giovedì 22 dicembre 2011

Prefazione alla silloge DOMANI TU VERRAI (Canti a S. Valentino) di Carla Baroni




DOMANI TU VERRAI
Canti a S. Valentino
S’increspa il lago verde dei tuoi occhi
s’incupisce
e mi risucchia l’anima leggera
che vola a te con ali di farfalla
Carla Baroni si è misurata con questa nuova fatica che già dal titolo evidenzia la sua varietà ispirativa: una silloge di 47 pièces, legate da un filo conduttore tematico, l’amore, visto e trattato con quello sguardo sarcastico, ironico, e dissacrante, ma estremamente appassionato, tipico della sua vena poetica. Si tratta, in definitiva, di un canzoniere erotico-sentimentale, dedicato alla festa di S. Valentino, stagione degli innamorati. E non è forse l’amore la causa scatenante di tutti i nostri sentimenti? E la passione, la tristezza, l’edonismo, la gioia, la follia, la gelosia, l’odio, la noia, l’umorismo e il male di esistere non sono forse categorie dell’anima legate alla sopraffazione dell’amore sulla ragione, o all’assenza dell’amore stesso, o alla sua piena esplosione? “Anche Cupido forse gioca a carte / quando gioca coi fanti e le regine / e non guarda se sono quadri o fiori / preso com’è da strapazzare i cuori” scrive la poetessa. O ancora: “Amore mio tu solo hai l’antidoto / sottile, inebriante ed efficace / per questo male oscuro che mi annienta”. Affermava La Rochefoucauld che, considerando i risultati, l’amore si avvicina più all’odio che all’amicizia. Mentre un poeta contemporaneo afferma che l’amore è un’infezione dell’anima che si trasmette al corpo tramite la vista. Il fatto sta che in tutta la produzione della Nostra questo sentimento occupa sempre un ruolo determinante, direttamente o indirettamente; ed anche nelle opere più drammatiche, come nell’ultima Rose di luce, edita da Bastogi, è preponderante in tutta la sua molteplicità: amore per la madre, per la vita, per l’arte, per la poesia tanto che tutte le altre manifestazioni sono consequenziali. Ma qui la scrittrice ha voluto dare sfogo a quella vena di ironia che, presente nel sottofondo di tutta la sua produzione, costituirebbe, anche, un elemento non indifferente nell’eventuale trattazione della sua poetica complessiva. Troppo lungo, ma estremamente interessante, sarebbe avvalorare questa tesi col ricorso a tutta la sua produzione. Ma il sarcasmo con cui l’autrice scrive, ponendosi al di sopra della vita con distacco quasi ariostesco, non è, forse, indice d’attaccamento alla vita stessa, e coscienza del suo valore? E proprio per questo, anche dai momenti negativi della sua storia, la poetessa sa trarre forza emotiva, energia oggettiva e positiva che si traduce in poesia vissuta con grande equilibrio. Pur giocando con i sentimenti, pur affondando la penna per sdrammatizzare la portata del fatto di esistere, e ridurre l’esistenza a un birillo da piegare al bowling, emerge sempre, in lei, quel senso di precarietà a cui reagisce ironizzando sull’amore, materia prima della vita: “Nulla rimane eterno, / nulla è definitivo / ed è davvero questo che m’angustia / quando io penso, quando penso a te”. D’altronde sono proprio, per tradizione, quelli che ironizzano sull’amore i più innamorati dell’amore stesso.
