venerdì 24 febbraio 2012

Prefazione a: Egizia Malatesta, IL GIOCO DELLE NUVOLE, Edizioni ETS, Pisa 2012.


Prefazione
a
IL GIOCO DELLE NUVOLE
di
Egizia Malatesta


Ci sono giorni in cui
mandrie di nuvole
pascolano l’azzurro,
s’ammucchiano, ribollono,
traboccano giù dal cielo
cancellando l’orizzonte
ed io, come una vela
gravida di vento,
scivolo silenziosa a ricucire
i confini del mare.

Sta qui la ricchezza umanamente caduca e spiritualmente elevata della poesia di Egizia Malatesta: in questa corsa verso i confini del mare su una barca gravida di vento, oltre il trabocco delle nubi. Ed è lo stupore per la bellezza del creato, la coscienza della nostra caducità a nutrire l’anima della poesia, ed è lo slancio verso l’inarrivabile a renderla infinitamente suggestiva. Direbbe il poeta: “ La coscienza di noi e il volo verso l’alto, non tradiscono la vita, ma la traducono in arte”. Silloge compatta, organica, strutturata su uno spartito metricamente vario ed articolato ad accompagnare l’estensione di un’anima tutta volta a tatuarsi in sintagmi e accorgimenti stilistici di grande impatto lirico. Ed è la musicalità che cattura la sensibilità del lettore. Con malizia tecnica e spontaneità ispirativa l’autrice abbina versi di diversa misura metrica a seconda della domanda emotiva; e spesso, a segnare il culmine di una vera romanza è l’endecasillabo, che esplode in tutta la sua portata sonora, valorizzato da misure ipometriche: “…gravida di vento, / scivola silenziosa a ricucire / i confini del mare”. Quello scivolare risalta come sinfonia da intermezzo lirico fra il senario e il settenario. E tanti sono i giochi stilistici con effetti di ritorni onomatopeici. Ma cosa è la poesia se non utilizzo di suoni e intrecci fonici, di impiego di figure, che valorizzino significati e significanti? e che cosa se non ricerca di noi attraverso le nostre confessioni? se non che l’impellente necessità di vincere i limiti che ci chiudono nello spazio ristretto di un soggiorno? se non che sognare, sognare, perché il sogno fa parte della vita, è vita, e ci aiuta a scalare vette insormontabili? e che cosa è la poesia se non che  repêchage di attimi sfuggiti con troppa velocità, e riportati a vivere come un grande patrimonio che sollecita interrogativi altamente esistenziali? o che cosa, infine, se non che fare della Natura un linguaggio visivo, che parli con la nostra voce, e che, rimbalzando sulle cose, ritorni all’anima rivestito dei suoi colori?
   Dice un poeta francese Marcel Dégas, che ho avuto occasione di conoscere alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1993: “La memoria e il senso dei limiti umani, l’azzardo della parola e lo sguardo verso il cielo sono l’alimento più proficuo della poesia”.
   E questa silloge dal titolo Il gioco delle nuvole è tutta in questi intarsi. E’ memoriale, è ricchezza di esplosioni di luce, è traduzione del nostro essere ed esistere in segmenti visivi, è coscienza della brevitas vitae, è slancio oltre quelle nubi che tendono ad oscurare l’azzurro; è sentimento di precarietà che nasce dalla contemplazione del bello commisurandolo alla nostra debolezza: dum loquimur fugerit invida aetas. Ma se vita fugit, e noi abbiamo la percezione della labilità del tempo, che cosa di più umanamente poetico del ridare linfa a storie che ci chiedono di rivivere, di tornare a esistere per non cadere nei vortici dell’oblio?
   Ed è emblematica la prima poesia che dà il titolo alla silloge: Il gioco delle nuvole. E’ il gioco di queste brume fumose e leggere, il loro accoppiarsi, dividersi, intrecciarsi, sparire, riapparire, e svanire a darci l’idea del tempo che fugge, ma anche quella di un sogno che ha il potere di trasferire il nostro cuore in mondi immaginari o ritrovati.  Forse mondi di ginestre rosa e di grani che ci richiamano ad altre età; “A volte / quando rincorro il tempo /con l’ansia dei giorni / che non concede abbandoni, / mi sorprendo a guardare lassù / dove da sempre si compone / il gioco delle nuvole. / Così fantasticando ritrovo / l’aria serena / che accendeva fasci di luce / in mezzo al grano, e torna / quel profumo sottile di ginestre rosa / che fa della mia pelle / il cielo, del vento…il mio respiro.” (Il gioco delle nuvole). E’ la capacità di sorprendersi che alimenta questa poesia, quella di reinventare, di rigenerare, appunto, attualizzandole, scintille luminose di infanzie che tornano su questi spartiti con freschezza e generosità. Non c’è bisogno di una poesia oberata di orpelli, ma di un linguaggio semplice e arrivante come quello dell’autrice: un canto intonato a tanta emozione.  
Ed interviene la Natura con la sua forza evocativa a collaborare, disponibile, a farsi voce, a chiamare le emozioni, rivestirle dei suoi palpiti, per ridarle fresche e rigenerate. La luna, il mare, le dune, il lentisco selvatico si fanno corpi di un’anima che si frantuma in parvenze naturali dando a ciascuna il compito di rivelare immagini ora vergini, ora annose e saporose di vita: “ Dolcemente / mi abbandono al suo profumo / che è di lentisco selvatico, / di resina e di mare.”. (Al silenzio)
   Ed è una sinfonia, una sinfonia trasmessa dagli archi di viole e violini, dalle mani che corrono sulle tastiere ad accompagnare il silenzio che complice crea un’atmosfera di surreale armonia, quasi romanza pucciniana, alcova di un’anima volta a fare della realtà un trampolino di lancio verso slarghi di cielo. Ed è proprio la poesia, credo, lo strumento che ci permette di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile: “Poco a poco / si ricompone il silenzio, / irreale, purissimo. /  Sfavillano gli archetti / delle viole e dei violini, / corrono svelte / le mani alla tastiera: / il tempo di un respiro…/ ed è improvvisamente, /meravigliosamente / sinfonia.”. (Preludio al concerto).
