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martedì 30 dicembre 2014

MAURIZIO DONTE: ESTRATTO DAL ROMANZO "DE BELLO PARTHICO"

Un estratto dal romanzo "De Bello Parthico"; il primo degli episodi che si svolgono presso l'isola di Lèukade (la nostra isola)
di  Maurizio Donte

XVIII
La battaglia degli stretti di Leukade
I
“Eccoli! Stanno arrivando. Li vedi?”
I due uomini erano sdraiati pancia a terra tra i fitti arbusti che coprivano il declivio della collina, primo avamposto della ripida dorsale montuosa che copriva da nord a sud l'isola di Leukade. Sotto di loro un lungo tombolo sabbioso, coperto di cespugli di salicornia, partiva dall'isola in direzione della vicina costa dell'Ellade, separando le acque blu dello Ionio dalla laguna interna, di un bel colore smeraldino, su cui affacciava il piccolo villaggio di pescatori che dava il nome all'isola.
Da qui partiva il canale che, scendendo verso sud, andava ad aprirsi nell'ampio golfo di Meganissi.
La flotta era apparsa all'orizzonte nel pomeriggio, avanzando lentamente a colpi di remo: non c'era vento, l'aria immobile sfumava a destra la costa ellenica e la città di Atium, all'imboccatura del profondo golfo d'Ambracia.
Al declinare del sole tutte le navi erano in rada presso il cordone di sabbia.
“Che ne pensi?”
Didimios si voltò verso Eraclio, si stiracchiò per riprendersi dalla lunga immobilità, poi rispose:
“Ormai è chiaro: si sono radunati qui sotto, al riparo, visto che il mare si sta alzando, e domani mattina tutta la flotta si infilerà nel canale, del resto era ovvio, è la via più breve.”
“Esattamente come pensava Sesto Pompeo.”
Didimios annuì.
“E finiranno così nella trappola che gli abbiamo preparato.”
“Già. Pompeo è un grande stratega sul mare.”
“E' stata una fortuna averlo incontrato nel canale di Sicilia.”
“Una fortuna per i nostri capi: si sono subito intesi col pirata.”
“Hanno tutti dei buoni motivi per avercela con Cesare.”
“Pompeo per via del padre.”
“E di suo fratello maggiore, caduto a Munda, non lo dimenticare.”
“E' vero.”
I due si rimisero in piedi, tenendosi al coperto degli alberi, mentre arretravano in direzione del luogo dove avevano legato le cavalcature.
“Bene, direi che possiamo rientrare, non perdiamo più tempo.”
“Sei sicuro che non sia meglio che uno di noi resti qui a sorvegliare?”
Disse Eraclio.
“Direi di no, dove vuoi che vadano?”
“Ma sì, hai ragione, andiamo allora.”
Si avviarono nel fitto del bosco, slegarono i cavalli e si avviarono lentamente sul ripido sentiero che tagliava il fianco sinistro della collina. Quando raggiunsero il terreno sgombro dagli alberi, dettero di sprone.
I cavalli volavano sul bordo dell'alta scogliera di bianco calcare, orlata da cespugli di stentati pini marittimi, sotto i quali nidificavano immense colonie di gabbiani.
Corsero a lungo in direzione del piccolo villaggio di pescatori dove era ad attenderli la scialuppa della trireme da cui erano sbarcati. Alla svolta del punto in cui lo strapiombo cominciava a declinare verso il
villaggio, il cavallo di Eraclio inciampò in un ramo basso.
“Oh! Merda!”
Il cavaliere tentò di trattenere l'animale per le briglie, ma si trovò presto a mal partito, il cavallo si era avvicinato troppo all'orlo dello strapiombo e nitrì, impennandosi, folle di terrore. Si era imbizzarrito.
Didimios tirò le redini e fermò il suo cavallo.
“Cerca di tenerlo!”
Urlò al suo compagno.
“Morte e dannazione, non ci riesco!”
Gridò l'altro di rimando, mentre tentava in tutti i modi di calmare la bestia terrorizzata. Ma non ci fu niente da fare, il cavallo, ormai reso pazzo dalla paura, disarcionò Eraclio ed entrambi volarono di sotto.
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Il pesante corpo dell'animale colpì, nella caduta, un punto della falesia evidentemente già indebolito dall'erosione eolica.
La frana che si staccò fu di dimensioni spaventose: l'intero blocco si abbatté come una mannaia sulla spiaggia sottostante, con un immenso rombo di tuono.
Didimios rimase impietrito, i capelli irti sulla testa.
“Eraclio!”- mormorò tra sé.- “O, dei, questa non ci voleva!”
Scese da cavallo e si avviò verso il bordo della scarpata.
Il silenzio, interrotto solo dal suono del rotolare di qualche piccola pietra e una densa nube di polvere, fu tutto quello che gli si presentò.
Con estrema circospezione e timore si sporse oltre il bordo e guardò di sotto.
Il macigno di dimensioni colossali era ormai piantato nella sabbia sottostante, tutt'intorno le onde provocate dal crollo, convulse, andavano e venivano.
Il corpo straziato del cavallo era una macchia scura sul candido arenile, in cielo i gabbiani spaventati gridavano, volando via. Di Eraclio nessuna traccia.
“Eraclio!” Chiamò, con ben poche speranze.
Con sua immensa sorpresa sentì in risposta una voce angosciata.
“Sono qui. Aiutami!”.
Guardò in basso e stentò a credere a quello che vide. Eraclio penzolava nell'abisso appeso con una mano ad una grossa radice di pino marittimo, che la frana aveva messo allo scoperto.
“Aiutami!” Ripeté.“Non so quanto tempo riuscirò ancora a resistere, scivolo!”
Didimios si sporse per quanto poté e tese la mano, tenendosi con l'altra al robusto tronco di un contorto cespuglio.
“Prendila!”
Eraclio con uno sforzo disperato si dette lo slancio e con la mano libera riuscì a prendere la mano tesa dell'amico. Le loro dita si serrarono convulsamente.
“Ci sei!”
L'erculeo Trace tirò a sé con tutta la forza di cui era capace: i suoi enormi bicipiti si gonfiarono allo spasimo, nello sforzo tremendo a cui li stava sottoponendo. Grosse gocce di sudore gli colavano negli
occhi, facendoli bruciare. Eraclio, per conto suo, era riuscito a far presa sulla roccia con i piedi e così facendo agevolò lo sforzo del compagno che, alla fine, riuscì a trarlo in salvo. Giacquero esausti sull'erba per alcuni minuti, rifiatando: Eraclio era scosso da un tremito irrefrenabile, i denti gli sbattevano come in un forte accesso febbrile. Sentiva le fauci secche e dette qualche colpo di tosse.
Con gli occhi sbarrati per lo spavento, si mise a sedere e contemplò l'abisso nel quale, per poco, aveva rischiato di scomparire per sempre.
“Ho bisogno di bere qualcosa di forte!”Disse.
Didimios si alzò e andò vicino al suo cavallo, slegò la fiasca dalla sella e gliela diede.
“Bevi.” Eraclio bevette una lunga sorsata di vino schietto, si deterse la bocca con il dorso della mano, sospirò. Poi bevve di nuovo. Scosse la testa, come a scacciare i cattivi pensieri.
“Non ho mai avuto così tanta paura, in vita mia, nemmeno prima dei ludi, nell'arena.”
“Te la senti di andare? Dobbiamo sbrigarci.”
“Andiamo!” Il Trace salì in sella, poi si rivolse all'amico:
“Monta dietro di me.”
Eraclio si alzò, barcollando, salì e si misero in movimento, tenendosi prudentemente a maggiore distanza dall'orlo del burrone, discesero fino alla spiaggia e in breve raggiunsero il villaggio: un povero agglomerato di capanne e casupole in parte di pietra con i tetti coperti di paglia, tra di esse erano appese ad asciugare le reti da pesca. Poco distanti, alcune piccole barche erano abbandonate sull'arenile. Degli abitanti nessuna traccia. La presenza al largo di Skorpios e Sparti, due isolette quasi gemelle poste in mezzo al golfo, della minacciosa flotta di Sesto Pompeo aveva convinto quella povera gente a sgombrare il più rapidamente possibile e a rifugiarsi nell'interno dell'isola.
