Raffaele
Giannantonio: Tredici. Confessione poetica
Di Felice Edizioni. Martinsicuro. 2014. Pg. 80. €. 8,00
Poesia
intensa, folta, vissuta, i cui versi, dalla solida tenuta lessicale, si fanno corpo
di un sentire di epigrammatica metaforicità. Uno spartito di polimorfica
espansione, questa plaquette, che, con il suo alternarsi di misure metriche, si
offre all’abbraccio degli input vitali che la animano; ai tanti stati d’animo che
la rendono complessa, variegata, polimorfica come è la vita. Sì, qui, c’è tutto l’esistere con i suoi
travagli, le sue speranze, i suoi abbandoni e le sue rinascite; con tutti quegli
ingredienti che lo condiscono e che, al fin fine, si traducono in poièin. “La
vita è l’arte dell’incontro”, affermava
Vinicius De Morales, poeta brasiliano amico di Ungaretti, “ e vita e
poesia sono la stressa cosa”. E’ questa
equivalenza che ci colpisce fin dalla prima lettura. Questa simbiotica fusione
fra realtà e ricerca del vero. E sa il poeta, è cosciente della difficoltà
umana di reperirne le tracce, la strada, dacché le nostre forze sono esigue, e i nostri slanci
oltre l’orizzonte che delimita il nostro esserc-ci sono destinati a perdersi in
un cul de sac zeppo di brume autunnali;
in un percorso in cui il sogno, la memoria, gli affetti, il quotidiano,
la spinta a scavalcarlo, le illusioni, le delusioni, Thanatos ed Eros si
alternano vicendevolmente per confluire nella pienezza ontologica del nostro
esistere. Una vicenda di dolore, anche, di inquietudine, data l’entità della
nostra precarietà e delle sottrazioni che il tempo, nella sua implacabile
corsa, ci impone. Magari si ricorre alla memoria, per farne un’alcova
rigenerante, un edenico ristoro; ed è
così che ci vengono incontro volti, giorni, fatti, che, pur minimi, si rendono
grandi, immensi nelle mani del tempo:
(…)
Eppure
l’ultimo raggio di sole
disegna per un attimo,
negli occhi abbacinati del
presente,
fisionomie antiche di un’infanzia
rimossa dal transito dei
giorni,
quando il vivere era docile e
leggero,
quando nascere era miracolo
solito e impertinente… (per
un attimo).
E
tutto scorre fluido, affabulante, con un perpetrarsi di endecasillabi che
aiutano, con le loro esplosioni musicali, a riportare a vita il fascino di
un’età rimossa dal transito dei giorni; di un’età affidata alla sinfonia di un
verso, che, dopo misure più brevi o più espanse, si rende disponibile alle
richieste dell’anima come un acuto da romanza lirica:
(…)
un’altra estate che finisce
lenta, altre speranze
che volano lontane, uccelli a
stormi
che il sole manco rende neri
neri neri (Giorno di fine estate).
Branchi
di uccelli che sfumano il loro nero in raggi di un rosso tramonto; speranze che volano via fagocitate da
frettolosi giorni; tempus fugit; voglia di rinascere, di credere e di rinnovare
quel focus che si fa alimento di vis creativa: passato presente e futuro che si
innestano indissolubilmente per il logos del “Poema”. Ed è così che il poeta sa sperdere la sua
essenza umana in mari senza fine; in mari che, pur terreni nella loro bellezza,
allungano sguardi verso orizzonti che ci misurano coll’infinito:
(…)
Mare di Ionia
infinita presenza
nella storia dei giorni a
venire,
sei te stesso nella gioia di
cambiare,
pur rimanendo mare…
(Ionia).
E
dove amori di plurima valenza, di totale urgenza esplorativa, di erotiche
impennate emotive, riportano a partenze che tanto sanno di redde rationem, di
consuntivi adusi a intense meditazioni introspettive:
(…)
A te io lascio un cesto di
ricordi
e una folla di piccole
emozioni
riposte con affetto dentro il cuore.
complicità ribalda per la
quale,
in tutte le vicende della vita,
giammai ti troveri sola e
deserta (Partenza),
di
vicinanza ritrovata nel calore del ricordo di una madre:
(…)
A te mi accosto, nel buio
della notte,
ti stringo forte e arresto i
tuoi pensieri.
Si chiude in sé il cerchio
della vita
e in te mi trovo un’altra
volta figlio (Viaggio al tramonto),
o
di quello di un padre.
(…)
Così qui mi hai raggiunto, o
mio ingegnere,
dal passo d’implacabile
tartuca;
hai costruito dentro me un ricordo
che mai nessuno potrà
cancellare.
Dove tu sia non so, cosa
neppure,
non ne posseggo percezione
certa
So che mi manchi, anche
se mai sì forte
la tua presenza fu dentro al
mi cuore (La maschera del figlio).
Solitudini
di saudade sapore che fanno da leitmotiv in questa vicenda di generosa plurivocità. D’altronde la malinconia, quella
abile nel dribblare il sentimentalismo, è un alimento fertile per germi di canto
di un flusso magnetico tale da attrarre ogni amante del bel verso. Ma non
sarebbe di sicuro sufficiente né la musicalità, né l’ispirazione, né il pathos,
né il memoriale o quant’altro, se non ci fosse la parola, il verbo a dare
consistenza al tutto. E qui la parola è frutto di una ricerca attenta e
perspicace. Il poeta, attraverso figurazioni cromatiche mai oziose, attraverso
iperboli allusive che vanno oltre il senso del termine, sa ampliare il
contenuto in significanti fonoprosodici di levatura visiva. Se si constata,
poi, che persino la natura si fa ancella fedele nelle cospirazioni paniche, nel
dare consistenza agli stadi emotivi, senza mai scadere in semplice ornamento
bucolico di una “verde foresta”, o di una “luna misteriosa”, ancora di più ci
viene la conferma di un procedere assai rotondo, personale e al di fuori di
ogni epigonismo.
Insomma
Giannantonio, in questa storia dal sapore umano, troppo umano, pur riconoscendo
dispiaciuto che l’uomo moderno non è altro che un viandante sperduto
(Cardarelli) in una omologazione spersonalizzante di una società liquida
(Baumann), lotta, controcorrente, alla ricerca di sé stesso e del suo essere,
per trarre un bilancio sulla sua presenza; per confermare la sua individualità,
che, in un percorso da via crucis:
(…)
Solo Cristo dal volto pietoso,
Maddalena dai lunghi capelli
o Martino dal caldo mantello
ristorare potrebbero i troppi
cataclismi dell’uomo disperso
fra le ombre dal giorno che
cala
(Le ceneri)
(…),
sa
ritrovare, alfine, l’arduo cammino che
lo conduce alla sacrosanta e irripetibile vicenda che è la vita:
(…)
Voglio invece svegliarmi dal
sonno
di una notte oscura di stelle
e riprendere arduo il cammino
nell’aurora di rosee certezze
(ibidem).
Nazario
Pardini
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