   Una silloge zeppa di motivazioni umane, troppo umane; una silloge che arriva al cuore del mondo per farne l’epicentro della parola poetica. Ed è la parola col suo piegarsi, col suo espandersi, col suo frammentarsi, col suo scomporsi e ricomporsi a far di tutto per combinarsi colle emozioni che zampillano dal seno dell’autrice. Ma la parola si dilata in uno sforzo, sebbene spontaneo, anche tecnicamente malizioso ed esperto in questa funzione complessa di rivelare a pieno la profondità dell’anima. Ed il poeta sa che la parola non è mai del tutto sufficiente a completare questa simbiotica contaminazione. Essa è umana, è un congegno di articolazioni tecnico-foniche finalizzato alla comunicazione, al linguaggio. Ma l’anima è divina e il suo pozzo è profondo quanto l’immensità dei cieli. Come lo è quello della Malatesta. E per questo la poetessa ricorre ad una Natura fortemente umanizzata e le affida il compito di rivelarla, in tutto il suo aveu: “E quando / un cielo grigio ristagna / nelle pozzanghere ghiacciate / della vita / dove ammainano le stelle / una ad una, io so / che basta un raggio di sole /  ad inventare un mattino / e a scoprire / in quello specchio di fango / un cantuccio d’azzurro: in fondo / c’è sempre un po’ di cielo / sopra di noi.”. (Un po’ di cielo). C’è sempre un po’ di cielo verso cui espandere i nostri sguardi anche se in basso ristagnano pozzanghere di fango. Ed è verso quel cielo che la poetessa ambisce a proiettarsi, per svincolarsi, forse, da quello spazio ristretto in cui siamo destinati a vivere. L’azzardo dei confini è il cuore di questa silloge che con voce chiara si veste d’azzurro, di vita, di ritorni, di fughe, di ricerca di luce: “Lasciami andare /libera e leggera / lungo i viali della Grande Anima, / ombra d’aria nell’aria / a sciogliere stagioni con le mani: / per te ritaglierò / pezzetti di cielo sempre nuovi / distesi ai piedi dell’aurora / dove potremo ritrovarci ancora / perché tu sei / e sempre per me sarai / la vita!”. (… Mara)  (Lasciami andare). Anche la persona amata, seppur lontana, si fa talmente viva, e fresca da farsi rappresentazione fisicamente reale, tanta è la forza evocatrice della Malatesta: “  Posso sentire forte il tuo profumo / anche se sei lontano / e sfiorare con le dita il tuo profilo: / è strano, non so dire / quanto mi manchi / e quanto sei vicino, / forse perché quell’ombra / che mi si allunga accanto sulla riva / è qualcosa di più / di un bizzarro riflesso della luna.” (Stasera).
   Ma la sua visione universale, che si fa totale abbandono dell’essere nella bellezza e nel canto della Natura, spesso è contaminata dalla percezione del nostro essere umanamente vinti e vincibili: “Così mi sento / un atomo di luce, / una particella smarrita / nell’incanto della Genesi / mentre un raggio di sole / s’imprigiona / tra le mie ciglia socchiuse / ancora innamorate di un sogno.”. (Alba chiara). Questa particella smarrita nel cuore dell’universo, cosciente della sua breve e irripetibile avventura, sa abbandonarsi attraverso il sogno ed un raggio di sole alla totalità della poesia. Quanta luce, quanta positività, quanta ricchezza umana in questi versi!  Ed è in novembre, forse, che la poetessa meglio che in altre effusioni, riesce a trasmettere quel senso di umano abbandono ad una sorte che il novembre stesso simboleggia a pieno con le sue foglie stanche: “Dorme Novembre / nei mucchi di foglie secche / che il vento raduna / qua e là come pensieri / che si alzano / e ricadono inerti / per diventare / briciole di niente.”. (Novembre). Il lirismo della Malatesta si fa pieno, coinvolgente, e la poesia tocca vertici di grande levatura spirituale con ritagli brevi e concisi, nella loro funzione simbolica: briciole di niente. Ed è il ricorso alle singole particolarità autunnali a significare il passaggio della vita da rami curvi del melo / rossi di frutti ad una inesorabile fine  de l’ultimo boccio di rosa settembrina.
   42  pièces, che si dipanano su un dettato poetico  vario e articolato, ma che rispettano il leit motiv conduttore che ne garantisce l’organicità. Si legga Ricordi di aprile, per avere un’idea chiara della gentilezza con cui la poetessa tesse le maglie del memoriale. E anche qui sono i riferimenti esterni coi loro corpi luminosi a offrire una tangibile collaborazione alla epifania dell’anima: “Un diluvio di luce / e di sereno / riempiva l’aria / di quell’Aprile / innamorato / di un profilo di vento, / e gli aquiloni / nuotavano / negli occhi dei bambini / chiari / come pozzanghere di cielo.”. (Ricordi d’aprile). Ma c’è tanta luce, c’è tanto cielo, e che profumi!, a dare unità inscindibile alla memoria di un tempo che si fa alcova, riposo-ritorno, pace e nirvana edenico per la poetessa.
   La scalata lirica dell’opera si completa con un colloquio soffuso d’amore che nella composizione finale, dedicata alla mamma, raggiunge il colmo del pathos, l’apice di una storia che, decantata nell’anima, si traduce in poiein. In un argomento in cui facile sarebbe cadere nel retorico o nell’eccessivo sentimentalismo, la Malatesta riesce a creare un gioiello d’incastonatura, dove tutto è equilibrio e dove la parola con una spontaneità effusiva, riesce a combinarsi attraverso una trasfusione sentimentale in linguaggio-supporto; la parola si fa ancella, si dona tutta per assecondare un’anima pulita, volta a dire la parte più intima di sé: “Lascia aperte, ti prego, / le porte del sonno, / che io possa accompagnarti per mano / (come allora facevi con me) / da dove non sei più / a dove ancora non sei, / perché è lì che si addormenta l’onda / e la notte s’imbeve di sogni, / perché è lì che tutto riposa / e all’ombra della luna / si compongono le trame della tela /  che si farà vela / per il tuo viaggio di ritorno.”. <<Lascia aperte (…Amia madre)>>
   Alla fine della lettura emerge chiaramente l’amore della Malatesta per un dire arrivante e suasivo. Tutti i tasti delle corde umane vengono più che toccati accarezzati. E quello che più ci resta è un sentimento di amor vitae, un lessico luminoso, incalzante, fatto di invenzioni e lampi immaginativi, che lasciano il lettore emotivamente coinvolto. E proprio il linguaggio, supportato da figure retoriche quali metafore, sinestesie, assonanze, allitterazioni, da enjambements e da rime usate in maniera modernamente parsimoniosa, si regge su una versificazione spigliata, libera, breve e concisa.
   Se nella letteratura contemporanea primeggia l’idea di una vita la cui felicità è rappresentata da una muraglia con cocci di bottiglia, e se la stessa poesia, spesso, è vista come una solitaria esperienza senza gioia e senza orizzonti, per la Malatesta c’è sempre un raggio di sole o uno squarcio d’azzurro  verso cui elevare lo sguardo dalle pozzanghere ghiacciate della vita: basta amare; amare le memorie, anche le negative a volte, amare il bello, amare insomma; e lei ama la poesia, perché la poesia la ama, e fa di tutto per corrisponderla nel suo atto umano e non solo di renderla libera.  
  