Solo un piccolo gruppo di pirati era seduto vicino al mare, di guardia ad una agile scialuppa. Uno di loro si alzò dal piccolo fuocherello, presso il quale erano gli avanzi di un pasto frugale, e venne loro incontro ridendo.
“Cosa avete combinato voi due? Volevate far crollare l'isola? Eraclio, devi essertela vista assai brutta!”
“Lasciamo perdere.” Rispose Eraclio, torcendo la bocca. “ Non fosse stato per lui... A proposito grazie, Didimios!” Disse, scendendo da cavallo.
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Il Trace fece un cenno col capo, smontò e con una pacca sul sedere del cavallo lo lasciò libero.
“Ci sono novità?”
“Si, sono arrivati. Domani cominceranno l'attraversamento dello stretto.”
“Sicuro?”
“Certamente, stavano radunando tutte le navi presso l'imboccatura...”
“Allora la vendetta per Sesto Pompeo è vicina, andiamo ad avvertirlo!”
“Voi!”chiamò. “Mettete in acqua la barca.”
I pirati si affrettarono a spingere via dalla spiaggia l'imbarcazione, entrarono nell'acqua, poi vi montarono in tutta fretta e, data mano ai remi, iniziarono a vogare verso le navi che pigramente dondolavano alla fonda, presso le isole di fronte a loro.
II
Erano sfilati in una lunga e monotona vogata durata tutto il giorno. Dopo le due isole di Paxos e Antipaxos era stato tutto mare aperto con lontano a sinistra la bassa costa dove, presso il porto di Atium,
si apriva la stretta imboccatura del golfo di Ambracia.
Con il venir meno della luce scorsero davanti a loro la mole abbagliante delle scogliere settentrionali di Leukade, nel loro biancore calcareo tinto ora di un soffuso rosa tramonto. In alto la vegetazione selvaggia trionfava, mentre alla base della bastionata rocciosa un lungo tombolo sabbioso, coperto di erbe alofile e bassi cespugli stenti, si protendeva verso il continente, a tal punto vicino da non distinguersene. Mercurio era a prora del Tritone e sforzava lo sguardo a mano a mano che la distanza diminuiva.
“Ma dov'è il canale?” Disse, rivolgendosi al comandante.
Livio gli indicò un punto, a malapena distinguibile, dove il tombolo accennava impercettibilmente ad abbassarsi.
“Si deve girare là. Scapolato quell'ultima lingua di sabbia si entra nella laguna interna: da lì, sulla destra si vede subito il villaggio di Leukade, con il suo piccolo porto. Il canale vero e proprio comincia più a sud. E' ben segnalato per via dei bassifondi.”
“Mmmh. E' proprio un imbuto! Non sarebbe meglio girare tutti intorno all'isola?”
“Sarebbe pericoloso, senti? Il vento si sta alzando ora. Il mare potrebbe ingrossarsi e le navi grandi sarebbero molto in difficoltà; non dimenticare che le onerarie trasportano i legionari, i cavalli, le macchine belliche e le scorte di cibo. La perdita di una sola di queste sarebbe un grave danno.”
“Sì. Hai ragione. Atteniamoci agli ordini di Caio Didio: è la cosa migliore da fare.”
Il vento stava effettivamente rinforzando e il mare, fino allora propizio, stava gonfiandosi. Entrarono nelle acque più riparate della baia e diedero fondo.
Le ancore, grossi massi bucati trattenuti da vigorose gomene, furono gettate in acqua.
Le navi, messe così al guinzaglio, si orientarono assecondando la corrente, con le prue verso il mare aperto.
“Un'ottima posizione per ripartire subito, ce ne fosse stato il bisogno.”
Stava considerando Mercurio, quando una manata gli si abbatté veementemente sulla schiena, accompagnata da una fragorosa risata.
“E allora, conquistatore di barbare! Cosa racconti?”
Mercurio si girò, paonazzo in viso.
“Furio, accidenti a te, a momenti mi fai sputare i polmoni!"
“Ma dai! Per uno come te, che si fa travolgere da vino e donne e ne esce vincitore e con bottino al seguito, cosa vuoi che sia! E che bottino...!fiuu!”.
Commentò appoggiandosi alla murata e contemplando la nuova schiava del suo amico.
“Devi davvero essere rimasto simpatico a Cleopatra, se ha pensato di regalarti un tale sollievo per lo...
spirito... ah, ah, ah!”
Concluse, infischiandosene dell'occhiataccia di Mercurio.
“Povera ragazza, non si troverà molto bene su una nave come questa, c'è poco spazio... per una donna poi!”
“Certo che sei ben strano, amico mio, ma... ai tuoi tempi, cosa fate con le donne?Le guardate e basta? Il Fato ti ha regalato una puledra così: divertiti, per Bacco!”
In quel momento Fryda alzò gli occhi verso il suo padrone: nel suo sguardo difficilmente decifrabile, pareva brillare una scintilla di riconoscenza.
Per la prima volta, da tanto tempo, qualcuno l'aveva difesa. E quel qualcuno si era poi dimostrato umano, comprensivo, attento alle sue esigenze, per quanto possibile, nelle ristrettezze di una nave militare.
Mercurio le si avvicinò, lei si alzò dal rotolo di gomene dov'era seduta, era alta, snella, con un sorriso luminoso e triste allo stesso tempo.
“Hai bisogno di qualcosa, signore?” Disse.
“Ne hai più bisogno tu, credo. Cercherò, in qualche modo, di tirarti fuori dalla spedizione: non è posto per donne, questo.”
Bisbigliò Mercurio.
“Il mio posto è dov'è il padrone!”
Mercurio sorrise, scuotendo il capo. Guardò lontano, a occidente, il sole tramontava per l'ennesima volta, indifferente alle umane vicende: il cielo dapprima splendente d'oro, sfumò rapidamente nel rosso, poi scurì, mentre il disco incandescente svaniva progressivamente sull'orlo dell'orizzonte.
Presto fu notte.
Un refolo di vento lo investì ed un brivido lo fece trasalire: strinse a sé la donna, la sentì morbida sotto le sue mani, ma fu come se quasi commettesse un sacrilegio: foschi pensieri gli si agitarono nel petto, a
volte si sentiva come se fosse l'unico uomo vivo in un mondo di morti! Era una sensazione terribile che non gli concedeva tregua: tanto per dirne una... quella donna avrebbe potuto essere una sua antenata, per quel che ne sapeva... cosa stava facendo, allora? Eppure la vita pulsava attorno a lui: tutto gli appariva così normale... Aspirò il forte odore salmastro e si quietò. Non poteva farci nulla: quello, ora, era davvero il suo mondo e almeno finora, come non unica consolazione, era sul mare, che aveva sempre amato così tanto. E c'era Fryda, escludendo pensieri strani, come compagnia non era davvero male... Le accarezzò il collo, solleticando poi la nuca con le dita: la prese tra le braccia e la strinse. Si sorrisero e, mano nella mano, si avviarono verso poppa.
Furio fingeva di guardare il passaggio di uno stormo di gabbiani, fischiettando.
III
L'alba lo riscosse. Fryda dormiva, raggomitolata vicino a lui. Guardandola, gli venne in mente una gattina. L'accarezzò con lo sguardo. Si alzò il più silenziosamente possibile, per non disturbarla, ed uscì dal ristrettissimo cubicolo, cui aveva diritto in qualità di ufficiale comandante. Salì la scaletta lignea e fu sulla tolda.
Da poppa osservò brevemente i movimenti del grosso della flotta che, pesantemente, arrancava in direzione del canale. Tutto come preordinato: ecco che l'altra squadra di triremi, al comando di Didio, si stava disponendo alla partenza. Furio era già a prora, con Livio: stavano facendo salpare l'ancora. Il grosso masso uscì dall'acqua, gocciolando e fu riposto, con un tonfo sordo, vicino all'albero di prua. Li raggiunse.
“Partenza?”