E per giocare ironicamente coi significati ed il verso, l’autrice scandaglia i contenuti, li frantuma, ne fa scempio, per poi ricomporre i tanti tasselli in un insieme organico e compatto, umanamente vero: “Mi son fatta per te strega di giugno / per raccogliere l’aglio e la lavanda / nella notte più corta dell’estate / […] / ma tu, sveglio, ti fermi ad ammirare / lassù in alto i fuochi d’artificio / e non vedi me lucciola di campo / che rigira ormai spenta attorno a te”.
Qui si tratta di poesiole, piccoli componimenti, con cui l’autrice ritaglia momenti e fasi di questo sentimento, facendo uso, spesso, dell’iperbole. Poetare nuovo, diverso da quello che la scrittrice ci ha abituati a leggere. Diverso da quello ampio, fatto di espansioni, dove l’aspetto narrativo primeggia. Ma a emergere è sempre una descrizione finalizzata all’analisi psicologica, altro elemento portante del suo dire. Ed anche l’utilizzo dell’ambiente esterno, del fattore idilliaco, converge ad approfondire la tematica confidenziale: “Azzurrami con cerchi di vertigine / presi dal cielo oppur rubati al mare, / rendimi fluida d’aria e di salsedine / per circondarti tutto e penetrare / in te in ogni poro e in ogni cellula / per vivere di te fino a morire”. E lo si vede, a proposito, dalla spontaneità con cui tratta questo argomento, (l’amore), analizzato in tutte le sue sfaccettature, rendendo funzionale il verso a soccorso delle diverse ombreggiature, e facendo della parola il fulcro per un significante metrico-figurativo importante. Una piena confessione in prima persona di una passione che trascina il cuore in un’altalena di dubbi, supposizioni, gelosie, aspettative, sofferenze, suppliche, speranze, illusioni e delusioni (tatuare il nome dell’amato tra florilegi, incendiare colline intorno per ardere e divenire l’Ecate al suo volere, farsi fluida per penetrare in ogni sua parte, odiare le Feste per la sua lontananza, farsi nuova al pensiero del suo ritorno, o confessare una morbosa gelosia per la lontananza dell’amato stesso). Ed è frequente il coinvolgimento di una natura disposta e disponibile ad affiancare il suo canto per meglio concretizzarne l’afflato: “Dai cedri che si incuneano nel verde / a mitigare la cupezza antica / scende strobilo a strobilo una dorata / pioggia a coprire le umide radici. / Tu sei per me il cedro quasi azzurro / che mescola i suoi aghi al mio fogliame / di selvatica pianta rifuggita / all’inclemente taglio della scure. / Ed io gioco con te al vellicato / muoversi dei tuoi rami alla corteccia, / la mia corteccia pronta già a morire”. Ma grido d’amore, alfine, canto catulliano per una Lesbia universale o per un universale Romeo; un grido che sa andare oltre l’ironia per festeggiare questa apoteosi, oltre l’attesa di un S. Valentino, facendolo santo di ogni giorno. Mi diceva Maxime Dégas, poeta contemporaneo francese che ho avuto occasione di conoscere alla fiera del libro a Francoforte nel 1993, : “Ecrire sur la poesie sans aimer c’est comme attendre une récolte sans semer”. E la Baroni ama. Sì!, ama la vita, la poesia, ama l’amore, perché sa, e ne è convinta, che è l’alimento primo dell’arte. Ed è proprio giocando con l’amore, elevandosi al di sopra della vita, che ne conquista una valente pluralità.
 