 Nazario Pardini

Arena Metato 22/02/2012          







mercoledì 15 febbraio 2012

"Misure del timore" di Antonio Spagnuolo - recensione di Sergio Spadaro

"Misure del timore” di Antonio Spagnuolo – recensione di Sergio Spadaro
Pubblicato il31/01/2012 da
Nota di Nazario Pardini
Piazza-del-Plebiscito-napoli

L’inconscio, il luogo della poesia
Misure del timore“ del napoletano Antonio Spagnuolo (Kairòs Ed., Na, 2011) è un’antologia che raggruppa un venticinquennio di esercizio poetico (1985-2010). Il più antico volume selezionato è Candida, che ha la particolarità – rispetto ai restanti volumetti – di offrire “occasioni” liriche generate da un viaggio in Francia. L’ultima sezione, che è quella che dà il titolo all’antologia, comprende le liriche scritte nel corso del 2010, e che sono pertanto inedite.
Il lasso temporale che l’antologia abbraccia è sufficiente per darci una visione a tutto tondo del fare poetico di Spagnuolo, che la lettura di un singolo libretto poteva limitare (come è capitato a chi scrive). Questo fare poetico è caratterizzato da una proliferazione delle immagini inconscie, che nei testi si presentano spesso in maniera spiazzante, a volte tuttavia voluta, come per perseguire quello “choc percettivo” già teorizzato da Umberto Eco in tempi d’avanguardia dispiegata. C’è al riguardo un’epigrafe, ripresa da un’intervista rilasciata a Maurizio Vitiello (nel sito “on line” Positanonews del 17.8.2011), che è bene riportare: “La libido produce il sapere senza oggetto in disarmonia con il reale. La poesia è legata all’inconscio e l‘inconscio è il luogo della poesia”. Da questo punto di vista era felice il titolo del libretto pubblicato da Spagnuolo nel 2009, Fratture da comporre, perché la ricomposizione delle fratture della realtà in unità di coscienza logico-razionale diventava la meta da perseguire, almeno per quanto possibile.
Ma quello che può non riuscire all’autore troppo sollecitato da un inconscio a ruota libera, rientra invece nei còmpiti di un lettore, che abbia gli strumenti per farlo. Cerchiamo di vedere allora quali frammenti “significativi” la lenza introspettiva dell’autore riporta in superficie. C’è innanzitutto una attenzione insistita sull’io, che in mancanza di relazione con l’altro, genera malinconia e solitudine, fino ad arrivare a un marcato solipsismo. Si veda: “apro incisioni / nella mia solitudine” (p. 15), “in fotogrammi precipito / a riempire il mondo che sparisce” (p. 37), “quando ho perso il reale” (p. 39), “io scrivo distorsioni” (p. 42), “nelle mie proiezioni / l’occhio non varia” (p. 50), “proietto indecifrate ambientazioni” (p. 67), “ad esplorare la mia malinconia” (p. 84), “dimentico tutto quanto ho scritto / [...] o già pensato per infingimenti” (p. 96), “le mie orecchie / hanno ascoltato l’inganno della solitudine” (p. 129), “per rinchiudermi nella solitudine” (p. 151). Infine sono innumerevoli le volte che ricorrono nei testi i singoli lemmi solitudine, malinconia/ tristezza.
Si potrebbe emblematicamente racchiudere questa discesa agli inferi dell’inconscio nel sintagma “il terrore è me stesso”, cui ricorre Spagnuolo a p. 67, che da un certo punto di vista richiama il rimbaudiano “l’io è un altro”, quando questo protagonista francese della rivoluzione poetica del modernismo scopriva che nel là-bas non esisteva più un io unitario.
Ma ricomporre i frammenti psichici in un percorso coerente della coscienza – attraverso quel processo che C.G.Jung chiamava individuazione – non è facile: in tale direzione comunque la “via” più immediata è quella della relazione amorosa, che è poi quella sperimentata dall’autore. Il quale distingue charamente tra Eros e Amore, anche se poi pratica più frequentemente i sentieri erotici (Eros è l’altra faccia di Thanatos, dice Spagnuolo nella succitata intervista). Ecco perché nei testi ricorrono costantemente “immagini” erotiche, che stavolta – rispetto al lessico per lo più astrattizzante del normale procedere – è di una concretezza e di una corporalità inusitate (in questa poetica sono