sabato 11 maggio 2024

Gianpiero Stefanoni....dialogo con la classicità

 

 

 

REGINA VIARUM

Castelli romani

 

Ti segue tra gli acquedotti                                                                                                              

e la villa dei Quintili fino ad unirsi                                                                                                                    

nello stupore del ritorno.                                                                                                                                                                  

 

In mezzo, da questo popolo                                                                                                                       

che proviene dal mare,                                                                                                                  

quel po' di lingua per la fondazione                                                                                                                 

dei boschi. Di tanta vastità                                                                                                                      

il pensiero rimosso, la perdita                                                                                                       

nel tuo accento di postero.                                                                                                                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FABULAS

 

Per te che passi, per te guardi                                                                                                                                  

un lare forse                                                                                                                       

quella terra deserta                                                                                                                       

arida e piana riposta all'ingresso                                                                                                                     

nella ciotola lieve                                                                                                                                    

di aria e di pane.

 

O la maternità                                                                                                                                 

del sole crescente                                                                                                             

in attesa del suo asino                                                                                                                

sapido e bianco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DAGLI ACQUEDOTTI

 

Cercare il frammento non ha senso.

 

 La stratificazione segue il presente                                                                                                

nella dimessa sostanza degli avverbi.  

 

Nel punto spezzato dell'arco                                                                                                          

la chiave addentellata della storia,                                                                                                       

il passaggio dell'acqua all'ulivo                                                                                                   

nell'uniforme vibrare del treno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"FIORI DI CALENDULA MARITIMA" di Antonino Stampa con prefazione di Marco Zelioli


 

GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro di poesie:

FIORI DI CALENDULA MARITIMA di ANTONINO STAMPA

con prefazione di Marco Zelioli

 

 

 

Pubblicata la raccolta poetica dal titolo “Fiori di Calendula maritima” di Antonino Stampa, con prefazione di Marco Zelioli, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Il titolo Fiori di Calendula maritima (pianticella salvata dall’estinzione che cresce solo in una piccola parte costiera della Sicilia trapanese) ci colloca subito nella terra di Antonino Stampa, alla quale lo scrittore ci trasporta attraverso i suoi occhi innamorati. Perché, come recitano i versi introduttivi, riecheggiando quanto Goethe diceva della bellezza: «La poesia / non è nelle cose, / ma negli occhi / di chi / le guarda». Ed è così che l’autore ci accompagna lungo le cinque parti che compongono l’opera. Le prime quattro (Come un battito d’ali, Noi e gli altri, Quel che lasciamo, Universo) sono tanto connesse tra loro che le poesie che le compongono sono numerate in sequenza dalla I alla XXXI; la quinta (Belice 1968-2018) è una sorta di poemetto interamente dedicato, a cinquant’anni dall’evento, al drammatico terremoto che colpì Gibellina e dintorni.

L’espressione è affidata a versi brevi, che evocano più che descrivere. Versi tanto spontanei quanto meditati: ad esempio, l’immagine di una tenda da sole basta a richiamare la siepe dell’Infinito leopardiano, e lo scrittore ne fa scaturire una asciutta meditazione sulla vita: «Scorrono ombre / sulla tenda / da sole. // Oltre, / nel limpido azzurro, / voli d’uccelli» (Oltre, poesia IX di Come un battito d’ali). Proprio con una citazione dell’Infinito di Leopardi si apre poi la lirica XXIX della sezione Universo: «Nero, / infinito silenzio / solitudine di spazi / ove smarrirsi…», quasi una personale nota esplicativa della citazione. Leopardi è citato anche nella breve ultima lirica XXXI (della stessa sezione), quasi a testimoniare una fonte d’ispirazione ricorrente.

Antonino Stampa ci offre un’osservazione disincantata della realtà, presentata in genere solo per accenni fugaci, come in una apparentemente placida contemplazione del reale: le parole del poeta, infatti, sono sempre lineari, non ‘aggrediscono’ il lettore con immagini disturbanti. Neppure quando descrivono (nell’ultima parte) le ore drammatiche del terremoto del Belice; né quando accennano ad autentici drammi dell’esistenza, come qui: «…Quanti / in ordinati governi, / ignorati, / senza lasciare traccia / nella nera terra / chiusero / una vita di stenti?» (poesia XXVIII di Quel che lasciamo). E nemmeno quando, con pungente ironia, ricorda: «…Non tingerti la canizie, / non questo / ti renderà giovane» (poesia XXV, ivi),

perché: «Di Dio / è il futuro / dell’uomo, / forse, / il presente. // Giorno dopo giorno / affronta la vita, / più non è dato» (poesia XXIII, ivi).

Si può certamente sottoscrivere quanto considerato da Enzo Concardi nel presentare l’opera poetica di Antonino Stampa nell’ampio saggio I motivi lirici predominanti della poetica di Antonino Stampa: «Le opere poetiche di Antonino Stampa percorrono l’essenziale tragitto della condizione umana attraverso una meditazione spesso in solitudine sul senso del tempo, sulla presenza magica e simbolica della natura, sul mistero dell’Incarnazione, riferito alla storia come interprete della perenne lotta tra il Bene e il Male, sul senso della sofferenza».

