel mentre, videro trenta o quaranta mulini a vento disseminati
in quella pianura, e come
Don Cosciotto li ebbe visti, disse al suo fido scudiero:
“La fortuna va
guidando le nostre cose meglio di quel che potessimo sperare: vedi
quei trenta, o poco più, smisurati giganti. Penso di battagliare con loro così da
ammazzarli tutti. Con le loro spoglie ci faremo ricchi, poiché questa è buona
guerra ed è anche gran servigio
sbarazzare da tanto cattiva semenza la faccia della terra”
“Quali giganti?”
chiese Senzapancia, rimasto quasi senza
parole.
“Quelli” rispose il padrone “che vedi laggiù, con le
braccia lunghe, che taluni ne
sembrano avere quasi di due leghe”
“ Guardate” lo avvertì il servo “che quelli che si vedono laggiù non son
giganti, bensì mulini a vento, e quel che sembrano braccia sono le pale che,
girate dall’aria, fanno andare la
macina del
mulino”
“Si vede
bene che non sei pratico in fatto d'avventure” rispose Don Cosciotto “quelli sono
giganti . Se hai
paura, scostati di lì e mettiti a pregare mentre io vado a combattere
con essi una fiera
e impari battaglia”
Così dicendo, egli
spronò Ronzinante, senza badare a quel che gli gridava lo scudiero
per avvertirlo
che, indubbiamente, quelli che stava per assalire erano mulini a vento e non
giganti.
Ma egli era così
certo delle sue convinzioni da non udire le grida del suo servitore,
né, per quanto
già fosse molto vicino, s'accorgeva di quel che in realtà erano; anzi andava gridando:
“Non fuggite,
gente codarda e vile; ché è un cavaliere solo colui che vi assale”
Si levò
frattanto un po' di vento, e le grandi pale cominciarono ad agitarsi. Avendo visto ciò,
Don Cosciotto
disse:
“Per quanto
agitiate più braccia di quelle del gigante Briareo, per quanto possiate essere
più scaltri del Cavaliere della Bianca Luna, me la pagherete”
Così dicendo,
ben difeso dal suo scudo e con la lancia in resta, mosse all'assalto, incitando
Ronzinante al gran galoppo, e attaccò il primo mulino che gli era dinanzi.
Ma, nel dare un
colpo di lancia contro la pala, questa fu fatta roteare con tanta furia dal
vento che mandò in pezzi la lancia e si trascinò dietro di sé cavallo e
cavaliere, il quale andò a rotolare molto malconcio per il campo, sotto lo
sguardo stupito e perplesso di alcune pecore.
Gli accorse in
aiuto Senzapancia, di gran carriera sull'asino suo, trovando, quando giunse,
che Don Cosciotto
non si poteva muovere, tale era stato l’urto con il terreno.
“Non ve l'avevo
detto io di badare bene a cosa facevate, che non erano se non mulini a
vento?”
“Calmati, caro scudiero”
rispose Don Cosciotto “io penso, e così è per vero, che quel dotto Cavaliere
degli specchi, malefico mago, ha cambiato questi giganti in mulini per
togliermi il vanto di vincerlo, tanta è l'inimicizia che ha con me; ma alla fin
fine, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada”
Il buon
Senzapancia non commentò. Aiutò il padrone a rimettersi in sella, con gran
rincrescimento di Ronzinante, anche
lui malconcio per la botta subita, saltò sul suo asino e si rimise in cammino ,
a debita distanza dal nobiluomo.
Però, cammin
cammina, certe associazioni di idee continuavano a ronzare nella mente del povero scudiero: mulini a vento, buona
guerra, cavaliere degli specchi, verdi paesaggi, energia del vento….
Finalmente,
sulla via di Triacastela, arrivò
improvvisa l’illuminazione! Tutto
acquisiva finalmente un senso.
Il suo padrone
non era quello sprovveduto che cercava di far credere, quel mezzo mentecatto
alle prese con missioni impossibili e arcane,
anzi il suo comportamento seguiva una logica ferrea. La
logica di chi, ricco e potente, governa il mondo. La logica di chi tutti i
santi giorni può permettersi caviale, arrosto di cinghiale e pezzi di petto di
pollo. Di chi non è senza pancia e senza un filo di grasso, ma invece sfonda le
bilance. Ora capiva! Si era sbagliato:
quelli non erano mulini a vento con macine per frantumare il grano, ma per
produrre energia pulita, energia eolica, verde, verde come i prati sui quali
sorgevano quei tanti mulini. Troppi mulini! Troppi per chi, come Cervantes di
Saavedra, possedeva azioni in società che importavano dalla vicina Africa gas e
metano. Quei mulini, così numerosi,
erano di industriali come il cavaliere degli specchi, nemico giurato dell’idalgo Cervantes. Specchi
di centrali solari, evidentemente.
Ed il
suo padrone aveva tentato di distruggerli, quei mulini così minacciosi. Era in corso una lotta tra ricchi, come
sempre, tra cavalieri della Trista Figura. Ed egli, Sanchez Pancia detto Senzapancia,
povero in canna, non poteva certo
cambiare il mondo, non poteva ribellarsi a quello stato di cose, non avrebbe
neanche mantenuto l’impiego, ottenuto la paga , avuta la sua …. mancia!
Non fece intuire al suo signore, quella notte prima di mettersi a
letto, cosa stava pensando. Lo aiutò invece a togliersi l’armatura e
l’idalgo, riconoscente, gli disse:
“Mio
fido scudiero, oggi mi hai ben servito. Tieni, te lo sei meritato”
E gli
allungò una sola, semplice peseta.
Pietro Rainero
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