i contrasti a prevalere). Non si tratta però di una forma di “realismo”, ma di una datità corporea a cui si aggrappa per sopravvivenza un naufrago che si sente risucchiato nell’abisso (come – si parva licet componere magnis – accadeva con gli “scandalosi” piedi sporchi della Madonna nella Morte della Vergine di Caravaggio ). Ecco allora qualche ricorrenza: “gusto di beccare improvvise le tue cosce” (p. 31), “ed io sbrindello versi / penetrando il tuo ventre” (p. 77), “sullo sfondo il candore delle cosce” (p. 78), “ha il gusto dei capezzoli / il morbido viluppo del tuo ventre” (p. 98), “fammi accostare [...] / al tuo calore, al ventre, al tuo cespuglio” (p. 137), “con entrambe le mani nel tuo sesso” (p. 148). E si potrebbe continuare a lungo.
Quanto al versante di Thanatos, ci limitiamo a citare l’anafora “il cimitero è qui, è qui a due passi”, che termina con la meditatio mortis “ed il tempo approda alla vecchiaia” (p. 123). Già il titolo di uno dei libretti selezionati nell’antologia era Fugacità del tempo (2007). D’altronde mortalità e vecchiaia, specie nei testi più recenti, sono ricorrenti: “per tutto il tempo fallito, / conteso alle mie rughe nello specchio” (p. 127). Il mondo esterno, fuori della caverna psichica, si fa sempre più uniforme e senza colori, catamorfico. Si possono in questa direzione interpretare persino i titoli dei testi dell’ultima sezione dell’antologia, quelli inediti: Illusioni, Ricordi (2 volte), Riflessi, Labirinto, Tremori, Rimbalzi, Falsetto, Vertigini, Declino. Sicché è il risultato di questa protratta esplorazione che si fa negativo anche per l’autore: “ormai la tua poesia / è diventata un tappeto di muschio, / una sottile leggera sospensione / dai rigurgiti del quotidiano rincorrere” (p. 147), “questo capogiro di parole, e parole, e parole” (p. 135), “forse è il tempo del nulla: /un’infinita poesia del disinganno” (p. 159).
Per quanto riguarda il lessico, essendo l’autore medico, sono molto frequenti i termini ripresi dalla medicina, soprattutto nel libretto iniziale Candida (si veda esemplarmente il testo Melania). Poi però le “valvuloplastiche buie nelle parole” (p. 41) si attutiscono. C’è tuttavia da segnalare il ricorso a voluti arcaismi, come la mancata articolazione delle preposizioni “di” e “da” (p. 73, p. 107), che sembrano rifarsi alla poesia d’inizio del Novecento di Dino Campana. Ma se si passa alla metrica, il versoliberismo di Spagnuolo è tipicamente novecentesco e molto fluido, tranne quando spezza le lineee in emistichi, secondo quelle rientranze grafiche in cui è maestro Mario Luzi (a es. Tracce a p. 48 o da Rapinando alfabeti a p. 83).
In conclusione, è l’autore a parlare di “arsure barocche” (p. 107) per la collocazione generale di questa poesia, forse facendo eco a quanto già ebbe a scrivere su di essa Plinio Perilli. Certo è che il “senso del fugace passare e morire delle cose – come scrisse Giovanni Getto (Barocco in prosa e in poesia, Rizzoli, MI, 1969, p. 41) – , [...] del sorgere e del dileguare delle illusioni della vita, [...] qui è soltanto un motivo marginale, rilavorato e impreziosito, che s’accorda con quella diffusa atmosfera di tristezza, pervasa di un funebre sentimento del tempo e oppressa da una desolata coscienza della morte incombente, che avvolge tutta la civiltà barocca”.
Infine – come osservava Lienhard Bergel (Dopo l’Avanguardia, Vallecchi, FI, 1963, pp.29/30) – “l’avanguardia postbaudelaireiana prende dalla tradizione romantica il concetto dell’unicità e creatività dell’individuo, e lo trasforma, o se si vuole lo deforma, a suo modo. L’ideale individualistico è reso assoluto, viene concepito in modo letterale, solipsistico; l’individuo, distaccato sempre più dalla realtà, finisce con l’ondeggiare nel vuoto, in completo isolamento, [...] sceglie di astrarsi dalla realtà per dedicarsi completamente al compiacimento di sé”.
Per leggere l’intervista di Maurizio Vitiello ad Antonio Spagnuolo clicca QUI.
Fonte:
http://poesia.blog.rainews24.it/2012/01/30/antonio-spagnuolo-misure-del-timore-2/