Al di là della scorrevolezza quasi pacificante dei versi di Antonino Stampa, però, affiorano molti tratti di sofferenza da diverse liriche. Tratti quasi nascosti, ma non trascurabili; ad esempio in Siciliano (lirica XIII di Noi e gli altri), il cui incipit allude a sofferenze secolari, storiche, di vasta portata e non solo individuali: «Sono / di questa terra, / zattera a genti in fuga / nel vasto mare / o qui venute / per sete di dominio…» (il corsivo del testo è mio). La leggerezza dei versi fluenti, liberi da metrica e rime, quasi copre anche sofferenze più intime, forse taciute per timore del disinteresse altrui, come nella lirica XVI di Noi e gli altri, che per intero recita: «“Ciao, / come stai?”. / “Bene…”. // Abbiamo l’obbligo / di stare bene. / Dovrei aprirti il mio privato, / forse quello dei miei familiari…? / E tu? / Ascolteresti attento, / qualche parola / di solidarietà. / Poi ti allontaneresti. / Per i tuoi urgenti impegni».

La sofferenza emerge più esplicita nell’ultima parte della raccolta, Belice 1968-2018, con undici Quadri di un terremoto e del prima e del dopo – come recita il primo dei due sottotitoli. Qui si palesa come condizione vissuta da un intero popolo, cui il poeta dà personalissima voce: si veda la poesia VI (Ruderi di Poggioreale) che chiude con questi versi struggenti: «…Il vento / fra i muri / urla, / piange nel mio cuore». Un’altra immagine, in particolare, può farci focalizzare su quanto dolore c’è in eventi come il terremoto che colpì il Belice; un dolore intenso, che il poeta sa rievocare con poche asciutte parole: «…il muro di una casa / aperta, / memoria / d’intimità perduta…» (poesia III, Gibellina nuova - Le tre piazze). Parole non tese solo a documentare quella sofferenza, ma «…perché ti si pieghino / i ginocchi / e ascolti nel vento / le voci di quanti / qui ebbero / forma d’uomini…» (poesia VIII, Gibellina - ‘Cretto sui ruderi’ di Burri); parole scritte soprattutto per ricordarla ai giovani - e ce n’è motivo - perché: «…Non hanno memoria / i giovani / immersi in un eterno / presente» (poesia X, Con arroganza).Insomma, con Antonino Stampa siamo introdotti quasi con dolcezza (la dolcezza del suo linguaggio che scivola via leggero) nell’aspetto forse meno amato, ma più presente in ogni vicenda umana nel mondo: la sofferenza. Che resta tale, anche se la si guarda con animo pieno di speranza perché la speranza permette di collocare tutto il male del mondo all’interno di un disegno positivo, ma non toglie dalla vita la dura esperienza del dolore. Speranza non declamata con pur giuste asserzioni teoriche, ma sommessamente suggerita al lettore con l’immagine umile e concretissima del contadino che «…Apre il solco / e vi depone il seme / e in giugno / campi fecondi / di giallo grano / falcia nel sole, / quel pane / che Dio / con l’uomo ha diviso…» (poesia V di Belice 1968-2018): è la speranza che chi semina possa anche raccogliere.  Dobbiamo essere grati a chi, come Antonino Stampa, con suoi versi pensati «con voce scabra» (come egli stesso scrive nell’ultima poesia XI, Congedo) aiuta a meditare sul dolori e sui mali piccoli e grandi della vita, con una visione sofferente, sì, ma serena, consapevole che tali dolori e mali non dicono l’ultima parola sull’esistenza umana. Uno scrittore che ci dona i suoi pensieri con una poesia rara come i Fiori di Calendula maritima.

Marco Zelioli

 

 

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L’AUTORE

 

Antonino Stampa è nato nel 1946 a Trapani dove attualmente risiede; laureatosi in Filosofia presso l’Università di Palermo, ha insegnato Lettere nelle scuole medie. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Marine. Trasparenze in frammenti (1995), Specchio nascosto (2002), Distesi silenzi del mare (2003), Nei gorghi del tempo (2012), Chiedersi (2014), E non distinguo approdi (2017).

 

 

Antonino Stampa, Fiori di Calendula maritima, prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 84, isbn 979-12-81351-29-5, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 



 

 

"IL DONO DELL’ALBA "di Francesco Salvador con prefazione di Enzo Concardi


 

GUIDO MIANO EDITORE

NOVITÀ EDITORIALE

 

È uscito il libro di poesie:

IL DONO DELL’ALBA di FRANCESCO SALVADOR

con prefazione di Enzo Concardi

 

 

 

Pubblicata la raccolta poetica dal titolo “Il dono dell’alba” di Francesco Salvador, con prefazione di Enzo Concardi, nella prestigiosa collana “Alcyone 2000”, Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

La poesia di Francesco Salvador va visitata come se contenesse un mosaico di occasioni che la vita presenta, ma che spesso tuttavia si trasformano in illusioni e poi delusioni, lasciando un fondo amaro per mancanza di prospettive a lunga scadenza. Si tratta di testi di non facile lettura ed interpretazione, sia per la presenza di numerose espressioni, immagini, allocuzioni bipolari, antitetiche, opposte (motivo linguistico), sia per un’incertezza dell’anima che si riflette sul messaggio letterario del poeta veneto (motivo contenutistico).

