BIO-BIBLIOGRAFIA DI GIANCARLO CHIARIGLIONE
Laureato
con lode in Lettere Moderne nel 2005 presso l'Università di Torino con una tesi
sul cineasta e scrittore Sam Peckinpah intitolata "Il cinema di Sam
Peckinpah tra la fine del mito della frontiera ed una riflessione sulla
violenza e sulla società contemporanea americana", diventata poi il saggio
"Il cinema di Sam Peckinpah nell'America degli anni sessanta e settanta.
Un universo di violenza e di nostalgia" edito da L'Harmattan Italia. A
partire da questa pubblicazione, ha iniziato a collaborare con giornali e
riviste (online e cartacee) anche piuttosto importanti. Per Heos.it,
settimanale di scienza, politica e cultura della Gazzetta di Verona, ha
realizzato gli articoli "Cesare Lombroso e le origini della criminologia
biologica" e "Alberto La Marmora, il generale scienziato che disegnò
la Sardegna". Per il quotidiano Paneacqua (http://www.paneacqua.info/), ha
scritto diversi articoli su alcune manifestazioni culturali e artistiche
torinesi di grande interesse. Per la rivista Slavia, ha scritto il saggio
"Stanislavskij, Mejerchol'd e Vachtangov: l'altra rivoluzione russa"
(ripreso dalla nota rivista Teatro di Nessuno che di recente ha pubblicato
anche il saggio "L'opera di Tatiana Pavlova al crocevia delle
trasformazioni teatrali italiane del primo Novecento"). L'approfondimento
di tematiche socio-politiche ed economiche attraverso la settima arte è infine
proseguito con la testata giornalistica Cabiria (www.cabiriamagazine.it/) e con
la rivista Persinsala (www.persinsala.it/) che ha pubblicato scritti come
"Sidney Lumet, il regista della coscienza americana", "La
rivoluzione di Gillo Pontecorvo", "Alle radici del cinema politico
italiano: Il caso Rosi" e "Grillo, Coluche e il potere sovversivo
della cultura popolare" (gli ultimi tre segnalati da Treccani.it alla voce
documenti, foto e citazioni) e con Quaderni di CinemaSud, noto periodico di
cultura cinematografica e politica fondato nel 1958 da Pier Paolo Pasolini.
Infine, per il Prof. Eusebio Ciccotti, preside del Liceo Scientifico Statale
Ettore Majorana di Roma, docente di Storia e Critica del Cinema presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Foggia e Dottore di ricerca
in Letterature Comparate (Roma Tre), ha realizzato il saggio "Glengarry
Glen Ross e Americani: il lato oscuro del capitalismo secondo Mamet" che
ha trovato ospitalità sulle pagine del periodico Il Lettore di provincia (Vol.
139) della Angelo Longo Editore.
Pynchon e l'immaginario al tempo di «The Tube» - Sitosophia
www.sitosophia.org/2015/.../pynchon-e-limmaginario-al-tempo-di-the-tu...
2 giorni fa - Ecco alcune riflessioni di Giancarlo Chiariglione, a partire dal saggio di Fabrizio Denunzio, «TheTube. Pynchon e l'immaginario dopo la tv» ...
Fabrizio
Denunzio, Thomas
Pynchon
e l’immaginario al tempo di The Tube
Benché sia risaputo che nei
loro romanzi autori come Don DeLillo (New York, 1936), Thomas Pynchon (Glen
Cove, 1937) e Paul Auster (Newark, 1947) descrivono soprattutto quel paesaggio storico,
economico e culturale denominato “postmoderno” (è stato Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna ha
inaugurare l’utilizzo del succitato termine, consacrandolo in brevissimo tempo
a categoria interpretativa della società contemporanea), uno spazio che al contrario della Wilderness ansiosa di essere civilizzata (come la intendevano i Pilgrim Fathers), è così
fitto di immagini, codici e istituzioni
burocratiche da impedire ogni vera comunicazione, è molto meno noto che sia stato proprio lo
scrittore di Glen Cove ad elaborare una raffinata teoria sociale della
televisione, mostrando come il celebre medium abbia
“sdoganato” alle masse quell’universo entropico, quel mondo caotico che tende
all’ordine senza però mai raggiungerlo.
