Maria Grazia Ferraris collaboratrice di Lèucade |
Umberto Cerio collaboratore di Lèucade |
Mi colpisce per prima cosa, in questo
poemetto di U. Cerio, dal titolo TERRA, l’esordio, crea un vero impatto
comunicativo, che si esprime con l’imperativo: “Tu portami… L’imperativo è incalzante e si dipana lungo tutto il
canto:
Portami l’erba nuova…i profumi…il
respiro… i flebili lamenti… le grida di salsedine dalle barche,… Un imperativo reiterato e ricorrente
che si amplifica e percorre sinuoso tutto il poemetto, rinforzato dal tu, un "tu"
dialogico interlocutorio, che scandisce le varie fasi della corsa della vita
evocata nelle sue varie forme, eppure un tu assolutamente corale, che raggiunge in alcuni momenti il pathos,
quasi il testo ci introducesse e costringesse lentamente, ma decisamente in un dialogo ideale e contemporaneamente
storico- evocativo, dunque filosofico
Il
tono si fonda con evidenza su una tecnica che caratterizza l’opera nella sua complessità: mira al trasferimento di una situazione
esemplificativa ed oggettiva in una situazione interiore e poetica:
Portami
un seme della primitiva
tua vite d’uva spina gialla,
ch’io
possa fecondarlo nell’argilla
che ha
visto morire i miei avi…
Fino a
giungere all'estremo approdo. Il discorso si amplia e diventa storia del Cosmo
e dell’Umanità:
..portami
l’alba dell’Universo,
con
l’esplosione immensa
delle
comete e delle stelle….
ricostruendo
la sacralità della vita e della Natura, la solitudine e il mistero
le
tenebre/ e i silenziosi giri delle lune…
Portami
il girasole…
Montale avrebbe voluto trapiantare il suo girasole,
col suo volto giallino, nella sua anima bruciata dolorosamente dal salino, il
Nostro nel suo cuore tremante, per
poterne seguire la luce, giacché la vita umana è davvero deserto detrito, voce
impaurita ed urlata dell’uomo ferito, dell’innocenza violata, né la poesia che ha sempre uno sguardo verso l’oltre, può
del tutto consolare. Che cosa è mai la poesia se non l’espressione sublimata delle nostre inquietudini, della nostra via
dolorante nella storia?
Non ci
sono barriere spazio-temporali a segnare limiti ed argini della vicenda umana:
nel dramma coesistono natura e cultura, etica e sublimazione, individuo e
società…l’urlo dei giganti che muoiono, le schegge di un missile nemico, il
sibilo del serpente che attacca, …
l’anima/
del dèmone e del santo,/ l’essenza di bestemmia e di preghiera.
L’autore
opera un’ intrusione superba e parimenti
consapevole negli spazi della
natura, della vita coi suoi sprazzi vicissitudinali, nell’agire umano e nel suo
valore etico, unita a una visione permeata di melanconia strisciante che
contribuisce a rendere nel contempo personale ed universale il messaggio, e
parimenti a trasferirlo con immediatezza alla riflessione sul nostro sentire.
Tutte le
allusioni simbolico-allusive danno forza
e colore al dettato linguistico. E le memorie stesse rafforzano questa visione
della vicissitudine umana: le memorie d’infanzia, le marine azzurrine, il vento
lieve, i nidi delle allodole sui platani, il canto degli innamorati, i vecchi
in attesa della morte, il silenzio dei cimiteri. Vita e morte. Elegia.
Insomma
il Nostro affronta l’esistenza in tutto il suo dispiegarsi e lo fa con versi
ora drammatici e risoluti, ora dolci, nostalgici, quasi di un sapore
virgiliano, ora di un abbandono amoroso quasi catulliano, ma versi comunque sempre sobri e robusti, che arginano le
emozioni . Sanno utilizzare un proficuo rincorrersi di metafore, ed una plurivocità di nessi e di significante polisemia
Affronta
virilmente la memoria del passato, l’infanzia,l’inquieta ombrosa adolescenza
sognante alla ricerca di bellezza : la pietra non levigata dal tempo, aguzza,
ruvida, del suo fiume di ungarettiana memoria…
…i
giorni di dannata
fatica
e di bruciante angoscia,
lente
le sere del riposo,
ch’io
possa in me sentire
e
conoscere il bene e il male,
il
dolore della nascita,
la
disperazione dell’agonia.
