Marco Onofrio legge Emporium 2011 |
La poesia di Marco Onofrio, letta da Aldo
Onorati
Con i
suoi 9 libri di poesia finora pubblicati (sui 21 complessivi), da “Squarci
d’eliso” (2002) a “Ora è altrove” (2013), Marco Onofrio offre altrettante
convincenti prove di meditazione lirica. Il modello leopardiano della
poesia-pensiero, sottoposto allo smottamento a-topico e metafisico novecentesco
(Onofrio sussume il disincanto, ma lo
tiene al riparo dalle sterili secche del “pensiero debole” e del
“minimalismo”), viene immerso nell’impasto incandescente di una musicalità
dionisiaca, che abita la voce del poeta in guisa di demone creativo, a getto
continuo, e spande i suoi messaggi inquietanti al di sotto della forma,
“apollinea”, misurata e inappuntabile. La tessitura dei versi è sempre tenuta a
severo rigore mentale: ed è questo che, anzitutto, ci dà la misura di un’arte
potente, legata un pentagramma sopra le righe, a cui fa da contrappunto una
chiave troppo profonda perché i due termini estremi (il pensiero e il palpito
emotivo) non scuotano il lettore.
La scrittura poetica di Marco Onofrio articola
la parola in un diaframma di complessità, cioè di armonia degli opposti, entro
cui si gioca ogni carta dell’esistenza, del vivere e del possibile. Attenzione:
non è facile non cadere nel paradosso espressivo; taluni infatti − senza
possedere il fuoco sacro di Onofrio – hanno creduto di innovare il dettato
poetico attraverso geometrie dissonanti all’interno di un discorso che, non
significando più nulla, affidava al segno grafico la sua elezione. Onofrio,
invece, è una superstrada che sorvola veloce su questi intrighi di ragioneria.
Egli ha la passione interiore dell’esistenza, che interroga appassionatamente,
ma pure razionalmente, trovando che il tutto è anche il suo contrario: e
proprio da ciò scaturisce l’incanto del profondo che si rivela «tremito e spasimo convulso». Questo poeta ha la
capacità “dispettosa”, intrigante, creativa, di porre ogni essenza dentro e
fuori di se stessa, quasi al centro e all’estremo di un possibile dibattito
perpetuo sull’ambivalenza di ogni cosa. C’è un anelito continuo al superamento
della “natura” quale istinto di forza “necessaria”, cioè non selettiva sia del
bene che del male, del brutto o del bello. Egli sembra scrivere da un tempo
ciclico, quasi primordiale, in cui l’eternità non ha andata né ritorno. I
pensieri dunque non possono portare a un punto focale univoco, poiché la vita
“non conclude”, ed è troppo varia e complessa per essere racchiusa totalmente
in una forma. Ma il frammento, quando il poeta sa dipingerlo in essenza, può
brillare della luce dell’intero. La contemplazione di sé non significa soltanto
introspezione, quanto anche specularità del tutto nel segmento, dell’immensa
volta del cielo illuminato reso punta di spillo da una lente concentrica: ed è
questo vetro ustorio (l’io che riflette
l’immensità) a dare esplosione alle polveri della cronaca, della storia,
dell’assenza.
Onofrio parla ancora da una condizione di
integrità (come a dire che l’uomo o è misura di tutte le cose, o è nulla), sia
pure non idillica e non ingenua. È un poeta nuovo su basi antiche: si allontana
perciò dal frastuono del verso contemporaneo per dialogare coi grandi di ogni
tempo, ai quali premeva l’urgenza di abbracciare la vita, non di sezionarla.