Ce lo ricorda Fabrizio Denunzio,
ricercatore in Sociologia dei processi culturali presso l’Università degli
Studi di Salerno, il quale, nel suo interessante e sempre più attuale saggio The
Tube. Pynchon
e l'immaginario dopo la tv edito
da Liguori (2012), individua un preciso itinerario mentale tramite cui
l’enigmatico scrittore mostra l’essenza della psicologia statunitense
(emblematicamente!)[1], fondarsi sempre più sul principio della chiusura, piuttosto che su
quello dell’apertura spaziale; descrive la difficile sopravvivenza dell’homo americanus in una società in cui si è assottigliata la differenza tra le persone e
le cose: se in romanzi come V (1963) e L'arcobaleno
della gravità (1973) è, infatti, l’immaginario
cinematografico (cioè sogni e mondi abitabili in modo virtuale e
pacifico da milioni di spettatori) a influenzare l’azione dei protagonisti, in Vineland, uscito nel 1990 ma ambiento nella California del 1984, anno del fatidico romanzo
di George Orwell, la televisione, con la sua penetrazione capillare, arriva addirittura a
costituirsi come un vero personaggio autonomo. Diventa the Tube.
Persuaso che
a questo stadio dell’evoluzione sociale la
creazione artistica non ha nulla a che vedere col “genio”, ma con i processi
materiali di produzione, Pynchon, il quale si considera egli stesso un “operaio specializzato” che utilizza i materiali già fabbricati e intelligibili dell’industria culturale di massa (la produzione culturale
risponde non tanto a esigenze che soddisfino la qualità umana, la coscienza critica, la morale e così via, ma alla pura e
semplice riproduzione del “capitale investito”),
mettendo a fuoco l’interazione
affettiva e generazionale dei personaggi del succitato romanzo col sistema dei media, fa coincidere la
(relativa) serenità esistenziale dei
genitori della protagonista Frenesi con
l’epoca classica del cinema hollywoodiano e la perdizione della medesima donna, il disfacimento della cultura
alternativa che rappresenta insieme alle
comuni anarchico-pastorali rifugiatesi a
Vineland e in altre zone del grande Stato affacciato sul Pacifico (sedotta dal procuratore
Brock Vond, la nostra diventerà informatore
della polizia portando su di sé la responsabilità
morale della caduta della Repubblica Popolare del Rock and Roll, un piccolo
stato marxista installato a quelle latitudini),
con l’era del trionfo del piccolo schermo. Sarà la figlia Prairie,
avuta con l’ex hippie Zoyd Wheeler,
quindi diretta discendente della
generazione dei figli dei fiori, di cui porta inscritto nel nome (“prateria”)
la sublime utopia di una terra libera, selvaggia
e incontaminata, emblema
di quella importante radice culturale e filosofica americana che da Ralph Waldo Emerson,
Henry David Thoreau, Josiah Royce ed
Herman Melville giunge sino a Jack Kerouac, a
scoprire che il ricordo della stagione delle proteste
studentesche (radicate in un passato di
lotte sindacali personificate da Hub, padre di Frenesi, elettricista sui set
cinematografici, separatosi dalla moglie Sasha a causa della sua scarsa
coscienza politica), il sogno di un’America diversa, sono stati fagocitati, depotenziati (“normalizzati”) da un
ambiguo, paradossale e inarrestabile loop mediatico governato da the Tube.