Il suo pregio maggiore può essere ravvisato nella capacità di creare atmosfere suggestive ed accattivanti attraverso la cifra della sintesi: bastano pochi versi, alcune pennellate metriche, altri coinvolgenti ossimori, per conferire ai suoi ritmi ed alle sue scansioni armonie, emozioni, suoni che proiettano il lettore nel mondo della poesia. Anche il titolo della raccolta - Il dono dell’alba - corrisponde a tali caratteristiche, lasciando tuttavia in sospeso l’aspettativa creata con un’immagine molto lirica; nel testo conclusivo, Volti, ecco gli ultimi due versi («…Tutti nell’attesa / di un dono all’alba») che sospendono la definizione del domani, del futuro: viviamo una speranza forse troppo vaga per essere chiamata tale. E, in tutto il libro, un crepuscolarismo strisciante avvolge la visione del mondo dell’autore.

Non per nulla uno dei temi più ricorrenti nel suo ventaglio creativo è quello esistenziale, dall’interrogarsi sull’essenza del tempo fino all’incombente senso e realtà della morte. Ciò lo possiamo evincere visitando le più significative pagine a proposito dell’essere o non essere. In apertura molto ci dice Una mano sulle pietre. Qui il poeta vorrebbe fermare il tempo, ma vano è lottare contro tutto ciò che è «già scritto nel palmo di una mano», ovvero il nostro destino. Sorte che si concretizza con un’intuizione interiore: «come chi sente la vita andare»; ed altri versi testimoniano l’illusione di restare qui più del dovuto, «perché l’ignoto fa tremare», cioè il pensiero della morte («casa fredda») e di quel che ci aspetta dopo.

Più esplicita e lapidaria è la poesia All’asta dell’addio: «Inventari / rimangono al vecchio / solitario malato / dalle forze spremute / domani chi / verrà alla soglia / della casa / per dare sorrisi? / Re Mida della morte / ad ogni passo stanco / sarà solo all’asta / dell’addio». La senilità è dunque vissuta come l’anticamera della morte, e non come una stagione della vita con le sue luci ed ombre. Si può inserire in questi contesti tematici anche Non sei più tornata, un sogno – incontro immaginario con la madre tacita («madre perché non mi parli?») nella sua dimensione ultraterrena: non si crea così un dialogo, una “corrispondenza di amorosi sensi” tra madre e figlio. La ricerca filosofica, da parte dell’autore, di approdi o comunque di direzioni sicure è di difficile ed ostica esperienza, poiché non riesce a distinguere tra ciò che appartiene alla realtà abitata dall’uomo o alla dimensione metafisica e divina: «...Così potremmo / sperare di scorgere / l’amalgama tra l’immanente / e il trascendente / nell’ultima libertà di pensiero...» (Non oltre il mare).

In un’altra delle sue metafore (un certo simbolismo abita i testi di Francesco Salvador) appare – insieme al suo – il pianto di un neonato e di un gatto e ci dice: «…È il pianto di chi / non sa gestire l’ignoto, / e quella disperazione / ci accomuna, rende noi tre / fratelli per sempre: / io, il neonato e il gatto, / una triade terrena / che non aspira / alla conquista dell’eternità» (Verso la città morta). Dunque siamo giunti alla rinuncia, non c’è alcun risultato, sbocco apparente alla ricerca dell’autore, fino al punto di svilire anche la ragione, dal momento che l’uomo è inserito in una «triade terrena» disperante, in cui non si è sviluppata un’evoluzione qualsiasi. Stesse note troviamo ne Il mare della vita, in cui una similitudine sorregge versi sia dubitativi che affermativi, ma dove regna ancora un’atmosfera di desolazione: «È dunque questo / il mare della vita? / Un eterno oblio / che cerca per compagno / lo stordimento? / E quante oasi false / prima di giungere / alla fine che fine non è!...».

E troviamo ancora parole che suggeriscono «il disagio di essere uomo» (Per le parole dei poeti), forse quel ‘male di vivere’ o quel ‘male oscuro’ che è di casa in molta parte della letteratura contemporanea di derivazione ideologica. Ed anche parole di solitudine, inevitabili in una condizione umana giocata sul minimalismo ribassista: le Nuvole grigie che vestono il cielo sono paragonate ai fantasmi della nostra mente, ma in soccorso giungono «i carillon delle giostre» che proiettano il poeta in uno stato letargico, «nel tepore rassicurante di una fiaba».

