Biblioteca
dei Leoni. Castelfranco Veneto (TV)
2014. Pg. 96
2014. Pg. 96
I tre nomi della vita:
vita, morte, amore. E quali potrebbero essere gli ingredienti di maggiore resa
poetica, e, al contempo, di maggior intensità esistenziale, di maggior
riflessione emotivo-speculativa. “La morte e la vita hanno lo stesso sapore –
afferma un poeta contemporaneo - si innestano fra loro fino a compensarsi, fino
ad acquisire un senso che non esisterebbe senza l’apporto dell’una e
dell’altra”. Plaquette generosa, densa, zeppa di motivazioni umane, i cui
versi, con energica e simbiotica fusione fra dire e sentire, si espandono oltre
le ristrettezze della vicenda umana. La poetessa, partendo dalle considerazioni
sulla fugacità e irreversibilità del tempo, sulla precarietà dell’ora e del
giorno, si abbandona a struggimenti di vera liricità. D’altronde è cosciente
della sua sorte, ma per questo ama come una cosa sacra il breve soggiorno che
le è toccato:
Sono attaccata
alla vita
come l’avaro
al denaro
(Voglio vivere).
Un
attaccamento morboso, intenso, e plurale. Un attaccamento che da soggettivo si
fa oggettivo e fortemente traslato. Un sentimento che tutti noi proviamo
uscendo da un cimitero, dopo aver visto con sorpresa volti di amici e
conoscenti che ci hanno lasciati:
Respirare aria di vita
in un luogo di morte
e guadagnare l’uscita
benedicendo la sorte
(Cimitero di Sant’Anna).
E
non di rado l’Autrice si serve di versi di autori di valenza letteraria per
dare più forza al suo patema vicissitudinale. Tanto che l’amore, il sentimento
dei sentimenti, acquisisce rilevanza poematica e forte connotazione emotiva se
misurato alle ristrettezze dell’esistere:
L’amore è un soffio in più
al respiro della vita (Mio
intimo fiato),
se
misurato al pensiero assillante di una fine. Sì, l’amore si fa grande
occasione, vitale momento di una plurivocità tale da essere il focus
determinante, l’alimento indispensabile del nostro esser-ci, come afferma
Helvétius in un verso riportato dalla
Nostra:
Non si vive se non il tempo
che si ama.
C’è
in questa opera una potenzialità sentimentale e una meditazione filosofica tali
da fare della dualità fra bene e male, fra eros e thanatos, fra vita e morte,
uno slancio oltre la siepe che ci limita, oltre l’etimo della parola; il verbo
si fa fiore nel giardino della poesia, come nel giardino della vita i fiori si
fanno amori. È qui il valore che la Nostra dà al sintagma, dal momento che gli
assegna il compito di rivelare tanta sostanza creativa, fonica e cromatica. E
si sa quanto sia difficile trovare quegli involucri giusti per dare corpo all’intensità
del nostro sentire e azzardare voli oltre l’idea della sottrazione, del redde
rationem; e la Fusco lo fa affrontando
le questioni più impellenti della società, come l’accanimento terapeutico,
l’eutanasia, l’aborto:
Chi
dà la vita
non
può dare la morte (Solo una madre).
Non
so se vedrò
mai
approvata
la
legge
sull’eutanasia.
Ho
visto però
entrare
in
vigore
la
legge
sull’aborto.
Eppure
il feto
non
aveva espresso
scelta
alcuna (Diritto alla vita),
o
affrancandosi dalle miserie del quotidiano con gli slanci romantici in fiori di
parole, dacché “La vita per alcuni/ è una malattia cronica/ che guarisce con la
morte”. In questo continuo gioco di contrapposizioni fra gioia e dolore, fra musica e silenzio, fra
giardini e cumuli di cemento, si innesta un memoriale dalle tinte policrome,
che riporta a vita sprazzi di primavere:
Conservo ammucchiati
come fasci d’erba falciata
i giorni più belli.
Sono freschi,
ancora pieni di vita (I
nostri ricordi).
E
il tutto scorre con fluidità e melodia, con vivacità visiva e contaminante, su
uno spartito di note che concretizzano momenti di generosa empatia. Versi
brevi, apodittici, pièces contenute, incisive, che, con forza maieutica e folgorazioni
iperboliche, si affratellano alla pienezza ontologica di Franca Olivo Fusco.
E
anche se “la vita – mortale -/ è un pretesto/ che giustifica/ l’immortalità/
della morte”, e anche se “La vita/ si affanna di fatica./ Ma tanto è inutile./
E’ sempre sorpassata/ dalla morte”, e anche se la Nostra si rifugia “nell’evanescenza/ del sogno/ per
sfuggire/ alla realtà”, è pur cosciente di avere vissuto con intensità, con
amore, con gioia tanto da lasciare:
La tavola imbandita
sazia d’amore e di vita.
Nazario Pardini
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