giovedì 18 settembre 2014

SONIA GIOVANNETTI SU "LA POESIA"

RIFERIMENTO AGLI ARTICOLI DI FRANCO CAMPEGIANI E UMBERTO MESSIA SUI POST DI AGOSTO E SETTEMBRE


Alle bellissime, profonde parole dei commenti dei miei cari amici Franco e Umberto, non saprei rispondere altrimenti se non con un sentito e commosso “grazie”: non solo per la stima e l’affetto che vi leggo impliciti nei miei riguardi, ma anche perché, nel merito, mi aiutano davvero a capire meglio il senso della mia poesia.
Un poeta, infatti, generalmente non è mosso da un senso preordinato della propria scrittura, non produce “a tesi”; prova solo a dar voce alle proprie emozioni, sentendosi quasi sempre incerto dell’esito, se questo sia fedele o meno al proprio sentire; credo gli prema soprattutto riuscire ad esprimere l’ intima, personale urgenza dell’anima, più che la “forma” di questa espressione. Sa bene, certo, che la forma è molto importante: lo identifica, può inoltre arrecargli prestigio e riconoscimento. Tuttavia il “cosa” dire resta sempre, per lui, più importante del “come”. Così come sa che ogni giudizio sulla qualità della sua poesia, sul contenuto e sullo stile, è – per sua fortuna – una prerogativa  del lettore: il solo, in questo, legittimato a giudicare.
Perciò, nel ringraziare ancora i miei stimati amici dei loro preziosi e lusinghieri e giudizi, mi asterrò dal commentarli a mia volta: sarebbe davvero indebito e perfino, da parte mia, presuntuoso.
Vorrei solo dire loro, a margine, che mi hanno molto colpito le riflessioni sulla poesia come evocatrice del mistero dell’essere, del dualismo tra il “sé” e l’”altro da sé”, tra finito e infinito. Mi hanno fatto pensare a ciò che hanno in comune poesia e filosofia.
Figlie entrambe del linguaggio, ambiscono in parallelo a penetrare e  a rappresentare con le parole il mistero che ci circonda, che è in noi stessi. La poesia però, forse perché più umile e immediata della filosofia, meno sorvegliata nel procedere e non così circospetta nel dire,  credo riesca a lambire più da vicino l’oscurità del nostro vivere: sembra abilitata, per così dire, a frequentarla con più confidenza, perfino a nutrirsene. Ne fa materia della sua stessa sostanza, ma senza pretendere di averne a tutti i costi ragione. Anzi, contaminandosene integralmente, mi pare riesca spesso a rappresentarla con più efficacia. Il segreto sta forse nel diverso punto di partenza: la poesia, a differenza dalla filosofia, usa gli stessi “utensili” – le parole – non come strumenti esterni da ammettere, solo a seguito di esami severi, nel proprio mondo di regole precostituite, bensì accettando in principio i limiti della loro significatività, ma anche la loro vitalità primordiale, i colori e le sensazioni che, per vie misteriose ma reali, sanno caleidoscopicamente evocare e che siamo soliti chiamare “vita”.
Insomma, le parole sono, per la poesia, come figli comunque acquisiti e di cui non si guarda il passaporto per decidere di accoglierli: proprio perché li sentiamo immediatamente, da sempre, come figli nostri comunque arrivati a noi; figli da accudire e amare senza chiedere troppo in cambio. E sappiamo bene, da sempre, che le parole che usiamo, così come i figli che amiamo, finiscono per dare a noi più di quanto possiamo dare loro.


Sonia Giovannetti

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