Vi sono tuttavia, tra le poesie della presente raccolta, parentesi, pause, soste - rispetto ad un certo pessimismo antropologico e filosofico - che potremmo definire di ‘realismo magico’, ovvero sulla base descrittiva di realtà tangibili s’innesta la fantasia immaginifica del poeta, in parte di derivazione naturalistica. Sono tali le seguenti composizioni, paradigmatiche ed esemplari di questo genere. Citiamo allora Insegnami, dove si segnala la scomparsa di personalità artistiche con forti identità e radici, vicine al popolo e alla gente autentica, poiché hanno preso il loro posto creature evanescenti e anonime: «Chiedimi cosa / potrei raccontare / alle sedie occupate / dei bar / sono scomparsi i poeti d’osteria / e non da oggi / come poter instaurare dialoghi / con i fantasmi / insegnami». Indi la più articolata e lirica Ciò che resta nei paesi, che può essere assunta anche come rappresentante della tipologia salvadoriana dei testi d’atmosfera, come si diceva nel secondo capoverso di questa prefazione; il poeta infatti crea immagini lampanti e segrete della vita di borgo: lo sguardo da certe finestre, le vie più nascoste, l’aria fresca della domenica, un bar invecchiato negli anni, finestre di cucine illuminate… dove l’elemento onirico è dato da un improbabile ‘genio del luogo’ o ‘sognando un folletto’ nelle sere sprigionanti talora calore umano, talaltra situazioni di solitudine.

Ed ancora Conchiglie, che ricostruisce il gioco dei mondi ascoltati ponendo l’orecchio su di esse, gioco tramontato appartenuto alle avventure sognate nella nostra adolescenza: «Portano dentro / il suono della nave pirata / le urla dei corsari / tutti i fantasmi / conservati dal mare. // In quel fruscio magico / vi è il mondo sparito / del capitano Nemo». E concludiamo le citazioni del ‘realismo magico’ con Canto di sabbia, il cui titolo è già un ossimoro, che prelude all’altro gruppo di poesie di Salvador, ossia quello della bipolarità. Canto di sabbia mi pare essere una delle più riuscite liriche del libro ed associa immagini forti a strutture linguistiche soavi, con un messaggio finale sull’aggressione perpetrata nei confronti del pianeta Terra: «Un canto di sabbia / viene da lontani deserti / lo spartito fatto di polvere / lancia le note fino a qui. / L’ululato feroce del vento / è la melodia che sentiamo / a volte dolce a volte selvatica / come artigli d’aquila sulla preda. / Sa consolare la ninna nanna / del suo fischio insistente. / Altrove sciacalli banchettano / confusi nell’ocra gialla / di una terra friabile e ferita».

Ed eccoci finalmente ad alcuni annunciati passi contenenti antitesi, che quindi affermano e negano allo stesso tempo. Di nebbia questo cuore si avvale di figure retoriche: c’è l’anafora «di nebbia questo…» come incipit delle due strofe; ci sono ossimori come «il cuore vestito di nebbia» e «canto muto»; c’è la sinestesia del «giorno dal respiro affannoso»; e l’antitesi consiste nella dichiarazione del poeta che, nonostante il «grigio inerme» e il canto inudibile, ringrazia «chi quella musica / ha scritto». Il significato del testo potrebbe nascondersi proprio qui, nel tentativo di apprezzare tutto ciò che rompe l’apparente non senso dell’esistenza. L’alba verrà (in sintonia con il titolo della raccolta) apporta tre antitesi: verrà l’alba a guidare i tuoi passi, ma sarà tardi per cantare; la confusione attuata dal soggetto fra il sangue (primo polo) e l’oro (secondo polo); bacerai le perle, ma sarai preda del marmo. L’autore vuole rappresentare indubbiamente le contraddizioni della vita e dell’animo umano, la sua natura scissa sempre tra due opposte tendenze, come nelle conclamate realtà: bene-male, luce-tenebre, vita-morte, piacere-dolore…

Chiarissima nella sua sintesi dualistica è Legami, che rimanda anche ad una tipica problematica pirandelliana: il desiderio di libertà ed il bisogno di avere nel contempo una vita d’affetti e sociale, la quale comporta appunto dei legami e delle responsabilità. Scrive il poeta: «In alcuni giorni / non vorrei avere legami. // Camminare per orti e stelle / sarebbe il mio sogno. // Anche un torrente lurido / mi darebbe allegria…». (Questa prima parte è il sogno della libertà senza condizioni e impedimenti, anarchica). Tuttavia scrive nella seconda parte: «…Ma poi penso / che senza certe catene / non avrei potuto vivere / e mi sarebbe ora impossibile / contare i passi del mio domani» (Accettazione delle sicurezze economiche, professionali, familiari, affettive: ciò che Pirandello chiama la ragnatela delle convenzioni sociali cristallizzate).

Pochissimi sono i riferimenti alla poesia amorosa ne Il dono dell’alba, mentre non poteva essere l’amore il più bel dono dell’alba? Forse non basta Un tuo capello perché il lettore possa pensare a ciò: «Un tuo capello / mi è rimasto / sulla spalla / di una camicia / da te stirata / in tempi lontani. / Era un tuo bacio / inconsapevole (così ho pensato) / ma prezioso ora per me / come le tue labbra / ora che sei lontana». In definitiva il poeta però recupera il valore della vita (Un treno in corsa) e valorizza positivamente quelle occasioni che anche per Montale costituivano lo stimolo per andare avanti, nonostante l’enigma esistenziale: «...Il treno non si chiede / a cosa vale aver vissuto / e neppure chi di noi / morirà in pace / ignorando il valore / degli attimi trascorsi».