“Ohi, eccoti qui, finalmente!”Disse Furio con un sorrisetto divertito.
Livio fece il saluto.
“Nave pronta, Legato!”
“Segnalate alla squadra: non appena l'ultima nave di Didio ha defilato davanti a noi, prendiamo la loro scia e ci muoviamo.”
“Agli ordini!” E Livio scattò via a dare disposizioni.
“Dormito bene?”disse Furio, non riuscendo, però, a nascondere un luccichio divertito in fondo allo sguardo.
“Un po' stretto, ma bene.” Rispose Mercurio, ricambiando il sorriso.
Presto si avviarono: i remi entravano e uscivano ritmicamente dall'acqua, sciabordando. Il canto si levò con il tamburo che sottolineava il ritmo di voga: la costa alta e dirupata incombeva alla sinistra con le sue bianche falesie.
IV
Cesare osservava, con una certa impazienza, da poppa della Victoria, le operazioni di disimpegno dal canale delle ultime navi da carico: quelle contenenti i cavalli. Le operazioni erano andate più a lungo del
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previsto, ma ora, finalmente, poteva dare ordine di proseguire. L'imponente schiera delle cinquereme si mosse all'avanguardia, sospinte dallo sforzo combinato di centinaia di uomini incatenati. Si spostò sul castello di prora. Un legionario lo salutò.
“Ave, Cesare!”
L'Imperatore lo considerò appena e si concentrò su quello che avveniva intorno a loro. Tutto lo stato maggiore gli fece ala. Mossero in avanti, inoltrandosi nel golfo di Meganissi per qualche centinaio di
stadi. Quando ebbero sulla destra le isole di Skorpios e di Sparti, videro muovere loro incontro un'imponente squadra navale, prevalentemente costituita da triremi.
Il Legato Asinio Pollione si voltò verso Cesare.
“Guarda, le nostre navi sono già qui! Sono state veloci... ”poi la voce gli morì in gola.
Vide, infatti, le navi manovrare in semicerchio, chiudendo rapidamente lo spazio di fronte a loro. Si udirono ordini concitati, le vele furono abbassate e prontamente legate, e i rossi stendardi di
combattimento fiorirono al colmo degli alberi, guizzando nel vento. Un istante dopo un grosso dardo di balista sibilò nell'aria e si piantò, vibrando come un serpente, nel parapetto a pochi palmi da Cesare.
Dalla trireme che aveva tirato giunse chiara una voce: “Cesare, sei finito! Non hai scampo!”
A gridare era stato un giovanotto sui trent'anni, ben piazzato: spalle larghe e capelli castani ricciuti.
Guardava verso Cesare con un sorriso di sfida.
Cesare fece una smorfia e batté il pugno sulla murata.
“Sesto Pompeo!” Ruggì.
Asinio Pollione si guardò intorno smarrito. Dietro di loro le lente navi onerarie avevano appena finito di riempire, con la loro ingombrante presenza, la parte settentrionale, molto stretta, del golfo. Davanti, la minacciosa flotta nemica chiudeva ogni via di uscita. Non c'era soluzione alcuna.
“Sia... siamo in trappola!”Balbettò.
“Non finché io avrò vita!” Gridò Cesare.
“Uomini, agli scorpioni! Caricate le catapulte! Segnalate alla squadra del Console Antonio quello che sta succedendo qui, e che faccia sbarcare i legionari nel primo approdo che trova disponibile, noi ci
batteremo per impedire che le sue navi vengano raggiunte.”
I legionari scattarono, le baliste furono approntate in un batter d'occhi, le sferraglianti catapulte vennero tese e caricate. Presto i proiettili disegnarono le loro curve parabole schiantando le murate e storpiando uomini, dall'una e dall'altra parte. I dardi delle baliste colpivano ovunque, trafiggendo e decimando gli equipaggi e inchiodando le macchine belliche.
Le agili triremi di Pompeo scattarono in avanti a speroni bronzei protesi come agili orche in caccia di grosse e lente balene.
La Battaglia degli stretti di Leukade era iniziata.
Cesare fece accostare le pesanti navi da guerra il più possibile tra loro, in modo da far da schermo alle navi onerarie, le quali, intanto, avevano virato di bordo ed ora arrancavano pesantemente verso la costa greca, cercando così di impedire il passaggio delle agili triremi nemiche.
La manovra non riuscì però del tutto: alcune navi di Pompeo sgusciarono tra i colossi di Cesare e aggredirono a colpi di sperone i trasporti più attardati. L'Imperatore si accorse, con sommo disappunto, di quelle navi in difficoltà: in alcuni punti vide anche alzarsi le fiamme, in altri vide i legionari imbarcati tenere testa ferocemente ai pirati arrembanti, in altri ancora li vide soccombere, ma non poté far nulla per prestare soccorso: erano incalzati da ogni parte.
Lo spazio di manovra era ridotto al minimo, perché Pompeo li aveva chiusi nella parte nord del golfo, più stretta, mentre lui, nella parte ampia, disponeva di tutto lo spazio necessario. Cesare guardò verso il
suo attendente.
“Silvano, la mia armatura!”ordinò seccamente.
Questi corse negli alloggiamenti e fu presto di ritorno. Aiutò poi Cesare a indossarla. Mentre allacciava il sagolino sottogola dell'elmo, si rivolse ai suoi ufficiali, con aria estremamente determinata, anche se si rendeva conto che la situazione era assai grave, non disperava, ne aveva viste di peggio.
“Signori, la situazione appare forse disperata ai vostri occhi, ma in realtà non è così grave. Sapete bene che le triremi della nostra flotta stanno girando attorno all'isola. Si tratta di resistere fino al loro arrivo!
Dopodiché i guai saranno tutti per Pompeo: si troverà tra l'incudine e il martello e sarà schiacciato come una noce! Andate tutti ai vostri posti: l'ordine è resistere e a qualsiasi costo. Non rompete lo schieramento delle navi. Dovranno trovare un muro di ferro e fuoco davanti a loro!” Gli ufficiali passarono rapidamente sulle navi accostate diffondendo gli ordini ricevuti.
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“Certo che però il ragazzo di Pompeo l'aveva pensata bene! Bella trappola mi ha teso...Tanto peggio per lui!” Disse al Legato Pollione.
“O per noi?”
“Cosa intendi?”
“Se i nostri non arrivano in tempo?”
Cesare si voltò verso di lui con uno sguardo carico di disprezzo.
“Vuoi dire nel caso che Pompeo avesse mandato una squadra anche contro di loro?Allora moriremo con onore. Vuoi forse vivere per sempre?”
E lo lasciò senza attendere risposta. Pollione arrossì fino alle orecchie, svergognato.
Cesare si spostò dietro agli uomini che manovravano uno scorpione,60 spedendo dardi infuocati verso il nemico, incoraggiandoli.
“Ancora, ragazzi! Colpiteli!”
Si spostò poi verso il parapetto della torre prodiera e guardò giù, sulla tolda: i legionari, in perfetto assetto di guerra aspettavano impassibili il momento dell'arrembaggio dalle murate, gli scudi serrati
nelle sinistre e i pila stretti nelle destre pronti al lancio.
“Vieni ragazzo, vieni. Troverai questo vecchio osso terribilmente duro da rodere!”
Pensò e agitò in alto il gladio dalla lama istoriata, valutando la distanza tra le sue navi e quelle in arrivo.
Quando ritenne che fosse il momento gridò a pieni polmoni:
“Legionari! Pronti al lancio!” Le braccia si alzarono.
“Lanciate! Ora!”
Uno sciame di giavellotti salì in cielo, oscurandolo, e si abbatté sulle tolde delle basse navi di Pompeo.
La strage fu terribile: numerosi marinai e soldati caddero in acqua trafitti, alcuni letteralmente inchiodati ai loro scudi trapassati: il mare si tinse di rosso, ma la carica delle triremi non si arrestò. I legionari
scagliarono tutti i giavellotti della riserva, poi snudarono i gladi, attendendo l'attacco finale, che venne presto.
