Umberto Vicaretti collaboratore di Lèucade |
E’ un canto davvero appassionato quello che Umberto Cerio innalza alla sua terra, un omaggio che reca anche un’accorata richiesta “Tu portami l’erba nuova della tua sacra fonte, / i profumi della tua notte, / il respiro del tuo geranio rosso”. Un canto/preghiera che ripercorre trepidante le vie della memoria, fino a risalire a quel luogo indimenticato degli affetti che per primo vide e ascoltò “i flebili lamenti del bambino / ancora mezzo addormentato / nella sua culla di abete”. Era quella la terra primigenia delle “marine azzurre”, dei “nidi di allodole sui platani” e di “sinfonie di cetre e flauti”. Era la terra promessa, vagheggiato edenico giardino di “alberi / di limoni d’acanto e di salici”.
Ma ben presto l’elegia si dissolve, oltrepassa i confini di quello splendente ‘topos’ dell’anima e si fa canto universale per abbracciare i più vasti confini di un’altra Terra, quella che tutti ci accoglie, il luogo dilatato dove “i lampi delle tempeste” e “i silenziosi giri delle lune / l’astronave della solitudine” rompono l’incantesimo, tracciando un solco profondo tra desiderio e realtà. Il poeta si mette così in ascolto e può distintamente sentire “l’urlo dell’uomo ferito”, registrare l’inquietante “fascino degli abissi marini / dove è bandita ogni pietà”. Il suo canto, perciò, ora diventa grido e denuncia per “il sacro sangue / sparso su pietre della Palestina / … / nelle moschee d’Israele, / negli arsi deserti iracheni”; ora si eleva a meditare sul mistero del vivere e dell’umana avventura: “Segnami i tuoi confini, e i miei, / il dramma e il canto dell’Occidente, / nel greve andare del mio tempo / in questo regredire della storia, / assurda incognita dell’esistenza”; si fa infine rassegnato specchio del vero: “Ora non c’è altra elegia /che l’atra somma dei dolori /accumulati nelle guerre / dove ci sono fiumi da riempire /del sangue, ancora, dei diseredati. / Ora non c’è più inno / che per l’avventura della speranza”. Preso atto della planetaria diffusione del male, sembrerebbe preclusa ogni via di scampo. Unica ancora di salvezza è allora, per il poeta, tornare alla sua terra e a lei, benché “musa infedele”, levare nuovamente il suo canto; a lei chiedere (sorta di risarcimento morale per le promesse non mantenute) “il delirio del paesaggio stellare” e “la chioma di Berenice”, il “girasole” e “la festa della luce”; e poi ancora “del mirto un ramoscello” e “le parole dei poeti”. Sì, le parole dei poeti. Perché solo le parole dei poeti possono vincere la solitudine, esorcizzare il male, riaccendere il sogno. E le parole di un poeta come Umberto Cerio hanno davvero questo potere, perché esse possiedono il raro dono della luce, la forza straordinaria e redentrice del ‘logos’.
Umberto Vicaretti
Carissimo Umberto, ti ringrazio di cuore per questa tua lettura di "TERRA", che è profonda e penetra nel mio cuore e nella mia anima. Il tuo commento aggiunge poesia a poesia e si sente il tuo respiro e la tua adesione,che -ti assicuro- apprezzo anche come segno di amicizia. Se poi alla acutezza della tua lettura aggiungiamo la tua bravura, non solo di poeta ma di ermeneuta e critico, la tua apertura al canto, alla terra quasi comune che ci ha visto nascere e crescere e che ha nutrito le nostre anime, ecco la tua superba esegesi, molto più valida e gradita di un commento. il tuo tono mi rincuora e ti sento più che amico. Grazie ancora.
RispondiEliminaUmberto Cerio