Enzo Concardi

 

 

 

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L’AUTORE

 

Francesco Salvador è nato nel 1957 a Vittorio Veneto (tv); ha vissuto per molti anni a Venezia prima di trasferirsi a Padova dove attualmente abita e lavora come insegnante di scuola primaria. È autore di molte raccolte poetiche con le quali ha ottenuto diversi premi, riconoscimenti e lusinghieri riscontri di critica; ha pubblicato anche brevi racconti in riviste letterarie.

 

 

Francesco Salvador, Il dono dell’alba, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 88, isbn 979-12-81351-32-5, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Cinzia Baldazzi: “L’Azalea” in dirittura di arrivo

Quando con Andrea Lepone eravamo al lavoro a preparare la prima edizione de “L’Azalea”, l’idea era di dedicarla a Saffo, in omaggio all’isola di Lesbo nonché alla rupe di Leucade la quale, secondo la leggenda, vide gli ultimi attimi della sua vita. Non abbiamo però notizie che la poetessa, con il rinomato “tiaso”, abbia mai promosso o partecipato agli agoni poetici dell’epoca, in verità molto frequenti e inseriti di norma all’interno di feste grandiose, soprattutto di natura atletica come le Panatenaiche di Atene. L’illustre contemporaneo Alcmane (forse poco maggiore di età, proveniente dalla Lidia nell’Asia Minore) era celebre per i suoi “parteni” (παρθένος, parthènos), destinati a essere eseguiti da un coro di fanciulle durante rituali iniziatici assai simili alle cerimonie conclusive dell’educazione saffica. Inoltre, sembra fosse assiduo frequentatore delle competizioni di ποιητική τέχνη (poietiké tècne) di Sparta dove spesso risultava vincitore: era infatti abilissimo nella struttura metrica, in quanto diede il nome al tetrametro dattilico e condivise la scelta stilistica più breve della lirica lesbica, costituita da strofe giustapposte. In breve, il concorso organizzato da me e da Andrea prese il nome di un fiore, l’azalea, del resto conosciuto sin dall’antichità e, in occasione di questo invito in dirittura di arrivo, poiché Alcmane oltre a essere regolare concorrente di gare poetiche è stato anche il primo poeta nella storia della letteratura greca a citare il nome di un vino, ecco quindi, nel video, la presenza di un calice: in suo omaggio, evochiamo con tutti voi un simposio, pur se non brinderemo con l’antichissimo Dénthis di Alcmane, un vitigno all’epoca proveniente dal monte Taigeto nel Peloponneso. Il cerchio comunque si chiude, perché il Denthis aveva appellativo di Ανθοσμίας (anthòsmias), ovvero “dalla profumazione floreale”.

Buona Azalea alle amiche e agli amici del blog “Alla volta di Leucade”.

 

https://www.facebook.com/cinzia.baldazzi.5/posts/pfbid0DshNnPNPw5yYn8dH4tcEp3HvWiHrbhJxwNSFUfx9nWGXkf5U2ZQPHqjjyY91Fdcbl

giovedì 9 maggio 2024

Dialettica numero di aprile






 


Angela Ambrosini :"Divagazioni Sulla Metapoesia"


 