La
visione si dilata nella condivisione delle lotte dei popoli e il regredire
tragico della storia, e il dramma e il
canto dell’Occidente, nel greve andare del tempo, nell’amore disperato per
la terra, sacra, nel ricordo della propria terra, terra:
…del mio dolore,
terra della mia primavera,
terra del mio canto infinito
sorto nell’avaro uliveto
ch’è visione se gli occhi chiudo
e giro indietro l’orologio
delle gelose mie memorie,
benché tu sia musa infedele
La parola, si fa puntuale ed oscillatoria, si
adatta con misura mirabile etimo-fonica al dettato dell’anima, si fa elegia,
quella di una ispirazione etico-creativa avvertita della crisi e del dramma
della civiltà occidentale
Reminiscenze
filosofico-culturali si fondono in palpiti di vita in un percorso fluido come
il fiume evocato
…………E
tutti i segni della vita.
Tu
donami del mirto un ramoscello
ed io
forte griderò al mondo
che
sei, che sei tu la mia terra!
Invocazione
ultima, ancora imperativa: desiderio e speranza che chiude circolarmente il
poemetto ricongiungendosi all’incipit: Tu
portami l’erba nuova…. Comunica una razionalità che sa arginare e contenere
il rischio di esplosione di sentimenti troppo forti nei momenti più tragici
delle vicende evocate. Insomma, qui, l’autore, con l’apporto di una convincente
tecnica di scrittura, sostanziata da un nutrito bagaglio culturale, sceglie il
registro della storia e del cuore
profondo e vi intinge con decisione la penna.
Maria Grazia Ferraris
TERRA
Tu portami l’erba nuova
della tua sacra fonte,
i profumi della tua notte,
il respiro del tuo geranio
rosso,
i flebili lamenti del bambino
ancora mezzo addormentato
nella sua culla di abete
dove radici aeree risalgono
agli occhi della madre sua
morente,
grida di salsedine dalle
barche
di marinai ghermiti dalle reti
e scie di velieri fantasmi.
Portami un seme della primitiva
tua vite d’uva spina gialla,
ch’io possa fecondarlo
nell’argilla
che ha visto morire i miei
avi,
soffrire antiche stirpi
contadine,
burroni profondi tra bosco e
bosco;
la distesa della steppa
lontana,
i lunghi deserti d’Oriente.
E portami l’alba dell’Universo
con l’esplosione immensa
delle comete e delle stelle,
l’esplosione e tutto il
fragore
che così lontano ti scagliò
nell’infinito spazio della
notte
e sacri ti diede alberi
di limoni d’acanto e di salici
-con i lampi delle tempeste-
per la tua festa della luce.
Portami dello spazio le tenebre,
i silenziosi giri delle lune,
l’astronave della solitudine,
il delirio del paesaggio
stellare
e la chioma di Berenice.
E nell’alba del mare
portami il girasole
che nel mio cuore io lo
trapianti
e possa sempre seguire la
luce,
il tremore del mio tentato
volo.
Fammi ascoltare l’urlo dell’uomo
ferito dai detriti della vita,
il canto dolce della madre,
il sibilo del serpente che
attacca,
e le parole dei poeti.
Portami il grido disperato
del gigante trafitto sulla
fronte
dal giavellotto argivo,
dalla fiocina della baleniera,
dalle schegge d’un missile
nemico,
la notte pietrificata, nel
tempo
di una conchiglia fossile o di
un ragno
che mille farfalle avvelena
nella trama al soffitto tesa.
Portami la sorgente della luce
nella tua mano di cristallo,
nel tuo pugno folle -che
stringe
fiori di ginestra- l’anima
del dèmone e del santo,
l’essenza di bestemmia e di
preghiera.
Portami le marine azzurre
nel vento lieve dei mattini
e nidi di allodole sui platani
o su ombrosi faggi, dove i
pastori
tessono i loro canti nelle
sere.
E il silenzio dei cimiteri
il canto degli innamorati
maschere di antichi Sileni
sinfonie di cetre e flauti
fluttuanti memorie d’infanzia
e di vecchi in attesa della
morte.
Ed una pietra bianca.
Non una pietra levigata
dal mio fiume dell’infanzia
o dal mare di poco più
lontano:
una pietra aguzza, ruvida,
che mi ricordi tutti gli
alberi
spinosi, dove non io son
salito,
ma il desiderio di guardare
cime di lecci e tetti delle
case
per vedere dove posava il
nibbio
e la vergine luce delle
stelle.
Una pietra dove poi scavò
lo scalpellino sconosciuto
e vi impresse di sfinge un
volto
che ancora dentro al cuore mi
rimane,
quando percorro il silenzio
di una semideserta strada:
una pietra che il tempo ci
riporti
degli sparsi sentieri della
vita.