Dimmelo caro, come vuoi sarò.
Sarò strumento sotto le tue dita
che canta al mondo la felicità.
 
Nazario Pardini
Arena Metato 16/12/2011












sabato 17 dicembre 2011

Da L'azzardo dei confini, Booksprnt, Buccino 2011

Da L'azzardo dei confini
Booksprint Edizioni,
Buccino 2011

L'azzardo dei confini, Booksprint, Buccino 2011



Akragas







Man mano che Agrigento si avvicina

s’infoltiscono i mandorli. Si coprono

di nuvole di perla sopra i prati

o sul grigiore brullo di colline

dall’umore ipogeo. È proprio il tempo

che la città si rianima e fa festa

per la sagra del Mandorlo

in fiore. E per la strada è un’emozione

quando il sole cala rubicondo

a tingere di porpora il candore

delle trepide gemme. Dalla costa

si stagliano allungate sul crinale

le case di pastello. E il tempio d’Eracle

s’infoca in primo piano

- entro in città dalla valle dei templi -.

Dal cavo il tauro bronzeo bramisce

disperati muggiti, e dalla valle

i lamenti di donne e di bambini,

che ai ferri di Carthago disperati

pensano in fiamme i lari. Io mi ritrovo

spaesato e commosso. Sono in preda

di miti e fantasie. Di una storia

che superba mi avvince. Eppure l’Etna

vomita gli urli del divino Empedocle

assieme al suo calzare incandescente.

E le celle, schiarite dall’Oriente,

evadono dattorno                  

metafisici suoni. Il crepitare

mi sembra che diffonda misterioso

il senso della vita e del divino,

se soprattutto il tufo si fa d’oro

quando si mischia il rosso della sera

al fiottare del sangue ed ai singulti

di cento buoi sgozzati. Ancora l’ara,

che è turgida e crepata, esala l’acro

umore dei bovini. Ma è dintorno

alle soglie di Zeus che si levano

le voci bisbiglianti o i gridi acuti

per ingraziarsi il dio. Ed io mi fondo

assieme a quelle genti che scampate

si videro dall’armi del nemico.

Le colonne arrossate

rimbalzano nel cielo la mia voce.



25/04/1999


L’azzardo dei confini







Parliamone. Non ti pensare

che le cose più belle vengano fuori

da quei giardini in fiore.

I profumi più intensi

di solito respiri

sulle pianure incolte;

rimaste abbandonate.

È là che si sprigiona

la coscienza di esistere,

l’azzardo dei confini.

Ricordati le strade

che sortiscono i silenzi dei fossati

fattisi piste

per i ragazzi allegri del paese.

I viottoli che vanno lungo gli argini

a immettersi tra il folto dei canneti

ad ascoltare i cori di cicale.

O meglio ancora l’azzurro che divora

il chiasso dei mortali.

Là sentirai più schietto

del chioccolio lo scorrere dell’acqua

tra il verde profumato d’abbandono.

Là delle contrastate ambizioni

tutt’a un tratto svanisce lo sfronto,

e spetta anche a noi una fetta di mistero

tra il silenzio degli ulivi.

Credimi, in questi momenti,

dove le immagini si lasciano afferrare

come disposte a svelare

il loro sottile legame,

quasi quasi ci sembra di carpire

la debolezza del cielo,

l’errore umano commesso dal divino.

E l’occhio trasmette

i minuti schizzi all’anima che li assorbe

al variare dei tocchi appena è sera.

È qui che il silenzio ci dice

quanto l’ombre degli uomini

si allunghino all’umano degli dei.



Ma quanto brevi i ritorni

ad indagare il senso. È il bagliore

che torna accecante a sommergere

il filo di luce

che demarca i confini.

E squilla forte il sole

per nascondere

i brevi acuti che ci fanno inquieti.



07/08/2000


Sull’isola di Crono







Passai tutto quel tempo coi pescatori

dell’isola di Crono. Non era umano,

non lo era quel verde che mordeva

con tutta la sua forza. Non c’erano tracce

della nostra civiltà poco civile.

M’infilavo in quei tratturi dai rami

macerati dal tempo. Si arcuavano  

e tappavano i profili tra gli intrichi

sconnessi e misteriosi.

È là che ti conobbi (amore è dire poco)

bellezza rara nata ad ospitare

le spelonche dei sogni. Onde celesti

dell’Oceano più grande gli occhi tuoi.

Esondarono su me con le cascate

dei capelli lucenti di diamanti.

Quanto può esser vera una finzione

se gode l’anima in armonia con l’eros

oltre ogni ragione. Mi ricordo:

c’era una spiaggia bianca di sale.

E una capanna

sotto le palme al borbottio del mare.

Il sogno non ha tempo e non lo ha

l’amore che sognato resta sogno.

Ma la ragione,

quella che fece la storia,

la sola facoltà che fa dell’uomo

un essere pensante; la ragione,

quella che partorì

la casa, la parola, la memoria;

fu proprio lei che spense il mio piacere.

Riuscì perfino ad inserirsi

nell’anima dell’anima

con una sua finzione.

Un sogno dentro il sogno.