Gli speroni bronzei cozzarono contro le robuste carene rivestite di rame: in alcuni casi riuscirono a penetrare, in altri casi scivolarono lungo il fianco e l'urto ebbe come esito l'andare in frantumi di intere
file di remi. La fine pareva ormai inevitabile: le navi di Cesare erano bloccate, incalzate da ogni parte.
Dal basso volarono i rampini e le orde dei pirati si inerpicarono urlando su per le murate, agitando le armi.
I legionari fecero muro, per quanto possibile, adottando lo schieramento di battaglia a terra; ma su delle navi ondeggianti non era facile mantenere quell'ordine: presto il combattimento si frantumò in una serie infinita di duelli corpo a corpo. Parate con gli scudi e rapide stoccate di punta si ripetevano da ambo le parti. Morti e feriti si accatastavano per ogni dove, il sangue arrossava le tolde e in lenti rivoli purpurei, scorreva verso gli ombrinali e di qui in mare. Sesto Pompeo combatteva come un leone alla testa dei suoi e gli avversari davanti a lui cadevano come spighe sotto la falce del mietitore. La sua daga, più lunga delle solite, gocciolava di sangue fino all'elsa. Strinse meglio l'impugnatura divenuta scivolosa, serrò fortemente lo scudo e s'incuneò più profondamente nella mischia. L'alto cimiero di crine nero sull'elmo greco che indossava incuteva terrore: pareva Achille redivivo. Un unico pensiero aveva nella mente: vendetta! Vendetta per suo padre, per suo fratello, per tutta la sua famiglia. Aveva puntato subito sulla Victoria, al centro dello schieramento, pensando, non a torto, che se fosse riuscito ad uccidere Cesare, la battaglia sarebbe volta rapidamente a suo favore e ora era lì, a pochi cubiti dal suo eterno nemico, il cui alto cimiero rosso scorgeva ergersi dietro le spalle di una selva compatta di legionari.
Schivò un fendente, parò con lo scudo, e colpì allo stomaco dell'avversario con una rapida stoccata.
Rientrò rapido in guardia tenendo il bordo dello scudo a livello degli occhi: girandoli velocemente a destra e a sinistra, notò che l'abbordaggio procedeva bene anche sui due lati dello schieramento. Sorrise malignamente e urlò:
“Forza, uomini, li abbiamo in pugno, ormai!”
Poi, guardando il suo nemico, sibilò:
“Sei mio!”
Cesare si accorse dello sbandamento che si stava diffondendo tra le sue schiere.
Strappò di mano lo scudo ad un uomo che si stava ritirando, ferito al petto e sanguinante, brandì il gladio e si spinse decisamente nel vivo della lotta, gridando:
60 una sorta di grossa balestra montata su un supporto.
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“A me, legionari della Decima! Vittoria o morte!”
I legionari al vedere il gesto dell'anziano comandante raddoppiarono gli sforzi e sospinsero lentamente, ma inesorabilmente, gli avversari verso la murata.
Per un breve istante Cesare e Pompeo furono di fronte, ma ebbero appena il tempo di guardarsi negli occhi: la situazione cambiò in pochi istanti.
Pompeo fu richiamato nelle retrovie: due triremi all'estremità sinistra dello schieramento della sua flotta avevano preso fuoco e, nonostante gli sforzi degli equipaggi, il fuoco non si estingueva, anzi, divampava sempre più.
Pareva che l'acqua lo alimentasse invece di spegnerlo.
“Che succede? Perché non lo spengono?” Diceva, mentre alle sue spalle la mischia ancora infuriava, guardando attonito indietro dalla murata della Victoria: vedeva i suoi uomini affannarsi sempre più disperati, perché ogni volta che lanciavano una secchiata d'acqua sul fuoco, questo divampava sempre più alto. Sulla cima rosseggiante delle fiamme, dense colonne di fumo nero si alzavano al cielo.
Quando vide le fiamme estendersi anche sulle acque del mare, non poté trattenere l'angoscia e ordinò la ritirata.
“Appiccate il fuoco a tutto quello che trovate!”
Ordinò, rovesciando egli stesso un braciere.
E mentre i suoi uomini eseguivano l'ordine, frapponendo un muro di fuoco tra loro e gli uomini di Cesare, saltò sulla tolda della sua nave. Con un’agile capriola si rimise in piedi. Valutò con occhi attenti la situazione. Gli equipaggi delle navi in fiamme si salvavano, gettandosi in mare. Dietro le dense volute di fumo, una nuova squadra navale era apparsa: triremi da battaglia, con le insegne di Cesare! Da cacciatore era diventato preda. Un sorriso da lupo gli illuminò il volto: non lo avevano ancora preso.
E non sarebbe stato facile. Brandì la spada, gonfiò il petto e gridò:
“Didimios!” Il gigantesco Trace gli fu accanto, sporco di sangue dalla testa ai piedi.
“Va giù e ordina ai rematori la manovra di disimpegno!”
Il gladiatore partì di corsa.
In breve tempo, mentre i pirati tornavano a bordo sganciandosi dal combattimento, i rampini furono tagliati. I remi agirono poderosamente all'indietro, al ritmo scandito dal tamburo. Lo sperone fuoriuscì dalla ferita inferta al fasciame della Victoria: come un fiotto di sangue, l'acqua ne invase la stiva.
Pompeo valutò con un'occhiata il danno inferto, poi alzò gli occhi sulla tolda della nave nemica e vide l'equipaggio affannato nello spegnimento dell'incendio. Fece un cenno di assenso col capo.
“Hanno altro a cui pensare che a badare a noi.”
Si gettò sul timone dando a gran voce gli ordini per la manovra. I remi ben coordinati si mossero in modo opposto sulle due fiancate e la nave virò su se stessa con la grazia di un cigno, fendendo le onde
con la prua rivolta contro i nuovi nemici in arrivo.
Appena in tempo. Con un boato tremendo la nave vicina esplose in tanti pezzi.
Frammenti di murata e remi spezzati volarono in aria. Pompeo si girò sorpreso: in tempo per vedere il temibile e pesantissimo gancio ferreo, lanciato dall'onagro della Victoria, fendere le onde sotto l'azione dell'argano di recupero. Vide anche la grande stizza di Cesare per il colpo mancato. Il condottiero era sul castello di prua, vicino alla macchina bellica: stava imprecando.
Lo salutò ironicamente con la mano.
Bruciare o andare a fondo: questo era il suo destino, ormai.
V
Le bianche falesie digradavano come lunghe dita affusolate immergendosi nel mare. A mano a mano che procedevano verso sud, si facevano meno alte e incombenti. Sulle scogliere immensi stormi di uccelli marini, neri cormorani per lo più, volavano attorno, gettandosi a capofitto nell'acqua marina. Uscivano poi dalle onde spumeggianti, stringendo nel forte becco i guizzanti pesci catturati. Uno scrollo delle grandi ali ed erano di nuovo in volo.
Le due squadre di triremi, accompagnate dalle biremi e dalle più piccole liburne, remavano silenziosamente sotto costa.
Giunsero all'estremità sud dell'isola di Leukade: una serie di rocciosi promontori terminanti in poderosi faraglioni. Virarono a sinistra, seguendo sempre il profilo tormentato dell'isola, e si diressero verso
Meganissi: altra isola che sbarrava, con un lunghissimo promontorio proteso verso sud-est, l'accesso al golfo omonimo.
A nord-nord-est, uno stretto braccio di mare, terminante presso Skorpios, un'isola di dimensioni minori, la separava da Leukade.
Giunti che furono presso l'imboccatura di detto canale, il vento cambiò direzione. Un forte odore di fumo arrivò alle narici di Furio, che arricciò il naso. “Qualcosa sta bruciando!”
“E qualcosa di grosso! Ma cosa?” Rispose Mercurio.
Si girarono in tutte le direzioni, ma non videro incendi sulle isole. La lussureggiante copertura di pini d'Aleppo e pini marittimi era intatta. Gli uccelli volavano tranquillamente. Si guardarono in faccia contemporaneamente, sbarrando gli occhi.
“La flotta!”
Un grido d'avvertimento arrivò in quel momento. Si voltarono simultaneamente verso la Giunone. La nave di Gaio Didio stava accostando.