Infatti, conia versi d’una bellezza, d’una potenza, d’una fragranza d’aure nuove,
e insieme senza tempo, che non possono scaturire se non dal senso eterno del
mistero, dalla sua insistita e mai conclusa interrogazione. Onofrio è conscio
dei pericoli che corre su tali vie, sui rimbalzi dal cuore all’universo e da
questo al cuore; talché l’uomo risulta sempre figlio delle stelle, elemento
tratto dal brodo siderale, in un triangolo capovolto il cui lato-base è il
cielo, e il cuspide, il vertice acuto, l’intimo nostro: “in interiore homine
stat veritas”. La sua poesia è un
inno alla gioia, al modo di «imparare l’amore», di «essere amore». La preghiera
d’amore e la “laude” che egli rivolge alla vita è una distillazione consapevole
del buio e dell’abisso, attraverso le acque scure, il pane e il sale del mondo,
il vuoto dentro il vuoto, le folgori nel cielo, l’urlo, il cosmo, la
convulsione. D’altra parte, non potrebbe essere creduto un grido alto di gioia
se non salisse dal magma insanguinato e doloroso del mondo trasfigurato!
Si torna, con Onofrio, alla parola
significante, non solo sonora, non solo matematica, poiché i ragionieri del
verso hanno fatto il loro tempo. È un dettato nuovo, una visione insolita
dell’esistere, dell’essere, dopo
Montale. Perché Montale? Perché questi ha statuito la fine dell’espressione,
con un pessimismo distruttivo che non si è fatto più liricità, ma livore e
disperazione senza speranza. Il dopomontale
è un problema: anzi lo sarebbe, se non ci fosse un dopo-lui. La poesia “positiva” e “agonistica” di Onofrio nasce da
una sete di rinnovamento personale, cosmico, e da una fede nel tempo e nella
durata di esso. C’è una spinta evolutiva interiore di gran forza che sorregge
l’assunto globale della poetica di Onofrio, anche quando (come in “Emporium.
Poemetto di civile indignazione”, 2009, o in “Disfunzioni”, 2011) straripa
nell’esplorazione dei territori etici del nostro tempo: in tale luce bisogna,
secondo me, porre la significazione del termine “amore”, in Onofrio sempre
polivalente, polisemantico, ossimorico, che diventa corollario umano al mistero
e perno dell’abbandono a ciò che è più grande di noi.
Marco Onofrio è un artista dall’impronta
inconfondibile e dalla personalità ribollente. È un fiume in piena: di
passioni, sensazioni, contrasti, proposte, provocazioni; anche di forti
tentazioni oratorie, ma risolte nella bellezza dell’incatenazione semantica e
sonora. Una chiarezza di fondo illumina il cammino lirico: la parola si fa
taglio bruciante, e poi balsamo allo stesso. La cicatrice non si dimentica
facilmente. Ma che pagina è quella che non lascia traccia?
Aldo
Onorati
La poesia di Marco Onofrio è a brillare sugli scogli di Lèucade. Belle impennate
emotive; concrete cospirazioni etimo-foniche: qui si fa della normalità il
regno delle stelle, e del cielo il cuore della terra; il tutto arrampicandosi
con scarpe felpate sulle cime di un linguismo che, semplicemente, vuole
esprimere le emozioni di fronte ai colori
che lasciano le cose; di fronte alle sensazioni di un altro giorno che muore. E’ superfluo dire che le metafore, le tante, fanno dello spartito un gioco di fughe
e ritorni, di voli e di svoli, ma pur sempre di parènesi alla vita; a una vita
che sa fare del futuro il passato e del passato il futuro in una rinascita
epifanica tesa a vincere le ristrettezze del vivere. La vicinanza del dire qui
si fa monito superbo ad una prosodia che abbracci l’intensità dell’essere.
Esempio apodittico di come la vera poesia si cibi di nessi verbali veri,
lontani da masturbazioni mentali, da complicati, parossistici, ed inutili spazi
figurati che complichino il messaggio. Grande animo, illuminanti voci semantiche, coinvolgente
musicalità fonosimbolica, giusta dose di panismo a cristallizzare gli input della vicenda umana,
espansioni stilistiche di forte vis creativa, riferimento a questioni che
inquietano il fatto di esistere: il tutto in in una naturalezza umana e
disumana che sa elevarsi alla grande verità della natura; ad
abbracciare il mistero che è qua.
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poesie di Marco Onofrio:
Parola
L’universo è una parola:
l’unica vera,
l’unica non nostra.