E sempre in sogno

mi attendevano gli amici e il mio lavoro.

Quando venne l’ora di partire

si stagliava nel cielo un cumulo di nubi:

una città sul mare,

una piccola città che galleggiava

sopra un immenso mare.



15/09/2000








Ignoto verso il mare







Il cielo è terso e il bianco della brina

quasi inneva i miei campi. I passerotti

rapinano il tepore delle piume

sui rami che sperano dal cielo

nuove buttate da donare ai nidi.

È febbraio. Non vedi per i campi

traccia di paesani; tutto è fermo.

Persino lo svolare

attende l’ora calda. Mi soffermo

sul prato più vicino a casa mia,

calpesto il suolo,

e il piede batte fesso sul tostato.

Ma è il mese che si avvia

a prometterci speranze; la mimosa

staglia il suo giallo sopra la campagna

e ricorda il colore di ginestra

che gonfierà l’estate. A te mi dono

mese di nostalgie! Di quando a sera

ci si accostava al fuoco con un animo

già pronto ad incontrare primavera:

il piede scalzo, le corse fra le vigne,

la sorpresa di un nido tra i filari.

E ti rivivo,

seppur la mia speranza

non cova rami in fiore;

e anche se negli spasimi

di due colombi sopra la grondaia

me la ricordo lesta,

ora è la voglia d’altro

che mi riporta a un fiume

e mi trascina ignoto verso il mare.



24/01/2010     h. 10







Il profumo della giovinezza







Un ricordo qualsiasi e quel giorno

pieno di luce che torna reale

a illuminare l’anima. I bei volti

che fanno giovinezza e che sprigionano

la voglia della vita. Mi guardavi

un po' vaga e distratta

senza affrontare sul serio l’amore.

Ed io che ti perdevo. Inutilmente

restarono i tuoi occhi appiccicati

alla mia resistenza. Giovinezza:

sortivi il tuo profumo

intento ad un sorriso dolce amaro.

Ed i falò sul mare, le nottate

a cacciare la luce del mattino,

le corse a piedi nudi sulla sabbia

arroventata. E tu che mi guardavi

con aria sospettosa.

Andiamo ancora insieme in quel paese:

quello con la piazzetta in mezzo ai tigli,

quello del barettino che ci offriva

il cioccolato caldo. Andiamo, andiamo

tu ed io soli, giovinezza, andiamo.

Ritroveremo nel verde dei tigli

gli occhi fugaci della nostra Delia.

Quanto profumi ancora! Il tuo sapore

sa di mare, di campo, di verbena,

sa di gioia, tristezza, di vaghezza;

sa d’amore, d’amore sano e puro

di un tempo fisso in seno. Forse là,

là dove il cielo incontra l’orizzonte,

resistono gli sguardi

a un’aria che sapeva di speranza.



Si chiudono le imposte al mio paese;

tornano a casa i giovani, ma tu

ti trattieni con aria indifferente

sulla panchina della piazza verde

a seminare amore.



09/10/2007









Sotto il sole della nostra Toscana







Ti chiedo solamente di restare

ancora assieme a me sotto il bel sole

della nostra Toscana. Tutt’attorno

ci faranno compagnia le verdi groppe

delle sparse colline ricamate

di biondi girasoli. Ed i poderi

che allungano viali limitati

da giganti cipressi. E i casolari

sulla cima dei colli a contemplare

gli spessi grani mossi dal respiro

di un cielo cristallino. Questo chiedo.

Ti chiedo di restare assieme a me

a bearti di torri e di castelli,

di piazze chiacchierate da fontane,

di chiese incise da mani di artigiani,

di sagre, di bandiere svolazzanti

su rughe di contrade

a ricordarti arcaiche vestigia.

E poi insieme movendo su sentieri,

profumati di timo e rosmarino,

ritroveremo i passi di un viale

che ci portava in cima a un paesino

coccolato da mura medioevali.