I rematori delle navi affiancate smisero di remare all'unisono: le due navi si trovavano a pochi cubiti di distanza, quando Didio parlò.
“Mercurio! Cesare è in pericolo! Questo fumo non viene da un bosco in fiamme!”
“L'avevamo capito!”
“Direi di dividerci: tu con le tue navi risali il canale tra Meganissi e Leukade, io con le mie giro intorno al promontorio.”
“Manovra a tenaglia?”
“Esattamente!”
“D'accordo, muoviamoci!”
“Sii prudente, non attaccare finché non ti è chiara la situazione.”
“Va bene!”
La flotta si divise rapidamente. Mercurio aspettò con le sue navi finché l'ultima trireme della squadra di Didio non sfilò davanti alla prora del suo Tritone.
Si girò allora verso Livio: “Segnala a tutta la squadra di avanzare lentamente, procurando di fare meno rumore possibile. Legate le vele e qualsiasi altra cosa che possa cadere voglio che sia assicurata
saldamente.”
“Quando saremo all'altezza dello sbocco del canale ci apriremo a ventaglio, tenendo Skorpios a sinistra.
Anzi, ora che ci penso, sarà bene mandare un paio di liburne a controllare il passaggio tra quell'isola e Leukade. Non voglio sorprese.”
Guardò fisso il subordinato e disse: “Vai!”
L'altro scattò, fece il saluto ed eseguì l'ordine.
“Furio, fai portare sul ponte quelle anfore che ho fatto caricare a Brundisium, mettine una sul cucchiaio della catapulta e fai preparare le baliste.”
“Quella robaccia puzzolente? Mi vuoi dire una buona volta a che serve?”
“Vedrai... vedrai. Ora avviamoci.”
Sollevò il braccio e dette il segnale: la squadra delle triremi si avviò ordinatamente nello stretto canale.
Mercurio osservava con crescente ansietà le pareti rocciose a destra e a sinistra della nave, i remi battevano l'acqua silenziosamente. Solo un lieve sciabordio rompeva quel silenzio. Ma il suo cuore batteva sempre più rumorosamente dentro di lui. A un certo punto, dopo l'ennesima svolta, vedendo un panorama sempre uguale, rocce a destra, strapiombi a sinistra, dette un pugno sulla murata.
Furio lo guardò. “Qualcosa ti preoccupa?”
“Sì, sto pensando a Fryda, non voglio coinvolgerla nella battaglia e vorrei sbarcarla in qualche punto, ma non c'è l'ombra di una spiaggia: sono tutte scogliere!”
Una voce alle sue spalle lo fece trasalire.
“Dove va il Legato, là va anche la sua donna! Non pensare che tra gli Svevi le donne non sappiano combattere!”
Mercurio e Furio si voltarono sorpresi, davanti a loro era la ragazza: si era messa alla meglio un corsetto di cuoio, rimediato chissà come, e impugnava con difficoltà un gladio. Un sorriso fiero e selvaggio le
illuminava il volto, i capelli scompigliati dalla brezza marina le incorniciavano i lineamenti finissimi.
“No, Fryda. Non è posto per te... ”
Cominciò a dire Mercurio. Ma la donna lo zittì.
“E dove devo andare? L'hai appena detto tu: non c'è approdo. Non posso sbarcare. Fryda ha già perso tutti quelli che amava. Se perdo anche te... meglio morta!” Lo guardò con aria di sfida...
98
Mercurio crollò il capo, le si avvicinò, le prese le mani e la guardò fisso negli occhi.
“Promettimi che non farai imprudenze, stai al riparo il più possibile!Promesso?”
La giovane donna assentì. In un sussurro, che solo Mercurio udì, rispose a sua volta:
“Non morire, Legato, non morire...” E una lacrima le scivolò sul viso.
Mercurio la guardò intensamente.
“Non dipende da me, ma farò il possibile.” Pensò.
“Stai tranquilla, non succederà!”
Strinse forte a sé la fanciulla. Poi si voltò. “Furio, te la affido. Bada a lei!”
Il Prefetto assentì e la prese per un braccio, la condusse a poppa, presso i timonieri.
“Stai qui.” le disse, sistemandola dietro un grosso rotolo di gomena. “In caso di pericolo saprò dove trovarti e verrò a difenderti.” Fryda assentì col capo e strinse forte il gladio, assumendo un'aria risoluta.
“Anch'io vi difenderò in caso di pericolo!”
Furio sorrise divertito. “Va bene!Brava la nostra intrepida amazzone.” Disse.
Le diede un buffetto sulla guancia e si spostò nuovamente verso prora.
Fece caricare la catapulta con l'anfora maleodorante e sistemare le altre a portata di mano, poi raggiunse Mercurio che stava armeggiando con il sistema di caricamento di una delle due baliste di bordo: vide che aveva fatto sistemare un piccolo braciere vicino all'arma. I serventi al pezzo erano invece impegnati ad avvolgere di stoppacci le punte dei dardi, robuste frecce lunghe quattro cubiti.
Mercurio lo vide arrivare. “Tutto a posto?”
“Tutto in ordine, mio comandante! Catapulta carica e amazzoni in riserva a poppa, pronte ad intervenire!” Scherzò, come suo solito. Mercurio sorrise a sua volta.
“Bene, andiamo a vedere cosa ci aspetta!”
Il Tritone svoltò l'ultima curva del canale ed entrò nell'ampio golfo virando verso destra: le altre navi defilarono in modo da allargare il fronte e procedettero poi di conserva tutte affiancate, solo due agili
liburne procedettero dritte dirigendosi verso il profilo dirupato della rocciosa Skorpios. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi era spaventoso: le navi di Cesare erano bloccate in difesa, la flotta di Pompeo attaccava su tutto il fronte; più internamente nella grande insenatura si distinguevano appena, a causa del fumo dei vari incendi, altre navi in lotta: aguzzando la vista, videro che si trattava dei trasporti e della nave di Cleopatra, anche loro incalzati dalle veloci triremi nemiche.
“Dopo il fumo, ecco l'arrosto!Furio, vediamo di fare una sorpresa ai nostri amici!” Disse Mercurio.
Valutò la posizione della sua squadra con un'occhiata.
“Non abbiamo tempo di aspettare Didio, guarda Furio, non è la Victoria quella nave al centro dello schieramento che sta bruciando?”
Furio salì sulla murata, attaccandosi alle sartie e aguzzò la vista.
“Direi proprio di sì.” Rispose con una smorfia.
“Diamoci da fare allora. Livio! Segnala l'avanzata!”
Una nota acuta riempì l'aria, i remi si abbassarono frenetici, battendo sulle piccole onde e la squadra si mosse, divorando lo spazio di mare che la separava dalla retroguardia della flotta ribelle. Al segnale del Legato i tamburi cominciarono a rimbombare. Si udì un grido: “Rematori, cadenza di speronamento!"
I remi si alzarono e sprofondarono nell'acqua, riaffiorarono e sprofondarono nuovamente, sempre più veloci. Le triremi di Mercurio partirono all'attacco, gli speroni bronzei protesi fendettero,
spumeggiando, le tranquille acque del golfo di Meganissi. Il Legato scese brevemente nella stiva, guardò i rematori incatenati: tutti gli sguardi di quei disgraziati si concentrarono su di lui. Si rivolse al capovoga e disse una sola parola:
“Liberali!” Poi risalì la scaletta, mentre i ceppi venivano aperti.
Ursus rimase a lungo a fissare la scaletta dove il comandante era appena scomparso: non disse parola, guardò la catena che veniva sfilata dal suo anello e continuò a vogare. Risalito sul ponte Mercurio vide che la distanza dagli avversari era diminuita fino al tiro utile della catapulta. Si avvicinò ai serventi, che nel frattempo avevano messo in tensione l'arma, valutò ancora una volta la distanza e poi disse:
“Pronti!Lanciate!”
L'anfora volò in aria e compiuta la sua parabola si schiantò sulla tolda della trireme presa di mira, andando in pezzi. Un puzzo tremendo si sviluppò nell'aria e i marinai cominciarono a tossire.