Nota di Nazario Pardini

venerdì 3 febbraio 2012


Riccardo
Di Nazario Pardini

Era un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, esile e lungo; dall'aspetto tedesco, era sveglio e intraprendente come pochi ragazzi della sua età. Fissava le cose come se volesse spremerle, per ricavare dalla loro essenza qualche verità. Suo padre, indurito nel lavoro dei campi, sembrava serio e burbero; ma aveva un gran cuore e la sua serietà molte volte era causata dalla generosità. Era inasprito dal troppo lavoro della moglie e dal timore di non riuscire nei propositi prima di morire.

            Riccardo aveva dieci anni e frequentava la quinta elementare. Dopo avere terminato i compiti, correva col babbo nei campi, nei fossati, pei filari, ora dietro le mucche, ora davanti, ora ruzzava col cane, ora si dedicava all’orto. Questo era il suo hobby preferito. Il suo orto era ricco come un'intera fattoria. Ben coltivato e tenuto, egli faceva a gara col padre a farci crescere i raccolti. Vi potevi scorgere le fossette ben ripulite, le prode ben precise, da cui fra poco sarebbe sbucato il verde dello spinacio;  tutto intorno le viti avevano perduto, ora, i pampini e costituivano un ornamento un po' squallido. Era affezionato alle sue viti, le curava e al momento opportuno le zolfava e le potava. La sua più grande festa era giusto l’autunno, quando, per la vendemmia, raccoglieva l’uva e, con cura meticolosa, si dedicava alla sistemazione del raccolto. Quando poi spillava il vino, dopo tutto il lavorio necessario, lo raccoglieva in bottigliette, su cui aveva applicato l’etichetta di carta gialla col suo nome. Lo confrontava con quello del padre e discutevano da intenditori, ma soprattutto lo asserbava per i grandi inviti. Allora orgoglioso tirava fuori il suo tesoro e parlava del procedimento con cui era riuscito a ottenere quel nettare meraviglioso. Vendeva anche i piccoli raccolti e risparmiava il ricavo. Poi, faceva doni al padre e alla madre per il loro compleanno. Una bella pipa, una bella tabacchiera d'argento, che egli mostrava orgoglioso, erano stati i doni per il padre. Alla madre donava rose, perché le amava come poche altre cose. Se lo ricordava sempre e, quando passava davanti a una vetrina e vedeva delle belle rose, diceva: "Che bei fiori per mia madre!"
La madre gli ripeteva che la rosa è l'espressione più bella della natura e la natura riesce a dire con essa quello che nessun poeta potrà mai dire.
            Quell'anno era riuscito a far crescere due belle prode di insalata e tutti i pomeriggi si recava al mercato con due o tre cassette che vendeva sotto gamba. Aveva messo da parte un bel gruzzoletto e già aveva in mente come spenderlo. Il ventotto di aprile, in un paese vicino, si svolge una meravigliosa fiera e banchetti pieni di merce espongono novità di ogni genere. "Andrò alla fiera e comprerò gli stivali nuovi al babbo e una bella caffettiera alla mamma," si disse, "e per me, comprerò una vanghetta e un paio di forbici da pota ché devo sempre prendere quelle dei miei genitori."
            La madre ne gioiva; figlia di un commerciante del paese, in altri tempi faceva parte di una delle famiglie benestanti. Donna sensibile, umana, e intelligente, non sapeva frenare le lacrime per la più piccola gioia o per il più piccolo dolore.
            Riccardo parlava spesso con lei, che riusciva in buona parte a illuminare i perché del figlio. Mentre il padre, che appena aveva imparato a leggere e a scrivere in tarda età, il più delle volte rispondeva: "Non farmi domande sciocche." Riccardo si incantava di fronte alla natura; e si domandava il perché delle piante, del cielo, della luna, della terra, del sole, degli uccelli, dei fiori. "Padre cosa sono i colori ?" "Perché le piante sono verdi, l'uva cresce bianca e rossa e il cielo forma cento colori, quando il sole va dietro le messi ?" "Padre io voglio studiare, se non mi fai studiare mi ammazzo." Non aveva ancora fatto le sue semplici meditazioni, che balzava come un cerbiatto dietro al cane in una furiosa corsa per tutto il campo.