Di certo avrai in memoria una fontana

dove specchiammo i volti

che dicevano speranze. Affacceremo

i nostri sguardi sul piano fecondo

di allodole chiassose. E gusteremo

in vetri ricamati dai tuoi occhi

il sangue di una terra

sforato al solatio. Resta ancora.

Non mi lasciare solo. Senza te

la mia Toscana è povera di sole,

le mura medioevali senza te

non parlano di storia.

Restiamo ancora fino a tarda sera.

Il sole è là che trova il suo riposo,

lontano, in fondo al piano.

Ti emozionavi se i raggi rubino

tingevano di rosso le tue vesti,

e le vesti di un mare

che ti portava dritto all’infinito.



15/10/10   h. 17,30










Il mio ritorno







Si accendono le luci nelle case

e per le vie del borgo. Sarà notte!

Per ora il giorno mangia virtuale

la luce dei lampioni. È il mio ritorno.

Presto l’oscuro mangerà il cammino

e il verde dei miei colli e le memorie.

E spero solo che la luna in cielo

porti a spasso del sole, col suo volto

perlaceo e le sue chiome, dei frammenti

di luce. Tanto spero di vedere:

se privo di ricordi, alle colline

nell’ora del ritorno il mio partire.




25/02/1978

venerdì 16 dicembre 2011

La poesia di Roberta Degl'Innocenti


A cura
di
Ninnj Di Stefano Busà
 

Mi giunge inaspettato l'ultimo volume di liriche di Roberta Degl'Innocenti, poetessa ormai acclarata che merita tutta l'attenzione della critica militante.
E' una bella poesia, una parola che scivola come una piuma mossa da un fiato leggero di vento, ma che trascorre e percorre tutte le ansie, i sussulti, le incognite, gli affanni di un tempo tra i più difficili e critici del malessere di oggi. Sotto la parola dell'autrice troviamo, sì, una levità di linguaggio, ma anche la ruvidezza difforme di una full-immesion totalizzante ed estrema negli anfratti della vita che "graffia" e oseremo dire anche morde.
La narrazione si fa potente e determina in linea di continuità: lo stile e l'esercizio di un scrittura che, ormai, fanno di quest'autrice una sigla riconoscibile.
Roberta Degl'Innocenti non è nuova a un filone di emozioni che fanno il suo repertorio di vita, di suggestioni, di amore, di figure di sostegno come i luoghi, gli affetti, ma qui, in questa sua nuova raccolta, mi permetto di aggiungere, c'è una novità: l'esperienza stratificata nel tempo che produce quel filo memorico, tra lil presente e il passato, la passione e la creatività, la scioltezza del segno e il suo antefatto. Vi è l'orchestrazione della parola che predilige nuove forme di espressione, si evincono note alte, una musicalità "altra", che affiora dalle atmosfere idilliache del paesaggio esterno, dal piacere di ricamare sulla pelle i segni azzurri dell'anima che s'intrecciano e si smarriscono con i chiaroscuri della notte, coi suoi fantasmi, le sue magìe, e ritmano gradualmente un'amplificazione di toni e di situazioni quasi irreali.
Il lettore si sente quasi trascinato ai suoi cieli, ai suoi sogni, ai suoi incantesimi che riscrivono lo spartito con un accordo di altre note ricorrenti e irrinunciabili di vita e di passione.
Una fruibilità e un posizionamento d'immagini davvero figurativo e fantasioso, che ben si confà al carattere dell'autrice, che  ora si colloca in un linguismo elevato, atto a decifrare i suoi simboli, le sue interconnessioni, le interferenze umane ed emozionali in una sfera di grande continuità fònica e con "una libertà assoluta e vincente", come afferma il suo prefatore Paolo Ruffilli.
Le composizioni hanno una loro sonorità stringente e irrinunciabile dal punto di vista letterario, il flusso che determina i contorni, la paesaggistiva dei luoghi, il riflesso dei tempi nelle singole composizioni si deve alla partitura particolarmente musicale, ìnsita nella natura stessa della poetessa, la quale tiene inchiodato il lettore alle atmosfere idilliache, quasi aeree e proteiformi della sua poesia, che predilige l'attraversamento dell'anima, per giungere a rispecchiare la straordinaria esperienza del mondo, le sue trame, i desideri, gli sviluppi di un registro che ha la forza evocativa di un karma.
Ad un esame attento e severo, Roberta Degl'Innocenti appare quella di sempre, perché la musicalità persiste, il tono ritmico, la cura per la preziosità e la levità della parola vi si avvertono forti più che mai; ancora vi sono: il senso intrinseco della ricerca, il valore aggiunto della sua personale autenticità, i riflessi memoriali, gli echi, lo smarrimento, che Roberta sottende al destino della poesia, in una continua analisi di aperture e chiusure, verso un corpo scrittorio che è insieme di grande fascino e di provata leggibilità e fruibilità lirica.
"I graffi della luna", un libro che è tutto questo e molto di più, un  repertorio che danza con ali di libellula, ma con un ritmo materico ancorato alla zavorra del tempo.
Trattasi di connotazioni assai note nella sfera delle sue emozioni, da cui attinge la linfa vitale di tutta la suo storia letteraria. spirito e materia, brividi e rimbalzi, pulsioni e battiti, che l'autrice mette in campo per esorcizzare la danza, con un filo di rimpianto e turbamento: "un sussulto pervinca le parole" oppure: "capelli corti come vuole il vento/ a coccolare storie di parole:"