Quel peculiare risvolto della poesia che attua una riflessione in fieri sulla poesia stessa, la metapoesia, affiora sia pur di nicchia (ma più spesso di quanto si possa immaginare) in un percorso trasversale a ogni cultura e procede da molto lontano, laddove la proprietà di “riflessione” si dilata nella duplice accezione del termine, sia inteso come consapevolezza cognitiva che come sdoppiamento, riproduzione verbale autoreferenziale di un aspetto del poiein. A volte il poeta si pone domande sulla propria identità di “poeta”, come nel conosciutissimo scanzonato verso di Aldo Palazzeschi che nella poesia Chi sono? (in Poemi, 1909) risponde a sé stesso “Il saltimbanco dell’anima mia”, prendendosi indirettamente gioco della Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini che affermava, negando apofaticamente, “Io non sono un poeta”. In entrambi i casi, il poeta “specula”, riflette cioè su sé stesso e sul proprio ruolo. Come la lingua attraverso la grammatica indaga su sé stessa, dando origine al “metalinguaggio”, così ai poeti di ogni epoca e latitudine piace ogni tanto guardarsi allo specchio per riflettere sullo stesso genere letterario di cui sono agenti attivi. E la nota di rilievo è che tale auto-osservazione non si esplicita in prosa critica (come parrebbe più logico), ma in poesia stessa. Nel caso del succitato Palazzeschi l’intento è di dichiarata giocosità, quasi un’eco del giullare medioevale, sia pur specificando di voler “mettere una lente davanti al cuore per farlo vedere alla gente”. Torniamo all’immagine dello specchio, lo speculum, strumento per esplorare, anche in ambito medico, cavità altrimenti inaccessibili. A proposito del simbolo dello specchio, un paragone forse ardito, ma plausibile, si potrebbe instaurare mutatis mutandis con il famoso quadro Las meninas di Velázquez la cui figura campeggia mentre dipinge nel suo laboratorio personale alla Corte di Re Filippo IV, riflesso invece in uno specchio in secondo piano insieme alla Regina Marianna d’Austria. La critica ipotizza che a sua volta lo stesso pittore di corte sia riflesso in uno specchio immaginario situato al posto dell’osservatore per realizzare un autoritratto in modo da esaltare non solo la personalità di colui che ritrae la coppia reale, cioè il pittore stesso, ma persino quel processo pittorico del caos compositivo in cui è immersa la scena, una delle inquadrature più innovative e anomale della storia della pittura, soprattutto se pensiamo all’anno di composizione, 1656. Ma è proprio questo caos che innesca uno stupefacente gioco prospettico tra il pittore, l’osservatore e i personaggi del dipinto.  Il concetto di caos, cardine del barocco, concorre a riformulare in altri termini il processo artistico interiore che conduce al Cosmos, all’ordine del risultato finale nel quale anche ogni poeta di ogni epoca spesso si dà uno scopo quando non una specie di programma. Ricordiamo il celebre verso Hominem pagina nostra sapit, (“la nostra pagina sa di uomo”) con cui Marziale (40 d.C.) rivendica l’impegno etico e sociale dei suoi Epigrammi poetici dopo i vagheggiamenti e vaneggiamenti mitologici della fase dei “mostri”. Nella storia della nostra letteratura, il primo conosciutissimo esempio di rudimentale metapoesia in lingua volgare è l’Indovinello veronese (XI sec.) che, in una catena di metafore a visualizzare dita, penna, pagina bianca e inchiostro, (il “seme nero”), allude comunque solo all’aspetto materico della scrittura, tipica dell’amanuense. (Se pareba boves, /alba pratalia arabat/et albo versorio teneba/et negro semen seminaba”, cioè “anteponeva a sé i buoi, /bianchi prati arava, /un bianco aratro teneva/ e un nero seme seminava).  Ma, a parte questo caso storicamente noto per una datazione più o meno attendibile della comparsa del volgare in Italia, ovviamente l’attenzione di chi scrive si focalizza più spesso sulla funzione della poesia e del poeta. Esistono varie modalità di approccio metapoetico di cui sarebbe davvero interessante fare una rassegna ampia, ma ora limitiamoci ad alcune tra le più originali, anche se non tutte esattamente “poetiche”, come il tono precettistico di Tristan Tzara in Per fare una poesia dadaista: “Prendete un giornale. /Prendete un paio di forbici./Scegliete nel giornale un articolo…./Ritagliate l’articolo/…/Agitate dolcemente ecc. ecc.”. Altre volte il tono si fa declamatorio, come nella celebre Art poétique nella quale Verlaine, inaugurando la stagione simbolista all’insegna della musicalità, si scaglia contro la retorica: “Prendi l’eloquenza e torcigli il collo!”. In altri autori emerge la modalità esplicativa. Pensiamo a Vladimir Majakovskij, il poeta della Rivoluzione russa, che in Il poeta è un operaio paragona anche nel lessico il lavoro del poeta a quello dell’operaio negli altiforni: “Noi limiamo i cervelli / con la nostra lingua affilata”. Quasimodo si definiva in tono più intimista “Uno come tanti, operaio di sogni” (in Epitaffio per Bice Donetti). L’opera di Quasimodo offre una messe di sottili richiami metapoetici, spesso ad alto indice di metaforicità, per cui a una prima lettura il significato metapoetico rimane non immediatamente percepibile. Citiamo il bellissimo verso “Tu ridi che per sillabe mi scarno”, nel quale il poeta (nella lirica non a caso intitolata Parola, tratta da Oboe sommerso) afferma proprio quel processo di scarnificazione che dal caos si placa nel cosmos della creazione poetica. La stessa immagine dell’oboe rimanda metaforicamente alla poesia il cui suono “sommerso” va esplicitato e tratto alla luce dall’inconscio. Celeberrima è la lirica Alle fronde dei salici (dalla raccolta Col piede straniero sopra il cuore) di ispirazione etico-civile, elemento tematico ravvisabile anche nel passaggio formale dall’io della fase ermetica al “noi” che evoca l’Italia dell’occupazione nazista. Tuttavia, solo dopo una lettura attenta della breve lirica, se ne percepisce la valenza interamente metapoetica, evidenziata dal celeberrimo incipit “E come potevamo noi cantare…?” , con cui il poeta si discolpa per il lungo silenzio poetico negli anni drammatici del secondo conflitto mondiale, utilizzando questa volta lo strumento musicale della cetra, simbolo della poesia classica, come elemento-lessema di aperta intertestualità con il famoso lamento biblico 137 degli ebrei in esilio a Babilonia dopo la caduta di Gerusalemme: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. In un altro testo autoreferenziale, metapoetico, meno conosciuto, Quasimodo torna al concetto di “scarnificazione”, cioè sostanzialmente di labor limae in senso sottrattivo, consustanziale all’equilibrio nel genere poetico: Ma se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, /avidamente allargo la mia mano: /dammi dolore cibo cotidiano” (da Avidamente allargo la mia mano, in Ed è subito sera). Affiora con prepotenza la relazione necessaria e diremmo quasi religiosa, tra la poesia, quella autentica, e il dolore. “Dammi dolore cibo cotidiano” suona quasi come una parafrasi del Padre Nostro e in questa “necessità” del dolore quale seme della creazione poetica, sembra fargli eco la poetessa Alda Merini nei suoi versi “Le più belle poesie/si scrivono sopra le pietre/coi ginocchi piagati/ e le menti aguzzate dal mistero”.  Il senso esperenziale del mistero si ravvisa nella parola “abisso” evocata da Ungaretti con il suo quid di inesplicabile, irraggiungibile aderenza alla realtà. Ogni poeta che non si limiti a una modalità puramente ornamentale, araldica e sensoriale della poesia sperimenta un senso di inadeguatezza della parola. Sono certa che molti di noi che scrivono avranno in un certo senso “patito” questa sensazione. Arriva un momento in cui chi scrive si guarda in questo specchio interiore di cui dicevamo e inizia a interrogarsi sul senso della propria scrittura. C’è sempre qualcosa che non salda compiutamente il significante al significato; chi nutre una concezione consapevole e non epidermica della poesia sa che sovente qualcosa sfugge alla parola. Di qui la famosa invocazione del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez che si rivolge implorante alla “intelligenza” (che altro non è che il Logos, opposto al semplice abbinamento significante-significato) “Intelligenza, dammi / il nome esatto delle cose! / Che la mia parola sia / la cosa stessa”. Simile senso di impotenza, ma amplificato e sperimentato difronte alla visione divina, era stato motivo di cruccio in Dante che nel canto 33 del Paradiso esclama “Ormai sarà più corta mia favella” (vv 106-108) rammaricandosi (121-122) “Oh quanto corto è il dire e come fioco/ al mio concetto”, consapevole del misero tentativo di dire in modo comprensibile ciò che è ineffabile. È un esempio del cosiddetto sublime rovesciato mediante il quale ciò che è smisurato si manifesta nel parlare semplice. In un altro celebre caso, quello di Montale in Ossi di seppia, affiora la modalità metapoetica in negativo “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato/…/ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/…/ Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Altrove Montale scrive che “la poesia non è fatta per nessuno, /non per altri e nemmeno per chi la scrive. /Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/non è mai nata. Sta, come una pietra, / o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto” (da Asor in Diario del ’71 e del ‘72)