“Bravo! Li soffocherai con la tua puzzolente mistura!”
Disse Furio, ridendo e snudando il gladio: ”Sarà meglio che lasci fare ai professionisti! Uomini! Pronti allo speronamento!”
“No!” Gridò Mercurio "Pronti a virare, invece!”
Mentre Furio rimase perplesso con il gladio a mezz'aria, Mercurio si precipitò alla balista, la brandì, fece accendere lo stoppaccio del dardo, prese la mira e premette la leva di rilascio. Il proiettile infuocato saettò in direzione della nave nemica, colpì il ponte e un immediato, furioso, indomabile incendio, avvolse l'imbarcazione in meno di un secondo. Vani furono i tentativi dell'equipaggio di spegnere le fiamme: ogni secchio d'acqua rovesciato provocava una recrudescenza del fuoco. La seconda anfora che si infranse sulla chiglia della nave incendiata ne decretò la fine.
Una fiammata immane la avvolse e la nave scomparve in una nube nera con tutto l'equipaggio. Il Tritone virò di bordo, sorpassando il relitto a poppa e avventandosi sulla nave successiva. Furio era rimasto incredulo, davanti a quello spettacolo di distruzione del tutto inatteso e si riparava il viso con le mani dalla vampa di calore terribile che si era sviluppata; a mano a mano che si allontanavano dal relitto in fiamme, rimaneva lì, stordito, a fissarlo con la bocca aperta.
Del resto tutti a bordo erano rimasti come bloccati dalla sorpresa, ma poi, valutata l'efficacia della nuova arma, erano esplosi in grida di giubilo. Furio guardò verso Mercurio. Questi lo osservava di sottecchi, sorridendo beffardo.
“Che dicevi dei professionisti?”
Furio si tolse l'elmo e si diede una furiosa grattata alla nuca: aveva i capelli irti dallo spavento e gli occhi sbarrati come un gufo.
“Mi venisse un colpo! Questa... questa è stregoneria!”
“No amico. E' fuoco greco!”
Furio corrugò la fronte. “Fuoco che?”
“Fuoco greco, una scoperta che sarebbe dovuta avvenire tra qualche secolo, ma già che sono qui e so come si fa a produrlo... perché non prendersi un piccolo vantaggio?”
“Pazzesco!"
“Utile, direi, avanti ragazzi, armi in mano! Tamburo, sequenza di speronamento!”
Il tamburo risuonò lugubremente, cadenzando il ritmo, e i remi diedero spinta. La nave virò agilmente e si mise in caccia dell'avversario successivo, che fu presto identificato in un'altra trireme di Sesto Pompeo. Ancora una volta la catapulta lanciò il suo carico letale, che si infranse sulla chiglia. Mercurio scagliò il proiettile infuocato dallo scorpione sito a prora del Tritone e questo colpì il bersaglio che fu istantaneamente avvolto da una fiammata immensa; anche stavolta l'equipaggio si prodigò inutilmente cercando di spegnere l'incendio, ma ad ogni secchio d'acqua scagliato le fiamme si intensificavano e presto furono costretti ad abbandonare la nave, salvandosi a nuoto.
“C'è una cosa che non capisco proprio...”
Furio era appoggiato alla murata di sinistra del Tritone e osservava terrificato lo spettacolo che aveva davanti: una possente trireme che andava in fumo in pochi istanti.
“Cosa?”
“Perché non riescono a spegnerlo?”
“Perché nella miscela ho messo ossido di calcio, che reagendo con l'acqua forma il corrispondente idrossido. E' una reazione fortemente esotermica, quindi c'è un forte aumento di temperatura che aiuta la combustione degli idrocarburi... ”
Mercurio si fermò, lo sguardo smarrito del suo amico lo riportò all'epoca in cui si trovava.
“Va be'!” Fece spallucce “Insomma, volevo dire: hai presente quella sostanza bianca, che si usa nell'edilizia per legare i mattoni?”
“La calce? Certo.”
“Ecco, hai mai notato che quando la si bagna si scalda moltissimo?”
“Già', è vero.”
“Bene, questa è quello che intendo per reazione esotermica. Che avviene, cioè, sviluppando calore.”
“Questo vuol dire che le secchiate d'acqua fanno aumentare il caldo, invece di diminuirlo?E quindi lefiamme aumentano di intensità?”
“Esattamente.”
“Ma, alla fine... cosa c'è dentro?”
“Va bene,se proprio insisti, te lo dico: ignem graecum tali modo facio: recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et piceam, sale coctum, oleum, petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene. Postea impone stupa et accende, quod si voluens exhibere per embotum, ut supra diximus.
Stupa illimita non extinguetur, nisi urina, vel aceto, vel arena.”
Furio rimase meditabondo a lungo, guardando lo spettacolo terribile che si allontanava a poppa e lanciando ogni tanto occhiate piene di ammirazione verso il Legato. Alla fine scosse la testa.
“Quindi non c'è proprio modo di spegnerlo.”
“No.”
“Incredibile... ” Mormorò.
“Ne abbiamo ancora?”
“Di anfore incendiarie?No, le abbiamo finite.”
“Peccato, ma vedremo di farne a meno.”
Tutt'intorno a loro la battaglia infuriava: le navi della squadra di soccorso erano entrate in contatto con la retroguardia pompeiana, speronando altrettanti bersagli e il combattimento si era subito scatenato sulle tolde traballanti.
I legionari imbarcati scagliavano i loro pila contro gli avversari, poi, mentre questi erano impegnati a svellere i giavellotti, ormai piegati dai loro scudi appesantiti, dilagavano sulle tolde nemiche con il gladio in pugno, avventandosi sugli avversari in difficoltà e facendone strage. L'arrivo della squadra al comando di Didio, segnò la svolta definitiva della battaglia.
Chiusa da ogni parte, la flotta di Pompeo, pur combattendo accanitamente, stava avendo la peggio.
Ma le sorprese non erano ancora finite. Il Tritone si trovava in quel momento accostato ad una nave avversaria, che avevano agganciato con il corvo e Mercurio, con Furio e gli altri erano impegnati in combattimento, quando un immenso e fragoroso urto si ripercosse dalla fiancata, su tutta la struttura della nave, che gemette e sbandò.
L'alta prora, dal minaccioso occhio dipinto, della Nemesis, la nave di Pompeo, torreggiava su di loro:
dallo squarcio prodotto dallo sperone nella fiancata, tonnellate d'acqua si rovesciavano all'interno della trireme ormai condannata.
La potenza del colpo fu tale che Mercurio, Furio, Fryda e molti altri furono sbalzati in mare. Mercurio non ebbe altro tempo che quello di gridare:
“Furio, bada a Fryda!”Che il peso delle armi lo tirò sott'acqua.
Furio invece, vuoi per la lunga pratica nell'indossare e togliere l'armatura, che per la sua ben nota vigoria fisica, riuscì a liberarsi dal pesante fardello, tenendo solo il gladio, stretto tra i denti per la lama.
Si guardò attorno, tra i relitti e i corpi galleggianti di morti e feriti, schegge di legno e remi spezzati.
La confusione era indescrivibile e non vide nulla. Mercurio e Fryda erano scomparsi. Sopra di lui sentì gli ordini secchi di Pompeo, che ordinava il disimpegno: anche lui non aveva tempo da perdere, evidentemente.
La Nemesis si disincagliò dal relitto del povero Tritone, che in pochi minuti sarebbe affondato, tale era stato il colpo da non lasciare nessuna speranza di galleggiamento. Sentì voci venire dall'alto:
“Sicuro che fosse questa la nave che scagliava quel fuoco inestinguibile?”
“Ne sono certo, Decimo Bruto!” Rispose Pompeo.
“Il maledetto traditore!”Pensò Furio, sussultando.
“Peccato non aver potuto scoprire di cosa si trattava.”
“Almeno non può più nuocere...Via, ora dobbiamo sganciarci, ma... ehi! E quella chi è? Una donna in mare? Presto, una cima!”
