mercoledì 15 febbraio 2012

"Misure del timore" di Antonio Spagnuolo - recensione di Sergio Spadaro

"Misure del timore” di Antonio Spagnuolo – recensione di Sergio Spadaro
Pubblicato il31/01/2012 da
Nota di Nazario Pardini
Piazza-del-Plebiscito-napoli

L’inconscio, il luogo della poesia
Misure del timore“ del napoletano Antonio Spagnuolo (Kairòs Ed., Na, 2011) è un’antologia che raggruppa un venticinquennio di esercizio poetico (1985-2010). Il più antico volume selezionato è Candida, che ha la particolarità – rispetto ai restanti volumetti – di offrire “occasioni” liriche generate da un viaggio in Francia. L’ultima sezione, che è quella che dà il titolo all’antologia, comprende le liriche scritte nel corso del 2010, e che sono pertanto inedite.
Il lasso temporale che l’antologia abbraccia è sufficiente per darci una visione a tutto tondo del fare poetico di Spagnuolo, che la lettura di un singolo libretto poteva limitare (come è capitato a chi scrive). Questo fare poetico è caratterizzato da una proliferazione delle immagini inconscie, che nei testi si presentano spesso in maniera spiazzante, a volte tuttavia voluta, come per perseguire quello “choc percettivo” già teorizzato da Umberto Eco in tempi d’avanguardia dispiegata. C’è al riguardo un’epigrafe, ripresa da un’intervista rilasciata a Maurizio Vitiello (nel sito “on line” Positanonews del 17.8.2011), che è bene riportare: “La libido produce il sapere senza oggetto in disarmonia con il reale. La poesia è legata all’inconscio e l‘inconscio è il luogo della poesia”. Da questo punto di vista era felice il titolo del libretto pubblicato da Spagnuolo nel 2009, Fratture da comporre, perché la ricomposizione delle fratture della realtà in unità di coscienza logico-razionale diventava la meta da perseguire, almeno per quanto possibile.
Ma quello che può non riuscire all’autore troppo sollecitato da un inconscio a ruota libera, rientra invece nei còmpiti di un lettore, che abbia gli strumenti per farlo. Cerchiamo di vedere allora quali frammenti “significativi” la lenza introspettiva dell’autore riporta in superficie. C’è innanzitutto una attenzione insistita sull’io, che in mancanza di relazione con l’altro, genera malinconia e solitudine, fino ad arrivare a un marcato solipsismo. Si veda: “apro incisioni / nella mia solitudine” (p. 15), “in fotogrammi precipito / a riempire il mondo che sparisce” (p. 37), “quando ho perso il reale” (p. 39), “io scrivo distorsioni” (p. 42), “nelle mie proiezioni / l’occhio non varia” (p. 50), “proietto indecifrate ambientazioni” (p. 67), “ad esplorare la mia malinconia” (p. 84), “dimentico tutto quanto ho scritto / [...] o già pensato per infingimenti” (p. 96), “le mie orecchie / hanno ascoltato l’inganno della solitudine” (p. 129), “per rinchiudermi nella solitudine” (p. 151). Infine sono innumerevoli le volte che ricorrono nei testi i singoli lemmi solitudine, malinconia/ tristezza.
Si potrebbe emblematicamente racchiudere questa discesa agli inferi dell’inconscio nel sintagma “il terrore è me stesso”, cui ricorre Spagnuolo a p. 67, che da un certo punto di vista richiama il rimbaudiano “l’io è un altro”, quando questo protagonista francese della rivoluzione poetica del modernismo scopriva che nel là-bas non esisteva più un io unitario.
Ma ricomporre i frammenti psichici in un percorso coerente della coscienza – attraverso quel processo che C.G.Jung chiamava individuazione – non è facile: in tale direzione comunque la “via” più immediata è quella della relazione amorosa, che è poi quella sperimentata dall’autore. Il quale distingue charamente tra Eros e Amore, anche se poi pratica più frequentemente i sentieri erotici (Eros è l’altra faccia di Thanatos, dice Spagnuolo nella succitata intervista). Ecco perché nei testi ricorrono costantemente “immagini” erotiche, che stavolta – rispetto al lessico per lo più astrattizzante del normale procedere – è di una concretezza e di una corporalità inusitate (in questa poetica sono i contrasti a prevalere). Non si tratta però di una forma di “realismo”, ma di una datità corporea a cui si aggrappa per sopravvivenza un naufrago che si sente risucchiato nell’abisso (come – si parva licet componere magnis – accadeva con gli “scandalosi” piedi sporchi della Madonna nella Morte della Vergine di Caravaggio ). Ecco allora qualche ricorrenza: “gusto di beccare improvvise le tue cosce” (p. 31), “ed io sbrindello versi / penetrando il tuo ventre” (p. 77), “sullo sfondo il candore delle cosce” (p. 78), “ha il gusto dei capezzoli / il morbido viluppo del tuo ventre” (p. 98), “fammi accostare [...] / al tuo calore, al ventre, al tuo cespuglio” (p. 137), “con entrambe le mani nel tuo sesso” (p. 148). E si potrebbe continuare a lungo.
Quanto al versante di Thanatos, ci limitiamo a citare l’anafora “il cimitero è qui, è qui a due passi”, che termina con la meditatio mortis “ed il tempo approda alla vecchiaia” (p. 123). Già il titolo di uno dei libretti selezionati nell’antologia era Fugacità del tempo (2007). D’altronde mortalità e vecchiaia, specie nei testi più recenti, sono ricorrenti: “per tutto il tempo fallito, / conteso alle mie rughe nello specchio” (p. 127). Il mondo esterno, fuori della caverna psichica, si fa sempre più uniforme e senza colori, catamorfico. Si possono in questa direzione interpretare persino i titoli dei testi dell’ultima sezione dell’antologia, quelli inediti: Illusioni, Ricordi (2 volte), Riflessi, Labirinto, Tremori, Rimbalzi, Falsetto, Vertigini, Declino. Sicché è il risultato di questa protratta esplorazione che si fa negativo anche per l’autore: “ormai la tua poesia / è diventata un tappeto di muschio, / una sottile leggera sospensione / dai rigurgiti del quotidiano rincorrere” (p. 147), “questo capogiro di parole, e parole, e parole” (p. 135), “forse è il tempo del nulla: /un’infinita poesia del disinganno” (p. 159).
Per quanto riguarda il lessico, essendo l’autore medico, sono molto frequenti i termini ripresi dalla medicina, soprattutto nel libretto iniziale Candida (si veda esemplarmente il testo Melania). Poi però le “valvuloplastiche buie nelle parole” (p. 41) si attutiscono. C’è tuttavia da segnalare il ricorso a voluti arcaismi, come la mancata articolazione delle preposizioni “di” e “da” (p. 73, p. 107), che sembrano rifarsi alla poesia d’inizio del Novecento di Dino Campana. Ma se si passa alla metrica, il versoliberismo di Spagnuolo è tipicamente novecentesco e molto fluido, tranne quando spezza le lineee in emistichi, secondo quelle rientranze grafiche in cui è maestro Mario Luzi (a es. Tracce a p. 48 o da Rapinando alfabeti a p. 83).
In conclusione, è l’autore a parlare di “arsure barocche” (p. 107) per la collocazione generale di questa poesia, forse facendo eco a quanto già ebbe a scrivere su di essa Plinio Perilli. Certo è che il “senso del fugace passare e morire delle cose – come scrisse Giovanni Getto (Barocco in prosa e in poesia, Rizzoli, MI, 1969, p. 41) – , [...] del sorgere e del dileguare delle illusioni della vita, [...] qui è soltanto un motivo marginale, rilavorato e impreziosito, che s’accorda con quella diffusa atmosfera di tristezza, pervasa di un funebre sentimento del tempo e oppressa da una desolata coscienza della morte incombente, che avvolge tutta la civiltà barocca”.
Infine – come osservava Lienhard Bergel (Dopo l’Avanguardia, Vallecchi, FI, 1963, pp.29/30) – “l’avanguardia postbaudelaireiana prende dalla tradizione romantica il concetto dell’unicità e creatività dell’individuo, e lo trasforma, o se si vuole lo deforma, a suo modo. L’ideale individualistico è reso assoluto, viene concepito in modo letterale, solipsistico; l’individuo, distaccato sempre più dalla realtà, finisce con l’ondeggiare nel vuoto, in completo isolamento, [...] sceglie di astrarsi dalla realtà per dedicarsi completamente al compiacimento di sé”.
Per leggere l’intervista di Maurizio Vitiello ad Antonio Spagnuolo clicca QUI.
Fonte:
http://poesia.blog.rainews24.it/2012/01/30/antonio-spagnuolo-misure-del-timore-2/

Nota di Nazario Pardini

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