Portami in dono degli scarabei
i voli ed i verdi colori e
blu,
la bellezza sacra e profana
dei sogni degli adolescenti,
il fascino degli abissi marini
dove è bandita ogni pietà,
dove vita con morte si
consuma,
dove morte con vita si
trasmuta.
Portami in dono il sacro sangue,
sparso su pietre della
Palestina,
dei guerrieri e delle donne
suicide
nelle moschee d’Israele,
negli arsi deserti
iracheni.
Portami i giorni di dannata
fatica e di bruciante
angoscia,
lente le sere del riposo,
ch’io possa in me sentire
e conoscere il bene e il male,
il dolore della nascita,
la disperazione dell’agonia.
In tuo solco bruno volgimi il capo,
ch’io possa riconoscere d’un
tratto
del grano il germe, e non
confonda
frutto vero con l’erba
monachella.
Segnami i tuoi confini, e i
miei,
il dramma e il canto
dell’Occidente,
nel greve andare del mio tempo
in questo regredire della
storia,
assurda incognita
dell’esistenza.
Puoi tu, mio fiume sacro,
dove una volta mi bagnai
sereno,
inondarmi ancora, darmi la
scorza
col tuo limo e farmi fertile,
donarmi come allora la
certezza
la forza dell’indifferenza
e la vittoria sull’inganno?
Puoi tu, nelle anse del tuo
corso,
ancora modellarmi come un
sogno,
come macigno non scalfito?
E puoi errare, errare ancora?
Ora non c’è altra elegia
che l’atra somma dei dolori
accumulati nelle guerre
dove ci sono fiumi da riempire
del sangue, ancora, dei
diseredati.
Ora non c’è più inno
che per l’avventura della
speranza
e per l’innocenza violata,
che si consuma sul filo
limpido
del fuoco dell’ultimo
orizzonte.
E tu,
terra del mio dolore, nato
coi giorni della prima luce,
che mi venisti incontro bella
come una fanciulla sbocciata
tra l’erba delle lucertole;
terra della mia primavera,
scoperta (tra l’acacia e il gelso
bianco della siepe bruciata)
nei giorni dell’adolescenza buia;
nella vitalba nata negli spacchi
del tufo a piombo e nel roveto fitto,
nell’acre sentore dell’albero del sole;
terra del mio canto infinito
sorto nell’avaro uliveto
ch’è visione se gli occhi chiudo
e giro indietro l’orologio
delle gelose mie memorie,
benché tu sia musa infedele
ecco per te ancora il mio canto.
Mia terra di dolore,
portami il crisantemo rosso
e la lucerna della notte,
una foglia d’albero del
viandante,
un volo di rondoni nel mio
cielo,
una moneta per Caronte.
E tutti i segni della vita.
Tu donami del mirto un
ramoscello
ed io forte griderò al mondo
che sei, che sei tu la mia
terra!
Umberto
Cerio
Che dire di questa mirabile esegesi di Maria Grazia Ferraris? Essa mi riporta indietro negli anni, non solo a quelli in cui ho scritto TERRA, ma agli anni che l'hanno vista generarsi, crescere nell'anima e nel cuore, rinnovandomi le memorie che mi hanno "condotto" alla scrittura. E' una lettura puntuale e coinvolgente anche per me, che pure ho vissuto le emozioni, che ora rinnovano, ampliandole, tutte le sensazioni che sono venute densificandosi sulla carta, dopo averle vissute nell'immaginario precedente la scrittura. T sono veramente grato, Maria Grazia, per questo nuovo rinascere, che è un dono.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Un cantico d'amore ineffabile per la sua "terra", quello del poeta: dalla scrittura densa e variegata si evincono i valori, gli affetti, i significati ultimi dell'essere umano, il cui azzardo rischia l'estinzione della specie. "Terra del mio canto infinito" recita Umberto Cerio e conosce con quanta accoratezza l'uomo riformula da sé l'evento delle emozioni che sono e restano il più coinvolgente degli eventi, la più abbagliante ipotesi di rinnovamento palingenetico. Vivere le emozioni sembra dire Cerio è come amplificare ogni vissuto con la più nobile speranza di restare nella memoria. E foscolianamente noi saremo ricordati per il vissuto che abbiamo saputo imprimere alla vita. Bravo Cerio, un ottimo testo, complimenti.
EliminaNinnjDi Stefano Busà
Faccio presente che il testo "Terra" è stato proposto e postato da me su Fb.