mercoledì 14 dicembre 2011

GIORDANO BRUNO SORGENTE DI FUOCO di Carmen Moscariello, a cura di Ninnj Di Stefano Busà

GIORDANO BRUNO SORGENTE DI FUOCO
di
Carmen Moscariello
a cura di
Ninnj Di Stefano Busà

La presentazione dell'ultimo lavoro teatrale di Carmen Moscariello, organizzata dall'Editore Guida di Napoli il giorno 20 dicembre è un'occasione per esprimere un giudizio complessivo sull'attività della stessa.
Sono stata chiamata dall'autrice a fare da relatrice sull'opera, in occasione della cerimonia di presentazione che si terrà nella “Sala Rossa” del previsto programma col pubblico. non essendo stata nelle condizioni di farlo fisicamente, per motivi di salute, desidero postare il mio giudizio sull'opera in questione, che a mio parere, è degna di attenzione, perché possiede una caratteristica di attualità e di comparazione molto forte coi tempi che viviamo. Ne parleranno dettagliatamente due personalità di tutto rilievo: Aldo Masullo e Ugo Piscopo, nomi assai noti nel diorama critico meridionale e nazionale.
Guida, un grande nome nel campo editoriale del Sud, ne ha pubblicato il libro che ora fresco di stampa e reduce dai fasti dell'esposizione alla Fiera del libro di Torino, sta per essere mostrato al grande pubblico nella sua veste migliore: ovvero un lavoro teatrale che potrebbe interessare il nostro tempo.
C'è un filo conduttore tra i tempi del filosofo e i giorni nostri, si fa riferimento a quel mondo di falsificazione, di ipocrisia, di sfaldamento e disorientamento del sistema etico, di interconnessioni, corruttele, peculato, tra la politica e la religione, tra la Chiesa e i laici, tra il libero pensiero e i falsi miti che popolano, anche e soprattutto, il sistema istituzionale della modernità: le connivenze, le interferenze, le invasioni di campo in un clima nettamente cancerogeno della politica e della società attuali che stanno ammorbando ogni giorno di più e in modo devastante l'obiettivo finale del <bene comune>. 
"Giordano Bruno e la sorgente di fuoco" è il titolo emblematico del libro, e credo sia per l'ardore, la passione di questo frate "eretico" militante, che tentò di portare a galla i difetti, stravolgendo tutti i dogmi e i paradossi filosofico-strumentali della Chiesa di allora. La sua filosofia aveva creato il panico e aveva allarmato la Chiesa e il Papato, che avevano ritenuto opportuno di bruciarlo nella pubblica piazza. Il tessuto teologico dilaniato e travolto dalla Riforma e Controriforma è stato più volte ricondotto alla revisione di taluni punti teologici, ma non ha cambiato la struttura pervasiva e invasiva delle sue maestranze.
Giordano Bruno, condannato dalla Chiesa e bruciato vivo per eresia a Roma nel 1600, non è solo un "simbolo" contro la disonestà e l'ambizione dei poteri forti, ma oggi viene rivisitato alla luce della sua dimensione umana sui "diritti" dell'umanità stessa, che viene dispogliata dal suo "essere" spirituale, nella veste più degna e pura: la visione di Dio e della sua VERITA' assoluta.