Nella poesia contemporanea si avverte spesso infatti un senso di spersonalizzazione, già da Thomas Eliot enunciato come motore della vera poesia. La poesia non è un modo di liberare l'emozione, ma una fuga dall’emozione; non un’espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità. Ma, naturalmente, solo coloro che hanno personalità ed emozioni sanno cosa significa voler fuggire da queste cose” (dal saggio Tradizione e talento individuale). Scrivere poesia, vera poesia, per il grande poeta statunitense non equivale a esaltare l’io, ma a fuggire da esso, non ad esprimere la propria interiorità, ma ad anelare all’universalità evitando quindi le emozioni, non rincorrendole (Eliot ricorre ai termini dry hardness, asciutta durezza). Borges addirittura, da parte sua, nel suo amore per il paradosso, arriva a dire che la vera poesia è impersonale. Avvicinandoci al nostro tempo, il Premio Nobel della letteratura 2012, lo svedese Tomas Tranströmer annota: “Stupendo sentire come la mia poesia cresce/mentre io mi ritiro. / Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte. /Mi toglie di mezzo./ La poesia è pronta.” Si celebra così l’autosufficienza della poesia rispetto alla stessa volontà del poeta, incapace a contenerne tutta la portata.

Il grande poeta francese Yves Bonnefoy, profondo conoscitore e traduttore di Shakespeare, ben conosceva l’inadeguatezza della parola a colmare lo scarto semantico non solo tra una lingua e l’altra, ma anche in ambito intralinguistico, il divario tra ciò che si desidera esprimere e ciò che invece rimane imbrigliato dalla e nella parola. Nei bellissimi versi di Le nostre mani nell’acqua ripropone il motivo di questa insoddisfazione atavica che il linguaggio consegna all’uomo nella sua ansia conoscitiva: “Noi immergevamo le mani nel linguaggio, / vi afferrarono parole delle quali non sapemmo/che fare, non essendo che i nostri desideri. / Noi invecchiammo. Quest’acqua, nostra trasparenza. /Altri sapranno cercare più nel profondo / un nuovo cielo, una nuova terra”.

A voler ribadire questo senso di impotenza nel tematizzare perfettamente il reale, concludiamo il nostro breve percorso sdrammatizzandolo, così come lo avevamo iniziato, con altri versi scanzonati, questa volta di Giorgio Caproni: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in prosa/nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa” (Elogio della rosa)

Angela Ambrosini

 

 

sabato 4 maggio 2024

XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS di poesia 2024

 

 

XXVII PREMIO NAZIONALE MIMESIS di poesia 2024

 

Il Premio Nazionale Mimesis di poesia (di seguito detto Premio) è indetto e organizzato a cadenza annuale dall’Associazione Culturale Teatrale Mimesis in collaborazione con il Comune di Itri (LT), con il supporto di Wikiamo web agency, A. Caramanica Editore, il blog Alla volta di Leucade e il Circolo IPLAC.