RispondiEliminaCordiali saluti. Ninnj Di Stefano Busà
Grazie, Ninnj, vedo (e sono onorato per questo) che abbiamo in comune le corde del canto. Qui la cetra addolcisce sensazioni e memorie. Vero: "sol chi non lascia eredità di affetti poca gioia ha dell'urna". Grazie anche per aver postato "Terra" su Fb
RispondiEliminaUmberto Cerio
Umberto Cerio evoca, in questo poemetto molto ispirato, l'intelligenza del pianeta che ci ospita, la radice unitaria della vita e della morte, della gioia e del dolore, delle luci e delle tenebre. Del Bene e del Male, soprattutto, entrambi necessari all'armonia ("l'anima / del dèmone e del santo, / l'essenza di bestemmia e di preghiera"). E' un vero e proprio fuoco d'artificio, un'esplosione d'amore che abbraccia la totalità del vivente: tutti i germi, tutte le valenze, positive e negative, della vita cosmica, che è armonia di contrari ("il dolore della nascita, / la disperazione dell'agonia"). C'è, in questo canto, il trasporto per tutto ciò che è e che esiste, un travolgente ed espansivo sentimento di adesione alle vicende e ai moti del creato intero. Ma c'è pure una condanna (inevitabile) "per l'innocenza violata" dalla Storia (quella Occidentale), postasi tragicamente fuori dai dettami naturali e dai progetti cosmici. Straordinaria l'esegesi di Maria Grazia Ferraris, che giustamente parla di un'elegia con "versi comunque sobri e robusti, che arginano le emozioni", nonché di "reminiscenze filosofico-culturali" che "si fondono in palpiti di vita in un percorso fluido come il fiume evocato".
RispondiEliminaFranco Campegiani
Ti ringrazio, Franco, per le tue parole che mi giungono in questo momento. Conoscendo non te personalmente, ma il tuo pensiero attraverso i tuoi scritti, ero quasi sicuro che "Terra" ti sarebbe piaciuta. Con la tua nota hai colto perfettamente il cuore del poemetto. Hai colto l'analisi e la sintesi, il senso vero del "mondo"-"Terra" che volevo proporre. grazie ancora, Franco.
RispondiEliminaUmberto Cerio
Proprio ieri ho attraversato la mia Terra e avendo letto, prima di partire, questo meraviglioso poemetto di Umberto Cerio l’ho portato con me e con me ha ascoltato tutti i richiami che la Terra evoca al mio sentire. Ognuno di noi vive con il suo luogo e lo porta dentro la valigia della propria esistenza. Grazie a Umberto Cerio e naturalmente grazie, con i più vivi complimenti, a Maria Grazia Ferraris per averlo magnificamente mostrato a noi e i commenti di chi mi ha preceduto rendono più di ogni altra parola.
RispondiEliminaSonia Giovannetti
Grazie Sonia,
RispondiEliminale sue parole completano le mie di "Terra" e mi sostengono nel mio sentire la terra, con tutte le emozioni e i drammatici moti dell'anima e del cuore. Mi fa piacere che il mio poemetto abbia evocato in lei anche i richiami della sua terra. Ha poi ragione sulla esegesi di Maria Grazia Ferraris: ha fatto un commento impareggiabile.
Umberto Cerio
E’ un canto davvero appassionato quello che Umberto Cerio innalza alla sua terra, un omaggio che reca anche un’accorata richiesta “Tu portami l’erba nuova della tua sacra fonte, / i profumi della tua notte, / il respiro del tuo geranio rosso”. Un canto/preghiera che ripercorre trepidante le vie della memoria, fino a risalire a quel luogo indimenticato degli affetti che per primo vide e ascoltò “i flebili lamenti del bambino / ancora mezzo addormentato / nella sua culla di abete”. Era quella la terra primigenia delle “marine azzurre”, dei “nidi di allodole sui platani” e di “sinfonie di cetre e flauti”. Era la terra promessa, vagheggiato edenico giardino di “alberi / di limoni d’acanto e di salici”.