Un atto di miserabilità e di distruzione del libero pensiero, era stato perpetrato allora come ora, con un sovvertimento dei valori e un'ingerenza nella fede del cristianesimo, un atto di apostasia nei riguardi di una dottrina evangelica che diventa aporetica e distruttiva,  un'ingannevole arbitrario storico (allora come ora) di sovranità terrena, assai pericoloso nel sistema e nel tessuto socio-culturale e morale di una dottrina, perché vuole schiacciare il  <pensiero libero> per imporre le sue distorte ragion di forza, la sua politica oppressiva, le sue ingiustizie di classe, nel clima imbarbarito di un bene finalizzato al potere.
Il fuoco che arde è un tentativo di metaforizzare il concetto logico del ruolo che si assumono la società e la Chiesa, in un momento storico di grandi carenze, di profonde divisioni ecclesiali e politiche, di ingerenze macroscopiche nei diversi livelli del sistema economico e politico, il cui maggiore obiettivo è quello di inibire il tratto  -verginale-  di purezza dell'evangelizazione, con un comportamento osceno e pusillanime, che sempre più va orientando le sue necessità alla logica del fine materico, trascurando: la spiritualità, la lealtà, la morale, il sentimento, la logica, la giustizia, per rincorrere un sistema merceologico e materialista dell'essere.
Tra i personaggi del dramma s'incontra anche una figura di scrittore come Tommaso Campanella, che si presenta come compagno di sventura, entrambi infatti sono antesignani di un periodo storico che prelude alla nostra modernità e per certi aspetti anticipa il malessere e il disagio generazionale.
L'opera in questione andrebbe portata sugli spalti di un teatro, quale rappresentazione dei tempi che corrono, nella fedeltà ad una concezione che stratifica ogni giorno di più le incongruenze e i conflitti, riducendo il pensiero a formule aritmetiche che parlano solo la lingua dell'economia, della finanza marcescenti, inculcando un modello malato di esistenza e di etica. Il libro di Carmen Moscariello è allineato ai tempi, bisogna leggerlo nella sua chiave di  antinomia e di disagio dell'oggi, proprio in funzione di questa analogia temporale che induce a riflessioni, indicando come la nemesi storica tenda a ripetersi, ad essere reiterata attraverso la distorta analisi delle sue componenti: l'uomo non impara mai la lezione dalla vita, persiste nei suoi errori di fondo, si muove tra il suo personale malessere e quello dei suoi  simili con disinvolta disumanità,
L'eretico Giordano Bruno "docet", ma il mondo attuale sembra non accorgersi che, reiterando gli stessi madornali errori, il mondo infligge a tutta l'umanità l'annientamento della coscienza e della libertà individuali, ne comprime e ne falsifica la verità, brucia il pensiero "libero" e pericolosamente si avvicina agli estremi di una catastrofe mondiale, di cui è impossibile valutarne le conseguenze.
Penna interessante e moderna, quella della Moscariello, sa trattare le varie strutture del linguaggio in un piano di grande e interessante equilibrio dialogico comportamentale, finalizzati a mostrare il disagio generazionale e a farlo emergere attraverso un confronto di stratificazioni storiche degne della massima attenzione.
Giordano Bruno è il personaggio che meglio ha saputo rappresentare il malessere del suo tempo in un Sud alla mercé della Santa Inquisizione, arretrata e sterile dal punto di vista evangelico, in un periodo storico/temporale di profondo disagio socio-culturale, il quale si avvicina molto ai nostri giorni.