Una parola che significa di sé
senza referente.
Una parola assoluta
dai sensi e dai suoni infiniti.
Una parola incisa nel silenzio
come una ferita.
Ora: il grande silenzio
dell’universo
è il silenzio che precede
questa parola
se si deve ancora dire
o dire ancora…
o quello che segue la parola
che nell’universo già si disse…
o è il silenzio la parola
che l’universo è e dice
e la parola che noi stessi
gli dobbiamo e ci dobbiamo
rispondere?
E ancora: l’unica parola
che si dice da sé, nell’essere,
oppure, come tutte le parole,
ha bisogno di qualcuno
che la dica?
Chi è che pronunciò
la parola dell’universo?
Chi deve dirla
o continuare a dirla?
Sera
di giugno
Eccomi, sono arrivato.
Tremo
di gioia fino ai bordi
dell’estate
ancora nuovamente
innamorato
dinanzi a una bellezza
così pura.
Oh estasi, infinità
sognante!
Profonda limpidezza
della vita.
Scie d’azzurro viola
nel gran blu
scavano gallerie nel
sole:
isole, sulle foglie
larghe
della tua magnolia.
Ondeggia – crisoberillo
– il manto
luminoso della sera.
La ragazza si prepara
per
il ballo. Annoda il
tappeto del tempo:
ora dopo ora si fa
storia.
Tra poco sarà notte.
C’è del pulviscolo che
rotea lento
dentro i raggi obliqui:
vaga per l’aria tenera
giallo d’opale e
amaranto
l’oro misterioso
verderame
il dolce incanto…
e il cielo, gonfio,
s’introna
con gli uccelli a
frotte:
cupa spelonca
purpurea
lucido reame
spento dal suo ultimo
bagliore…
Ecco, i colori lasciano
le cose.
Un altro giorno muore.
La
stella dell’alieno
«Se potessi andare
lassù
su quella stella!»
mi dici trasognando in
un sospiro.
Come fosse un luogo più
degno,
più bello o
straordinario
del gabinetto rotto di
casa tua
e non fosse già un
miracolo
che esistiamo, che
pensiamo
e possiamo parlarne.
Anche qui, quaggiù, è
universo:
nel posto che ti sembra
più banale
nel giorno più
imperfetto del dolore.
È questa la stella, su
cui l’alieno
vedendola brillare da
lontano
sogna di arrivare!
Montecristo
Ombrosa, isola isolata
incidi il tuo profilo
nella luce
d’oro del crepuscolo
tirreno
viola contro il fumo di
laggiù
lontano, lontano,
all’orizzonte
tricuspide, dentro il
tuo mistero
impenetrato, chiusa
Montecristo:
tu, fortezza di
solitudine
immersa nel tuo tempo
millenario
al di fuori del tempo
stai, protetta dalla
Storia
nel silenzio dell’eternità.
Ma io ti ho visto, ti
ho visto
un pomeriggio di
cent’anni fa…
Mito
Cercavo l’asola del tempo
per scucire il misterioso vestimento
delle cose, l’impronta atavica
di sotto del molteplice apparente.
Mi dissero dell’acqua,
“vai all’acqua”:
tornare alle sue strade
primordiali.
Mi immersi giù nel regno delle Madri.
Mi aggrappai al seno sconfinato
di una grande Notte femminile
succhiando – ubriaco di vita
il principio della totalità:
eredità di terra prenatale.
Era una grotta immensa di schisti
di stalattiti cosmiche e stellari:
un antro di splendenti apparizioni.
I corpi rivelavano spontaneamente
il gioco dell’amore e della morte
iscritto dentro al cerchio
della vita, nelle stagioni umane.
Mordevo, ebbro, la bellezza del mondo
sorretto da forze terrene e – in egual misura
da spiriti celesti e soffi rari.
Vidi Urano tenebroso, muto,
custodire la sorgente prima,
lo spazio e il tempo originari,
e poi, più in là, l’impensabile inizio,
il limite più fondo ed assoluto.