            Quella di Riccardo era una casa colonica, che il genitore era riuscito a comprare dal padrone dopo infiniti sacrifici di anni e anni di lavoro. Una casa in mezzo alla campagna, circondata da cachi, fichi, melograni, peri e meli. Non mancavano il bel pozzo, la grande pila, dove la madre passava ore e ore a lavare. Una di quelle case dimenticate dal Signore, nel cuore della campagna, lontana dalla civiltà. Ma il sole, gli alberi, il cielo, il canto degli uccelli e i colori della terra erano più belli che da ogni altra parte. Molte volte Riccardo si sedeva sul pianerottolo delle scale e guardava estasiato fino all'orizzonte; e i suoi occhi semplici e buoni si perdevano in quell'ampiezza serena e profumata di campo. Gli alberi più alti spezzavano con le chiome l’azzurro del cielo e un immenso mare, a momenti giada, in altri ocra, ondulava sotto la leggera carezza di un venticello divino. Quando il sole infuocava le messi e quegli alberi, come dei giganti in mezzo al cielo, risaltavano ancora di più, più che mai si sentiva colpito da quella esplosione di forza naturale.
            La mattina di quel mercoledì Riccardo era distratto e più volte il maestro l'aveva ripreso e gli aveva chiesto che cosa avesse.
Ma lui vedeva già tutti quei banchetti colorati e bene allineati ai bordi delle strade, ricchi di vestiti, di giocattoli, di dischi, di attrezzi per il suo orto, davanti ai quali si sarebbe fermato incantato. Suonò presto la campanella, in un baleno arrivò a casa, mangiò tre bocconi, avvisò il padre e la madre e si incamminò verso la fiera.
            Quel giorno l'argine del Serchio era di un verde ricco e intenso. L'erba bella asciutta del fresco aprile lo invitava a far capriole nel suo mare di verde, mentre il sole primaverile tiepido e puro schiariva l’orizzonte sopra il fiume. L'acqua scorreva veloce, portandosi dietro di tutto e facendo impressione coi suoi vortici di corrente. Ma Riccardo andava veloce sull'argine, salterellando e dando via via pedate ai fili d'erba che trovava sul sentiero. Il cuore gli batteva e i suoi occhi si perdevano nell'immensità del cielo assieme ai palloncini, che già si intravedevano in alto. Gli altoparlanti annunciavano le attrazioni del luna park: uomini nani, giuochi di prestigio, macchine volanti, pozzo della morte. Riccardo si gettò nella vita, nel movimento. Tutto gli sembrava grande, chiassoso, veloce, nuovo;  per lui, che era abituato al suo orticello, dove di tanto in tanto gli arrivava all'orecchio la voce del padre che incitava le bestie, per lui, che era abituato a vivere in quella casetta lontana dal mondo, tutto assumeva una dimensione colossale. Quelle grandi ruote che giravano, quelle grandi piste che avveravano tanti sogni di ragazzi, quelle grandi colonne di ferro che sembrava si perdessero nel colmo. Nemmeno la grande quercia gli faceva quell'impressione, quando la guardava dal basso. E giochi, giochi, giochi che per lui erano solamente un sogno. Scimmioni che si muovevano battendo i piatti, strane macchine che si fermavano e cambiavano direzione di fronte agli ostacoli, fucili meravigliosi, bambole che chiamavano mamma, recitavano poesie o piangevano.
                        Ma un banchetto richiamò la sua attenzione."Che meraviglioso orologio da taschino per mio padre!" Era un gioco, uno fra i tanti che esistono nella vita, semplici insignificanti, ma cattivi. Si trattava di coprire la superficie di un tavolino con quattro dischi. Solo in tal caso si sarebbe vinto; e il pensiero di poter vincere quell'orologio, quel meraviglioso orologio per il padre, lo avventurò nel giuoco. Una volta, due volte, le ultime cinquecento lire, poi la fine. Per quel gioco malizioso fu facile avere ragione dell'ingenuità di Riccardo. Successe tutto in un baleno e non si rendeva conto di come avesse potuto gettare via tutti i soldi. Ora vedeva quelle cose con altri occhi. Della fiera non gli importava più; tanto era solamente un sogno e non poteva essere di più. Ma gli stivali, la caffettiera e i suoi attrezzi, ai quali aveva tanto pensato. Per lui la fiera era finita. Risalì l'argine, non si voltò nemmeno con un ultimo sguardo verso quel via vai che tanto l'aveva deluso. Un nodo gli strinse la gola, si fermò e corse sull'argine. Poi, tirò fuori una foto di babbo e mamma che custodiva scrupolosamente nel portafoglio e dette sfogo al  dolore. Pianse, pianse profondamente per tutto il tragitto e pianse ancora nell’orticello accanto alle sue viti.