Troppo lontano per intervenire, Furio vide Fryda, semi svenuta, che veniva issata a braccia sulla nave di Pompeo. Poté solo udire alcune parole, mentre la Nemesis, scortata da altre due triremi si allontanava:
“Che ci faceva una donna su una nave militare?”
“Vedrai, lo scopriremo... ”
Poi, non udì più nulla. La nave si allontanò rapidamente, seguita da presso da altre due triremi. Furio provò disperatamente a nuotare nella scia del vascello in fuga, in un vano tentativo di inseguimento,
finché le forze lo abbandonarono e fu costretto a desistere. Le seguì con lo sguardo, finché poté, prendendo nota della direzione.
Quando le navi nemiche scomparvero dietro il fumo degli incendi, si riscosse.
“Per gli dei!” pensò “questa Mercurio non me la perdonerà mai!”
61 Geniale intuizione di Gaio Mario: il pilum era costruito in modo da piegarsi nell'impatto, rendendolo così inutilizzabile da parte del nemico.
62 Sorta di passerella girevole dotata in cima di un uncino ferreo atto ad agganciare un'altra nave.
101
Questo pensiero gli mise in mente che anche il suo amico avrebbe potuto trovarsi nei guai e il cuore gli si strinse nel petto. Gettò via il gladio, rendendosi conto della sua inutilità, e girò freneticamente lo
sguardo tra i relitti galleggianti, ma non vide nulla muoversi.
“Mercurio!”Gridò. “Mercuriooo!” Ma non ebbe risposta.
Si guardò intorno angosciato. Chiamò ancora a lungo, ma invano. Si mise a nuotare da un corpo all'altro, cercando il viso dell'amico in ogni cadavere che, galleggiando, gli passava accanto ma, non trovandolo da nessuna parte, cominciò a pensare che il peso delle armi lo avesse tirato a fondo.
Amareggiato da questo funesto pensiero, si lasciò andare alla deriva attaccato ad un pezzo di murata che si era trovato a galleggiare vicino. In lontananza il combattimento continuava, ma a lui non importava più: aveva perso il suo amico e non era neanche riuscito a salvare Fryda. Si sentiva inutile, si riebbe da quella sorta di torpore solo dopo molto tempo, sentendosi chiamare.
“Ehi, laggiù, Prefetto Furio! Serve un passaggio?”
Si voltò.
La potente Giunone, che era la trireme di Gaio Didio, incombeva su di lui.
Il navarca era appoggiato alla murata e lo chiamava. Alcuni uomini gli gettarono una cima.
Lui l'afferrò e salì a bordo, dove si accasciò, stremato per la lunga permanenza in mare e tremante per lo sforzo. Qualcuno gli posò un mantello asciutto sulle spalle. Lui lo strinse, rabbrividendo.
Didio gli si avvicinò e si accovacciò accanto a lui.
“Portategli dell'acqua.”
“Meglio un po' di vino.” Rispose Furio.
Qualcuno gli porse un piccolo otre e lui ne bevve una lunga sorsata. Sospirò e guardò Didio in viso, ringraziandolo con un cenno del capo.
Questi gli parlò.
“Amico mio” disse: “Sai per caso che ne è stato del Legato Mercurio? Alla fine della battaglia, facendo l'appello delle navi, ci siamo accorti della vostra mancanza e vi siamo venuti a cercare. Cesare, infatti, ha ordinato ad una parte della squadra di inseguire le navi nemiche in fuga e alle altre di salvare i naufraghi.”
“Temo... temo che sia andato a fondo. L'ho cercato ovunque, tra i morti e i feriti, ma non c'era.”
“E la sua donna?”
Furio si incupì.
“Presa da Pompeo... Ah! E a bordo di quella nave c'era almeno uno dei congiurati superstiti, ho... ho udito fare il nome di Decimo Bruto.”
Balbettò con il cuore stretto in una morsa. Tutti si guardarono smarriti.
Gaio Didio si rialzò. Guardò l'orizzonte: una distesa fumante di relitti e corpi di morti e feriti.
“L'uomo che viene dal domani...Sarebbe davvero una grave perdita...”
Mormorò tra sé.
“Ma non disperiamo! Avanti, uomini; cercate, cerchiamo ancora! Laggiù, fate attenzione a tutto quello che galleggia!”
La Giunone riprese a muoversi, scivolando lenta tra i rottami e carcasse di navi semi affondate. Gli occhi di tutti attenti ad ogni movimento, ad ogni pur minimo segno di vita. Altre navi si unirono presto alla ricerca e recuperarono moltissimi uomini, ma per Mercurio fu tutto inutile: di lui, nessuna traccia.
Le ombre della sera scivolarono inesorabili sul golfo e le ricerche alla fine dovettero essere sospese.
Le navi rimasero alla fonda dove erano state colte dall’oscurità, oscillando nella lievissima risacca notturna.
Furio stava a prora, con una torcia in mano, sperando ancora di poter scorgere il suo amico in quella poca luce. Didio e gli altri ufficiali cenavano a poppa, rivolgendo ogni tanto uno sguardo di commiserazione al loro compagno che non riusciva a rassegnarsi.
Ci fu poi movimento presso la murata di dritta, si udirono voci di avvertimento provenire dal mare, alcune luci scivolarono sull'acqua nera come l'inchiostro: una piccola barca attraccò alla trireme e un uomo salì a bordo.
Didio si alzò sorpreso, gli andò incontro e lo salutò. Così fecero gli altri ufficiali.
“Dov'è Furio?”disse il nuovo arrivato.
“A prora.” Rispose Didio.
“Vado da lui.”
L'uomo si mosse silenziosamente e si portò alle spalle del Prefetto.
102
Tutto era tenebra intorno, solo la fiamma rossastra della torcia, tenuta alta dalla mano di Furio, creava un debole bolla luminescente e lui, circonfuso da quell'alone, fissava ostinatamente davanti a sé.
Una mano gli si posò sulla spalla, riscuotendolo dai suoi pensieri.
“Lo troveremo, Furio, te lo prometto!”
Furio trasalì voltandosi e la luce fece emergere dal buio un viso a lui ben noto.
“Cesare...!”
VI
Mercurio stava lottando disperatamente: era riuscito a sganciare tutte le fibbie che stringevano l'armatura, meno l'ultima. Per quanti sforzi facesse, non c'era verso, la maledetta non voleva proprio saperne di aprirsi. Piano piano le forze gli venivano meno, mentre lottava per rimanere a galla e prendere fiato. Non aveva chiaro cosa fosse successo. Ricordava di aver udito un forte boato e, subito dopo, un tremendo contraccolpo lo aveva scaraventato in mare mentre stavano combattendo corpo a corpo con l'equipaggio di una nave pirata che avevano agganciato. Aveva urlato a Furio di badare a Fryda, ma poi aveva dovuto pensare a salvare se stesso, cosa che, peraltro, non è che gli stesse riuscendo tanto bene.
A poco a poco sentì le forze abbandonarlo, si guardò intorno un'ultima volta, dimenando le gambe furiosamente per sostenersi e cercando con lo sguardo un appiglio qualsiasi, una tavola, un rottame a cui aggrapparsi, ma niente, non ce n'erano, perlomeno, non a portata di mano. Quando fu completamente sfinito, smise di lottare e, ormai rassegnato all'inevitabile, scivolò sott'acqua.
Vide pian piano la superficie allontanarsi, un mondo acqueo verde e silenzioso lo avvolse; in un ultimo barlume di coscienza, mentre i polmoni bruciavano alla prima inalata di acqua salata, pensò al suo
strano destino: il tempo, alla fine, aveva vinto. L'anomalia dovuta alla sua presenza stava per chiudersi definitivamente con la sua morte. Che ne sarebbe stato del mondo nel futuro, lui, che ne era stato l'artefice, non l'avrebbe mai saputo...che beffa gli aveva giocato la sorte. Nei suoi ultimi pensieri rivide il volto di Furio, vide Cesare impegnato in chissà quale battaglia...vide lo sguardo amorevole di Fryda che gli diceva:“Non morire, Legato, non morire...”
“Eh, se solo potessi...”