Fluttuai, a ritroso, nella liquida oscurità:
era uno spazio nero che splendeva.
Ascoltai le memorie dell’Oceano:
c’era il mistero della storia
e il racconto mitico dell’uomo.
Vidi staccarsi, dalla fenditura
che il tempo nel suo inizio ha procurato
e da cui sgorga ancora, una figura
familiare, non riconoscibile
in un vapore di riflessi ipnotici:
si dissolse istantaneamente,
dopo millenni e millenni
di attesa. Ero giunto appena
per coglierne il guizzo, la strana
silenziosa apparizione: la mia vita
dunque, non era stata vana.
Le acque della morte, inesorabili
si chiusero per sempre su di me.
Il
chiodo
Ogni giorno è un chiodo
al quale appendo
la mia verità.
Ma il cielo è un muro
d’aria che non tiene.
Per questo il giorno
dopo mi conduco
a viverla di nuovo e a
riprovare
l’ascesa faticosa dentro
me.
Raccolgo tutto l’essere
che sono
e mi protendo: come un
arco, fremo
verso la suprema
libertà.
Il
mistero
è ovunque intorno a noi,
è dentro a ciò che siamo,
è in ogni cosa. Anche le stelle
più lontane sono qui.
Il cielo inizia a un pelo dalla terra
perché la terra è nel cielo
un pianeta che rotola pel cosmo.
Quest’energia tremenda, silenziosa
prorompente, è la stessa che
sonnecchia dentro il seme:
la scintilla che divampa alle radici
e sospinge lo sviluppo della vita.
Guarda le zolle di un campo
o le foglie di un bosco
o i granelli di sabbia
in riva al mare:
è come contemplare
un firmamento
di particole uniche,
un labirinto
di presenze singolari
identità.
La riserva inesauribile di senso.
Lo splendore muto delle cose.
Il prodigio che non finisce.
Guarda, in un prato
come fluisce il palpito del vento
che si comunica ai fili d’erba
verdissimi, lucenti, rigogliosi:
come mareggia d’onde
d’oro il grano gonfio.
È la clemente solitudine dei luoghi:
il silenzio, che dorme sopra i mari
e intorno ai monti, mentre la vita
ferve e la nuvola va,
ombra di mutevole armonia
è l’euritmia che vibra dentro l’aria
nel corpo vivo della madre terra
il fuoco azzurro della sua cintura
la grande verità della natura:
il mistero è qua!
I fasti del silenzio
Ecco: il
mondo ora è perfetto
rotondo,
fulgido, maturo
frutto
d’oro che io ho fatto mio
pomo
che all’interno mi possiede
svela
generoso i suoi reami
i
fasti del silenzio e dei misteri
chiuso
fra le braccia e le mie mani
il
petto che sussulta di emozioni
sono
io – mi riconosco?
Gaia
di pienezza è la mia vita:
per
questo, sempre ne rinasco
e come
fui domani sarò ieri.
Perfettamente in linea con il pensiero dell'amico e maestro Aldo Onorati, mi permetto di citare un brano da me pubblicato in "La teoria autocentrica" (Armando editore, 2001), dove parlo della personalità creativa. E' un pensiero che ben si attaglia, a parer mio, alle poesie qui pubblicate, ma direi alla poetica di Marco Onofrio in generale, da me conosciuto, apprezzato e frequentato nei primi anni duemila: "La mente creativa è abbarbicata alle comuni radici del tormento e dell'estasi, del tutto e del niente, in un equilibrio implosivo/esplosivo il cui unico scopo è di prender parte al banchetto universale, penetrando in tal modo nell'insondabile mistero di sé. La personalità creativa è libera per questo suo amore dell'essere e del non essere, per questa sua smania di gioire e di soffrire, di fare esperienza del bene e del male, per questo suo tragico aderire alle cose restando selvaggiamente padrona di sé". Mi complimento vivamente con Marco per gli sviluppi della sua poetica, qui documentati. E ovviamente anche con il suo mentore.
RispondiEliminaFranco Campegiani