Se è
vero, infatti, che il repertorio cinematografico utilizzato da quest’ultimo
produce un certo effetto pedagogico (vedendo in tv
le pellicole hollywoodiane dell’immediato dopoguerra e associandole, ad
esempio, al dramma della caccia dei comunisti o allo strapotere dei sindacati filo-padronali, la protagonista sviluppa una
coscienza politica rivoluzionaria che la trasforma in una battagliera regista underground), il piccolo schermo, in
generale, tende a veicolare
un panorama teatrale del mondo (i Buoni e i Cattivi sono sempre riconoscibili
come tali), a creare pseudo-esperienze, «mappe» di avvenimenti facilmente riconoscibili
da farci assorbire in modo acritico
e irrazionale
(McLuhan parla di «una convulsa
partecipazione dei sensi»)[2], proprio tramite il cavallo di Troia di film, telegiornali,
documentari, talk show; a selezionare notizie, eventi (meglio
se traumatici come la tragedia dell’11
settembre 2001)[3] e
spettacoli per collocarli in un regime storico che non fa altro che ripetere se
stesso e inglobare ogni
alterità
nell’identità dell’istante presente (François Hartog ha parlato a tal proposito di “presentismo”,
ossia di un tempo senza futuro e senza passato che genera
il passato e il futuro di cui ha giorno dopo giorno bisogno)[4].
Ci dice
ancora il Prof.
Denunzio che ad instaurare tale dipendenza compulsiva sono soprattutto i serial, fenomeni
esteriori (immediati) tramite cui è possibile penetrare l’intimità, la
coscienza (in senso hegeliano) del noto medium. Ricollegandosi ai Grundrisse (I
Lineamenti
fondamentali della critica dell'economia politica) nei quali
Marx afferma che l’effetto principale prodotto dal pluslavoro è la creazione di
quel tempo libero messo a disposizione della società a scapito della classe
operaia («tutto lo sviluppo della
ricchezza si basa sulla creazione di tempo disponibile»)[5], lo studioso italiano evidenzia come seguitissimi telefilm quali Star Trek
(«capace di condizionare l’immaginario [fantascientifico e non] della seconda
metà del ‘900»)[6], CHiPs (incentrato sulle gesta degli agenti Jon Baker e Frank Poncharello della California Highway Patrol) o La
donna bionica (The
Bionic Woman), tendano a designare nel loro
complesso fenomenico l’idea che se nella società americana degli anni ’80 il
rapporto lavoro-tempo libero si è modificato in termini positivi per il
cosiddetto proletariato, la funzione del piccolo schermo è quella di
intercettare il momento di non lavoro tramite la distrazione (la coscienza
della tv è il mero intrattenimento). Sarebbe a dire, il tempo in cui può
avvenire lo sviluppo pieno dell’individuo, the Tube lo canalizza in un’illusione feticistica e
reificante: Hector Zuñiga, l’agente
della narcotici che segue Zoyd Wheeler e che è
sua volta braccato dall’Ente Morale Nazionale per Video Educazione e
Riabilitazione (in pratica un disintossicatoio per teledipendenti) e,
soprattutto, Frenesi, la quale sdraiata sul divano si
masturba guardando i succitati sbirri californiani motorizzati, sono totalmente dominati da quelli
che Mario Perniola e Baudrillard chiamano Trugbild, simulacri (circa la singolare dipendenza della
protagonista, occorre ricordare che proprio il filosofo piemontese, in un suo noto
testo, aveva annunciato il progressivo passaggio da una sessualità organica,
guidata dal desiderio e dal piacere, a una sessualità inorganica, artificiale,
“neutra”, sospesa in una eccitazione astratta e infinita)[7].