Questo fu l'ultimo pensiero coerente che gli venne, poi la mancanza di ossigeno ebbe la meglio: tutto diventò confuso e svenne. La morte sarebbe sopravvenuta di lì a pochi istanti, se due mani dalla forza immensa, in quel momento, non lo avessero afferrato sotto le ascelle, interrompendone la discesa. Con uno strappo violento, il soccorritore lo liberò dalla fibbia, rompendola, e la gran parte dell'armatura proseguì la sua discesa verso l'abisso priv a del proprietario. Subito dopo, dato un poderoso colpo di reni, l'uomo che lo aveva salvatosi spinse verso la superficie: con un braccio sosteneva il corpo inerte di Mercurio, mentre con l'altro e con le gambe nuotava vigorosamente. L’emersione avvenne con grande fragore. L'uomo prese fiato rumorosamente e a lungo, ansimando per lo sforzo. Dopodiché si guardò intorno, cercò di scuotere Mercurio per farlo riprendere: non riuscendoci e vedendo lì vicino un pezzo di tavolato di grandi dimensioni, vi scaraventò il corpo inerte del Legato senza troppi complimenti. Vi si issò anche lui pochi istanti dopo, badando a non far rovesciare il precario e fragile natante. Prese Mercurio per le braccia e lo scosse vigorosamente. Passò poi a premere ritmicamente sul petto del naufrago per far uscire l'acqua dai polmoni: ma niente, Mercurio restava inerte, nulla pareva in grado di riportarlo in sé.
“Dai, Romano!”disse dopo un po' “Respira, non mi avrai fatto fare tutta questa fatica per niente...”
Perso per perso, ricorse alle maniere forti: mollando al malcapitato due terribili manrovesci. Mercurio tossì ripetutamente. Si lamentò per il dolore, poi vomitò acqua salata sia dal naso che dalla bocca, tossì ancora finché, stremato, non la smise e si guardò in giro con occhi vacui. Accanto a lui vide un colosso dai capelli biondastri, il viso barbuto incrostato di salsedine e con i polsi segnati dai ceppi.
“Ursus...” mormorò. “Che ci fai qui?”
“Pago il mio debito, Romano! Qualsiasi altro della tua razza l'avrei lasciato andare a fondo con piacere.
Ma non tu. Con l'ordine che hai dato di liberarci dai ceppi, hai salvato me e molti altri dei miei compagni di sventura. Questo era il mio debito, l'ho pagato salvandoti e ora siamo pari.”
Ursus sottolineò la fine del discorso con un grugnito di soddisfazione e si distese sul tavolato, rilassandosi.
Mercurio si guardò in giro, perplesso; in lontananza vide fumo e navi che si inseguivano e si scontravano: la battaglia infuriava ancora, evidentemente.
Ma quelle navi non erano raggiungibili in alcun modo: erano stati presi da una corrente che li spingeva lontano. Il pensiero corse immediatamente a Fryda e a Furio: che ne era stato di loro? Si erano salvati, oppure...
“Dove andremo a finire, secondo te?" Disse improvvisamente il barbaro, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
Mercurio guardò in direzione opposta alle flotte combattenti e vide profilarsi la costa di un'isola. Un vasto promontorio verdeggiante che si distendeva in mare, protendendosi verso nord nel grande golfo, simile ad una grande mano, ricco di profonde insenature, di scogliere e grotte marine, veniva loro incontro.
“Su Meganissi, direi, e forse non ci vorrà poi molto. Se la corrente continua a spingerci così, tra un paio d'ore dovremmo approdare su quella spiaggia laggiù.”
“Già, e, visto che non abbiamo remi, non ci resta che aspettare riposandoci, poi, una volta a terra, ognuno per sé, sei d'accordo?”
Mercurio valutò la possanza fisica dell'altro uomo: in quale modo avrebbe potuto opporsi? Annuì.
“Certamente. Ognuno per sé, io non ti ho mai visto.”
Ursus grugnì soddisfatto. “Bravo Romano, questo è parlare.”
Ormai, della battaglia, non si vedeva più nulla, se non solo una densa foschia che copriva l'orizzonte.
L'oscurità cominciò a calare, sorprendendoli molto vicino ad una scogliera semi sommersa e, giusto per non farsi mancare nulla, il vento rinfrescò proprio in quel momento. Ursus si avvide per primo del pericolo. Si gettò a pancia sotto e cominciò a remare vigorosamente con le due mani, spostando quel natante assai improvvisato verso l'accogliente insenatura che si profilava sulla destra.
“Che succede?” Disse Mercurio.
“Scogli a pelo d'acqua e mare che rinforza: datti da fare anche tu, Romano, se ti preme la pelle! Non ne siamo ancora fuori!”
I due uomini, consci del calare del buio e del pericolo di essere sbattuti sugli scogli dalla risacca, moltiplicarono gli sforzi e dopo alcuni minuti, che parvero ore, riuscirono a guadagnare l'imboccatura
della profonda insenatura.
Da qui in poi, la spinta delle onde fece il resto del lavoro. Passarono a fianco di un grande antro oscuro, di cui intravidero appena l'immensa arcata, perduta in alto nella bianca scogliera:
“Una grotta aperta sul mare, sicuramente” Pensò Mercurio.
Poi udirono il frangere lieve delle onde sulla sabbia. Quando, finalmente, i loro piedi toccarono il fondale, tirarono un sospiro di sollievo. Abbandonarono il relitto e, in poche bracciate, furono a riva:
dove giacquero a lungo, esausti.
La sera stava calando rapidamente e il vento fresco li fece rabbrividire. “Muoviti, Ursus, se restiamo qui ci prendiamo un accidente!”
“Che fai, Romano? Ricominci a dare ordini? Si era detto ognuno per sé, ricordi?”
“E dove vorresti andare? E' buio, ormai! Finiresti per cadere in qualche forra, romperti le ossa e non poterne più uscire... non fare polemiche inutili e vediamo se si riesce a trovare un riparo sicuro per la notte.”
Ursus inarcò le sopracciglia, incrociò le potentissime braccia, ci pensò su un momento, poi scrollò il testone leonino.
“Sta bene” grugnì. “Hai ragione!.”
Si avviarono, risalendo la spiaggia. Giunti che furono al limitare della vegetazione, incontrarono presto un luogo dove la roccia si incurvava, formando così un naturale riparo. Il suolo era ricoperto di cumuli di aghi di pino portati dal vento.
“Toh!” fece Ursus. “C'è pure un giaciglio! Che comodità!”
I due, ormai esausti, si lasciarono andare a terra e presto si assopirono, ma non era passata neanche un'ora che Ursus si riscosse. Rumori provenivano dal mare. Si alzò e, silenzioso come un grosso gatto, si avvicinò alla riva. Gli si presentò uno spettacolo inatteso: la luna piena brillava alta nel cielo, illuminando quasi a giorno l'insenatura e più in basso piccole luci schermate splendevano debolmente sulle acque nere come l'inchiostro, facendole brillare.
Remi azionati cautamente sciabordavano nell’acqua il più silenziosamente possibile.
Contò mentalmente: una due, tre triremi. Le navi scivolarono verso la scura scogliera e ne furono presto ingoiate. Le luci si proiettarono brevemente sulle vaste pareti dell’immensa caverna, poi subito svanirono.
Ursus trasalì, quando Mercurio gli posò una mano sulla spalla.
“Che succede?”
“Abbiamo compagnia... non ci crederai, ma tre triremi sono appena scomparse là dentro... chi possono essere?”
“Pirati...”
“Pirati un corno, durante la battaglia, mi sono parsi Romani proprio come te!”
“Sì, va be', in effetti... diciamo che sono Romani con cui abbiamo qualche divergenza di opinione...”
“Romani anche loro, quindi... mi piace uccidere i Romani...”
Gongolò tra sé, aprendo e chiudendo i pugni grossi come magli da fabbro.
“Vedremo domani cosa si potrà fare, ma ora riposiamo, se no non ci reggeremo nemmeno in piedi.”
Detto questo,tornarono al loro improvvisato rifugio: si sdraiarono nuovamente sui mucchi di foglie secche e ripresero ben presto il sonno interrotto.


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