            Intanto Riccardo aveva terminato le elementari e stava per iniziare la lunga carriera di studente. Il padre gli aveva comprato la bicicletta nuova, colla quale tutte le mattine si sarebbe dovuto recare alla scuola in città. Una bici lucida, fiammeggiante, che ogni dieci minuti puliva e ripuliva con un panno sempre a portata di mano. La mattina che giunse a casa con tutti i libri di testo sembrava impazzito. Li sfogliava, leggeva a sprazzi due pagine in qua, due pagine in là, assetato di sapere, desideroso di ricavare da quei libri le prime risposte ai suoi perché e di appagare il suo amore per lo studio. Liberò la stanzetta del ripostiglio e vi fece quello studiolo che lo avrebbe veduto per anni e anni ora felice, ora pensieroso, ora affaticato colla testa ricurva sui libri. Lo studio lo assorbì gradatamente fino a che l’orticello si lamentò della sua mancanza. Anche per il padre le giornate si facevano più lunghe e monotone. Quando gli saltellava davanti e gli correva per i campi, era un'altra cosa, e riusciva a prendere dalla presenza del figlio una carica da non sentire mai la fatica. La madre se ne era accorta e spesso l'andava a trovare e, con una scusa qualunque, gli parlava del figlio, della sua carriera, della vita brillante che lo studio gli avrebbe aperto.
            A scuola Riccardo era bravo e intelligente; era apprezzato da tutti per la semplicità e per la prontezza. Soltanto qualche compagno di città, invidioso, l'aveva soprannominato Valentino vestito di nuovo per i vestitini ben puliti e precisi, anche se un po' passati di moda. Ma lui non se la prendeva, era felice dei bei risultati che sapeva ottenere in tutte le materie. A pieni voti finì le medie, le superiori e intraprese gli studi universitari. L'università non era nella sua cittadina e dovette abbandonare completamente la casa e i genitori. Frequentava il secondo anno, quando il padre morì in un incidente.  La madre continuò nel duro lavoro dei campi e Riccardo terminò gli studi. La carriera esigeva un lavoro lontano, ma la madre non volle abbandonare la casa, ricca di tanti ricordi. Riccardo si sposò ebbe un figlio;  suo figlio aveva appena tre anni quando gli mandarono a dire che la madre stava male. Partì, arrivò al suo capezzale con un fascio di rose. Sua madre pianse, l'abbracciò e questa volta fu lei a porgli una domanda: "Riccardo sei felice ?" "Hai trovato quello che cercavi nella vita ?" Le rispose soltanto che l'amava. Dopo due giorni morì e il figlio l'accompagnò nell'ultimo viaggio: un funerale che si perdeva in quelle strade tortuose e bianche per il freddo tostato dell'inverno. Poi Riccardo ritornò al suo orto. L'edera si era arrampicata sulle viti e l'erba ricopriva quelle prode, che una volta erano ben custodite. Gli alberi gettavano una pallida sfumatura sulla terra appena toccata dalla luce stanca della sera e gli uccelli garruli facevano il loro rientro dalle svolazzate di un'intera giornata. Osservava tutto ciò che lo circondava; quella luce, i colori della terra, quell'odore di campo, di erba fresca e rugiadosa, gli risvegliavano un dolce e melanconico sentimento. Poi avanzò lentamente verso le prode del padre. Udiva di nuovo il tonfo degli zoccoli delle bestie sulla terra smossa e udiva la voce del babbo che a maniche rimboccate, a testa nuda e a viso accigliato chiamava il figlio: "Vieni Riccardo è freddo!"
            Come era grande quella terra, come era bella, come era ricca! Ogni zolla sapeva raccontare qualcosa.
“Riccardo dove corri !"
"Padre guarda un nido."
"Lascialo stare, in gabbia prima o poi ti muoiono."
"Non correre con quel cane!"
"Babbo, guarda il sole, sembra che dia fuoco alla terra."
"Come sei sciocco."
"Prendimi il secchio si abbevera le bestie."
"Babbo perché i pampini sono verdi, e i cachi sono rossi, l'uva è bianca, nera?"
"Vai dalla mamma e dille che siamo quasi pronti."
I rumori dei passi, la voce del padre, quella della madre lo facevano andare più svelto; sembrava che andasse loro incontro. Quante verità scoprivi Riccardo! Tutti quei perché che ti ponevi si scioglievano ora davanti al tuo animo come ghiaccio al sole. Quell'ansia che ponevi nei tuoi problemi, quella corsa nella vita, quella fretta di arrivare a qualcosa di più certo, di più sicuro si spalancavano ora di fronte a quei suoni, a quel dolce sentimento che si ingrossava nel tuo animo. I tramonti, il verde, le corse pei campi, l'orto, tua madre, tuo padre tutto era vero e sincero. Quel mistero che velava la natura e le cose, era una dolce poesia che  arricchiva l'animo e lo stimolava a qualcosa di più alto. Come ti saresti voluto fermare a quei perché!
            Contò di nuovo le sue viti e indovinò; sì!, erano giusto quelle. Poi si voltò; dette uno sguardo al cortile e si asciugò gli occhi col braccio alla vecchia maniera, come vedeva fare al padre, quando si asciugava il sudore. E partì col cuore gonfio, mentre suo figlio borbottava: "Che casa brutta papà!”.