 

REGOLAMENTO

SEZIONE A) Poesia inedita: Si partecipa con un  massimo di tre poesie a tema libero, in lingua italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione della provenienza e traduzione). Per poesia inedita s’intende mai divulgata tramite qualsiasi mezzo né associabile all’autore fino all’esito della classifica. Se nel frattempo fosse pubblicata o associabile, la segreteria potrebbe spostarla nella sezione B in seguito a comunicazione dell’autore.

SEZIONE B) Poesia edita: Si partecipa con un massimo di tre poesie a tema libero, in lingua italiana o in uno dei dialetti d’Italia (con indicazione della provenienza e traduzione).

Non si può partecipare con opere già premiate in questo concorso. L’inosservanza delle regole comporterà, senza preavviso, l’esclusione dei testi  anche a premi attribuiti.

GIURIA DEL PREMIO

Presidente Nazario Pardini (ex ordinario di Lingua e Letteratura Italiana, poeta, critico letterario, blogger), vice pres. Patrizia Stefanelli (presidente dell’Associazione C. T. Mimesis, poetessa, regista teatrale e organizzatrice di eventi), Salvatore Mazziotti (docente di storia e filosofia, assessore alla cultura del Comune di Itri), Alessandra Corbetta (scrittrice, poetessa e blogger), Vittorio Di Ruocco (vincitore 2023), Gianfranco Domizi (vincitore Premio Nicola Maggiarra 2023), Alfredo Panetta (vincitore 2023), Segretario: Giovanni Martone.

La giuria, pro bono e con giudizio insindacabile, valuterà le liriche in forma anonima e stilerà una graduatoria di 12 vincitori per sezione.

Le opere premiate saranno pubblicate in un volume a spese del Premio. I poeti, conservando tutti i diritti, ne autorizzano la stampa senza nulla a pretendere.

PREMI SEZIONE A Poesia inedita

classificato: € 500, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 200, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 100, targa con motivazione incisa, 5 copie dell’antologia.

VINCITORI dal 4° CLASSIFICATO: Targa con incisione della poesia, 5 copie dell’antologia.

PREMI SEZIONE B Poesia edita

classificato: Contratto editoriale per la pubblicazione di una silloge di 64 pagine in 100 copie, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia.

classificato: € 200, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia;

classificato: € 100, targa con motivazione, 5 copie dell’antologia.

VINCITORI dal 4° CLASSIFICATO: Targa  con incisione della poesia, 5 copie dell’antologia.

PREMIO  “NICOLA MAGGIARRA” Trofeo e una copia dell’antologia al primo classificato tra i poeti della provincia di Latina non presente tra i 24 vincitori.

TARGA SPECIALE “ GIURIA STAMPA”

Conferita a una poesia, tra le 24 vincitrici,  dai giornalisti: Franco Cairo, Orazio La Rocca, Gaetano Orticelli, Orazio Ruggieri.

La segreteria spedirà (senza costi per i poeti)  il trofeo/targa e una copia dell’antologia. Per i premi in denaro e il contratto editoriale è richiesta la presenza degli autori.

La serata di premiazione, preceduta dalla conferenza stampa per Lazio TV in cui i poeti saranno intervistati, si terrà a Itri nella terza settimana del mese di agosto 2024. Al termine della conferenza sarà offerto un buffet.

MODALITÀ D’ISCRIZIONE

L’iscrizione al concorso prevede un contributo, di €15 per una sezione e €25 per due, da versare tramite:

-ricarica PostePay n. 5333171222725364 intestata a Patrizia Stefanelli Cod. Fiscale STFPRZ60D50D708D. Causale: Contributo per spese di segreteria.

-PayPal a: info@associazionemimesis.com

-bonifico bancario verso Associazione Culturale Teatrale Mimesis IBAN IT 04N 01030 74000 000000658870 MPS filiale di Itri (LT). Causale: Contributo per spese di segreteria.

INVIO OPERE: entro l’8 giugno 2024

Tramite e-mail a info@associazionemimesis.com

Scrivere nell’oggetto: Premio Nazionale Mimesis, nome e cognome del poeta partecipante, sezione.

Allegare: 1) Poesie in unico file formato word, carattere Times New Roman 12, senza alcun segno particolare; 2) dati anagrafici, domicilio, n° di telefono, indirizzo e-mail; 3) copia del versamento.

Tramite servizio postale: a Giovanni Martone, Contrada Campanaro Alto, 9 - 04020 Itri (LT). Spedire una copia di ogni poesia scrivendo sul retro i dati personali e la sezione in cui si concorre. Accludere al plico copia della quota contributiva versata. Farà fede il timbro postale.

Tutti gli autori riceveranno notifica della corretta ricezione delle opere e dell’iscrizione al Premio.

Risultati in www.associazionemimesis.com

htthps://www.facebook.com/premiomimesis/ e nel blog Alla volta di Leucade. La segreteria del Premio contatterà i vincitori, tramite e-mail e telefono, almeno 15 giorni prima della data di premiazione. L’autore, con la partecipazione al concorso, accetta le norme del bando, dichiara la proprietà delle opere, acconsente al trattamento dei dati personali ai sensi del d. Lgs. Nr.196/2003. Telefoni utili: 3475243092/ 3403243843