RIFERIMENTO AGLI ARTICOLI DI FRANCO CAMPEGIANI E UMBERTO MESSIA SUI POST DI AGOSTO E SETTEMBRE
Alle bellissime, profonde parole dei commenti dei miei cari amici Franco e Umberto, non saprei rispondere altrimenti se non con un sentito e commosso “grazie”: non solo per la stima e l’affetto che vi leggo impliciti nei miei riguardi, ma anche perché, nel merito, mi aiutano davvero a capire meglio il senso della mia poesia.
Un poeta, infatti, generalmente non è mosso da un
senso preordinato della propria scrittura, non produce “a tesi”; prova solo a
dar voce alle proprie emozioni, sentendosi quasi sempre incerto dell’esito, se
questo sia fedele o meno al proprio sentire; credo gli prema soprattutto riuscire
ad esprimere l’ intima, personale urgenza dell’anima, più che la “forma” di
questa espressione. Sa bene, certo, che la forma è molto importante: lo identifica,
può inoltre arrecargli prestigio e riconoscimento. Tuttavia il “cosa” dire
resta sempre, per lui, più importante del “come”. Così come sa che ogni
giudizio sulla qualità della sua poesia, sul contenuto e sullo stile, è – per sua
fortuna – una prerogativa del lettore:
il solo, in questo, legittimato a giudicare.
Perciò, nel ringraziare ancora i miei stimati amici
dei loro preziosi e lusinghieri e giudizi, mi asterrò dal commentarli a mia
volta: sarebbe davvero indebito e perfino, da parte mia, presuntuoso.
Vorrei solo dire loro, a margine, che mi hanno
molto colpito le riflessioni sulla poesia come evocatrice del mistero
dell’essere, del dualismo tra il “sé” e l’”altro da sé”, tra finito e infinito.
Mi hanno fatto pensare a ciò che hanno in comune poesia e filosofia.
Figlie entrambe del linguaggio, ambiscono in
parallelo a penetrare e a rappresentare
con le parole il mistero che ci circonda, che è in noi stessi. La poesia però, forse
perché più umile e immediata della filosofia, meno sorvegliata nel procedere e
non così circospetta nel dire, credo
riesca a lambire più da vicino l’oscurità del nostro vivere: sembra abilitata,
per così dire, a frequentarla con più confidenza, perfino a nutrirsene. Ne fa
materia della sua stessa sostanza, ma senza pretendere di averne a tutti i
costi ragione. Anzi, contaminandosene integralmente, mi pare riesca spesso a
rappresentarla con più efficacia. Il segreto sta forse nel diverso punto di partenza:
la poesia, a differenza dalla filosofia, usa gli stessi “utensili” – le parole
– non come strumenti esterni da ammettere, solo a seguito di esami severi, nel
proprio mondo di regole precostituite, bensì accettando in principio i limiti della
loro significatività, ma anche la loro vitalità primordiale, i colori e le sensazioni
che, per vie misteriose ma reali, sanno caleidoscopicamente evocare e che siamo
soliti chiamare “vita”.
Insomma, le parole sono, per la poesia, come figli
comunque acquisiti e di cui non si guarda il passaporto per decidere di accoglierli:
proprio perché li sentiamo immediatamente, da sempre, come figli nostri
comunque arrivati a noi; figli da accudire e amare senza chiedere troppo in
cambio. E sappiamo bene, da sempre, che le parole che usiamo, così come i figli
che amiamo, finiscono per dare a noi più di quanto possiamo dare loro.
Sonia Giovannetti
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