                                                          
















giovedì 2 febbraio 2012

Ernesto Ferrero e la sua visione ampia del progetto culturale

ERNESTO FERRERO E LA SUA VISIONE AMPIA DEL PROGETTO CULTURALE
di Ninnj Di Stefano Busà

Una grande figura rappresentativa di un progetto storico antropologico di grande levatura. Un saggista di razza, un critico che sa vedere al di là del piccolo orticello post moderno, minimalista e difforme, tanto limitato quanto chiuso nel suo angolo visuale corto. E' uno scrittore che affronta tematiche varie, emblemi e stratificazioni di una vita culturale di grande e magistrale vastità. Quando leggo i suoi libri, mi sento trasportare su un piano diverso di culturalismo vero, mordace, capace di suggestionare i sentimenti e captare l'attenzione del lettore dentro il suo raggio d'azione che ruota a 360°.. Sono onorata di rapportarmi a lui su un piano di lettura che allarga le mie conoscenze in ambito storico-socio-umanistico e culturale di grande spessore. Ho letto molti suoi libri e sono sempre convinta che l'intelletto pensante di Ferrero sia dotato di quel "quid" indissolubile tra il linguismo e la forma: tra l'oggetto e il soggetto di tale rappresentazione c'è sempre una verità oltre, ma per Ferrero è la matrice, l'ordine, la teoresi anche virtuale, se non subordinata alla sua scrittura, che è sempre viva, moderna, strutturata a riferimenti interessanti e a tematiche che sanno auscultare tutti i segnali della moderna tecnologia scrittoria, realizzandoli tutti sul piano umano e strutturale di un linguaggio accessibile e magistralmente atto a dare il meglio di sé, a chi lo legge. Non è poco per uno scrittore essere come Ernesto Ferrero, una penna infaticabile, un attento selettore di varianti che interessano e intrigano la maggior parte del suo pubblico, che lo legge incantato e trascinato dal suo carisma culturale.
Ninnj Di Stefano Busà

mercoledì 1 febbraio 2012

Nevicata a Metato. 01/02/2012










Nevicata                                             

 Raro un silenzio colmo mi si stilla dattorno;
o meglio uno sciamio,
che incrina il pettirosso coi suoi frulli
o gonfia l’alitare che dispiove         
sul sentiero scomparso. Tutt’al più
un crepitio sfuggente che si adagia
indolente e leggero. E tutto è vano.
Mi appare solamente
quel candore sul mondo defilato
che lascia il posto a incanti. Pare pece,
a confronto, il ramoscello ch’è riuscito
a evadere il mantello e ancor di più
arrossato si stacca dalla trina
il racemo del sorbo. Nel mio orto
un merlo sfiduciato dalla vista
insolita ed ostile, ha ricamato
di zampatelle il soffice lenzuolo.
A un po’ di mica resta e non s’invola
né si distanzia. Obliqua un po’ la testa,
poi tra i piedi
cattura assatanato le mie briciole
che sembrano di miele. E vibra e scarta,
poi molleggia e vola al fico. Mi è svanito
il lembo di terra che stringe la casa:
il muretto, la vite,  l’orticello
col verde scarno che saziò il dicembre.          
Ed io pavidamente ora disciolgo     
nel lento sciamare dal senso di stasi                     
il conto del mio essere.
Nazario Pardini