Infine, sempre in tale prospettiva,
Denunzio ricorda che se the Tube
mantiene stretti legami con il medium che l’ha preceduto (come abbiamo visto,
il cinema), allo stesso modo inizia a tesserne di nuovi con quello che, succedendogli, verosimilmente, metterà a punto un più efficiente
sistema di controllo: il computer e il web. Vineland, abbiamo detto, esce nel 1990, lo stesso anno in cui Gilles Deleuze, in una memorabile
intervista alla rivista «Futur Antérieur» diceva «a ogni tipo di società,
evidentemente, si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine
semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per
quelle disciplinari, Le cibernetiche e i computer per le società di controllo»[8]. Pynchon finisce per trovarsi a
fianco del filosofo
francese, vedendo nel rivoluzionario mezzo di comunicazione destinato a pervadere ogni aspetto della vita
umana
«…tutto quanto si sarebbe risolto
pigiando sui tasti di tastiere alfanumeriche collegate a invisibili,
imponderabili catene di presenze e assenze elettroniche. Se schemi di uni e di
zeri erano “come” schemi di vite e di morti umane, se ogni cosa riguardo a un
individuo poteva venire rappresentata su un disco di un computer […], ebbene,
che razza di creatura sarebbe stata rappresentata da una lunga sfilza di vite e
di morti?»[9]
una potente tecnologia del capitalismo assoluto, uno degli strumenti più importanti della
futura «tecnopoli digitale» gestita da piccolissime élites di tecno-cervelli
altamente dotati. La quale, se in un tempo non lontano porrà i suoi abitatori
coatti nella condizione di chi ama la propria cella perché non è più in grado
di pensare ad un mondo esterno (in modo simbolico, Vineland, la contea del dissenso,
erede di un’antica tradizione democratica, situata dall’autore in un tempo
pre-digitale, pare destinata a trasformarsi nel
panopticon
di Jeremy Bentham, nella “Duluth” di Gore Vidal, in un’entità virtuale uscita da un serial fantascientifico alla The Prisoner dove, come
osserva con disarmante pertinenza un altro figlio di Frenesi, non si sa «come
fare a capire quando sogniamo e quando siamo svegli»), già oggi, attraverso il cinema e, soprattutto, the Tube, ci induce a interrogarci circa la progressiva mutazione delle
coscienze, delle menti, dei corpi, a indagare quel
fastidioso senso d’inquietudine che proviamo
quando pensiamo a loro.
Giancarlo
Chiariglione
[1]
Jean Baudrillard afferma
che l’America è la versione originale della modernità «mentre noi ne siamo la
versione doppiata e dotata di sottotitoli», J.
Baudrillard, L’America,
Milano, Feltrinelli, 1987, p.64
[3]
In
riferimento ad eventi
assorbiti in maniera acritica e
irrazionale, pensiamo alla tragedia del 9/11/2001,
vissuta da tutti (addirittura dalle stesse persone che si trovavano nelle Torri
Gemelle e sono riuscite a scappare) come se si fosse trattato di una pellicola catastrofica
tipo L'inferno di cristallo (The Towering Inferno, 1974, diretto da John Guillermin e
Irwin Allen) o di un film d’azione della serie Die Hard (la mente è andata anche alle numerose
trasmissioni televisive incentrate sulle tematiche terroristico-catastrofiche). Queste versioni banalizzate della realtà, queste esperienze
fittizie confezionate dal Grande Fratello del “villaggio globale”, questi Mostri che risiedono
dentro alla nostra materia grigia pronti a scatenarsi quando serve agli
ingegneri che li hanno programmati, sono infatti apparsi brevemente in tutta la
loro potenza proprio quel giorno, nel bel mezzo del disastro. Anche
analizzando il modo attraverso il quale l’industria del cinema e della musica
si è impadronita dei gangli emotivi e desideranti delle masse, i recenti studi
di neurofisiologia hanno focalizzato la loro attenzione sui neuroni specchio, capaci di attivarsi quando
compiamo una determinata azione, ma anche quando vediamo la stessa azione
rappresentata. Come ci ricorda il Prof. Marco Iacoboni, durante le
scene strappalacrime di alcuni film noi rimaniamo turbati perché nel nostro cervello i succitati neuroni ricreano per
noi i sentimenti che vediamo sullo schermo: quando, ad esempio, vediamo i divi
baciarsi, entrano in funzione nel nostro cervello le stesse cellule «che si
attivano quando siamo noi a baciare qualcuno che amiamo», M. Iacoboni, I
neuroni a specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati
Boringhieri, Torino, 2008, p. 12. Sul medesimo argomento suggeriamo anche i
testi di Rizzolatti Giacomo e Sinigaglia Corrado, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano, 2006, Rizzolatti Giacomo e Vozza Lisa, Nella mente degli altri. Neuroni
specchio e comportamento sociale, Zanichelli, Bologna, 2008.
[5] K. Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell'economia politica. 1857-1858, Firenze, La Nuova Italia, 1997, vol. I, p.
413.
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