RispondiEliminaMa ben presto l’elegia si dissolve, oltrepassa i confini di quello splendente ‘topos’ dell’anima e si fa canto universale per abbracciare i più vasti confini di un’altra Terra, quella che tutti ci accoglie, il luogo dilatato dove “i lampi delle tempeste” e “i silenziosi giri delle lune / l’astronave della solitudine” rompono l’incantesimo, tracciando un solco profondo tra desiderio e realtà. Il poeta si mette così in ascolto e può distintamente sentire “l’urlo dell’uomo ferito”, registrare l’inquietante “fascino degli abissi marini / dove è bandita ogni pietà”. Il suo canto, perciò, ora diventa grido e denuncia per “il sacro sangue / sparso su pietre della Palestina / … / nelle moschee d’Israele, / negli arsi deserti iracheni”; ora si eleva a meditare sul mistero del vivere e dell’umana avventura: “Segnami i tuoi confini, e i miei, / il dramma e il canto dell’Occidente, / nel greve andare del mio tempo / in questo regredire della storia, / assurda incognita dell’esistenza”; si fa infine rassegnato specchio del vero: “Ora non c’è altra elegia /che l’atra somma dei dolori /accumulati nelle guerre / dove ci sono fiumi da riempire /del sangue, ancora, dei diseredati. / Ora non c’è più inno / che per l’avventura della speranza”. Preso atto della planetaria diffusione del male, sembrerebbe preclusa ogni via di scampo. Unica ancora di salvezza è allora, per il poeta, tornare alla sua terra e a lei, benché “musa infedele”, levare nuovamente il suo canto; a lei chiedere (sorta di risarcimento morale per le promesse non mantenute) “il delirio del paesaggio stellare” e “la chioma di Berenice”, il “girasole” e “la festa della luce”; e poi ancora “del mirto un ramoscello” e “le parole dei poeti”. Sì, le parole dei poeti. Perché solo le parole dei poeti possono vincere la solitudine, esorcizzare il male, riaccendere il sogno. E le parole di un poeta come Umberto Cerio hanno davvero questo potere, perché esse possiedono il raro dono della luce, la forza straordinaria e redentrice del ‘logos’.
Umberto Vicaretti
Carissimo Umberto,
RispondiEliminala nostra "antica" amicizia, ma anche la comunanza di vivere "terre" simili (il mio Molise, infatti, non è molto diverso dal tuo Abruzzo) che nei confini si fondono e vivono la stessa terra e lo stesso mare nel fiume che le divide lungo la linea di un'antica strada di transumanza (che prima le univa), ci donano anche comunanza di sentire e di ascolto. Per questo la tua lettura di "Terra" è profonda, e penetra nel mio cuore e nella mia anima. E il tuo dire è chiaro come la luce. Aggiungi la tua bravura non solo di poeta, ma anche di lettore attento ed aperto al canto non solo interiore che naviga nelle nostre anime, nonché la tua provata capacità di ermeneuta, ed ecco la tua superba esegesi. Ti ringrazio con un abbraccio
Umberto Cerio
Confesso che, mentre leggevo questo avvincente poemetto di Umberto Cerio, mi sono abbandonato del tutto all’onda di mistero e fascino che promana dai versi, rischiando di perdermi nel progressivo, incalzante, rutilante prodursi di immagini, affetti e paesaggi. E mi sono detto che qui Umberto stava realizzando un'esplorazione poetica della vita o forse ci stava proponendo, con fervida grazia, una vita esplorata e riverberata in poesia. Sicché qui emoziona anche il tono, oscillante tra l'epico e l'elegiaco, tra forza e dolcezza figurativa. Ma soprattutto travolge l'opulenza quasi stordente e visionaria della rappresentazione nel suo fantastico insieme. Sì, certo, la Terra! Che però, a mio parere, è in questo poemetto principalmente il motivo che ispira e tiene il tutto. Ma qui, in più e soprattutto, trionfa la Vita che, ora imperiosa ora dolce, si affida a un canto -quello di Cerio- trepido e solenne, sofferto e fidente, nonostante un filo di sotteso ma sereno pessimismo emergente qua e là, in particolare nella parte finale del poemetto. Che si chiude comunque nel segno della speranza e della bellezza.
RispondiEliminaPasquale Balestriere
Certo, Pasquale, quasi un'elegia, come quasi elegiaco è il tuo commento, sapido e pieno, che scende profondo nell'anima, ad aggiungere al mio poemetto la tua sicura potenza di espressione, che imprime al tuo dire più di quanto io stesso dico e che avrei voluto dire in "Terra". Tu sai che trovo -lo dico con umiltà- molte assonanze col tuo dire, "col tuo amore di poesia" (come ti ho già detto in "Altro è questo tempo") per il profumo del mare e della terra che, pur diversi, abbiamo in comune, tu il Tirreno, io l'Adriatico, come "il dialogo con la madre" e "la luce". Per questo riesco a cogliere anche le sfumature delle tue parole che mi dicono più di quanto tu scrivi. E fraternamente te ne ringrazio.
RispondiEliminaUmberto Cerio