Claudio Fiorentini collaboratore di Lèucade |
Premio speciale romanzo giallo al
Città di Pontremoli 2015, per il romanzo “Il misterioso caso di via Delia da
Gilal-Gulta”, edizioni Città del Sole
Quarta di copertina
L'ispettore del fisco Cipriani viene coinvolto casualmente, per
una strana omonimia con un poliziotto, in un misterioso caso che si svolge in
un particolare palazzo di via Delia da Gilal-Gulta, in una qualsiasi cittadina
dell'Italia di oggi, in cui tutti conoscono tutti, e ognuno nasconde un
mistero. Un intreccio gaddiano per un classico poliziesco che costruisce
sapientemente una trama fitta di vicende e personaggi e a cui non manca nulla
del genere: misfatti, intrighi, depistaggi, e un delitto da risolvere in cui
"ogni riferimento a luoghi e persone realmente esistiti è
inconsapevolmente volontario". Ma come scrive Margherita Ganeri nella
Prefazione, " Il giallo, si sa, è un genere di per sé metafisico, che
richiama le questioni del bene e del male, del giudizio, dell'etica del vivere
e del morire". Così anche Fiorentini, in modo assai originale, tesse un
discorso che va al di là dei fatti reali, per trasformarsi in allegoria e
metafora del nostro tempo.
Franco Campegiani collaboratore di Lèucade |
Recensione di Franco
Campegiani
“Il misterioso caso di via
Delia da Gilal-Gulta”,
di Claudio Fiorentini
Questo romanzo ha una trama
complessa che si avvolge a spirale su se stessa, tornando di continuo sulle
vicende narrate, esaminandole ogni volta da nuove prospettive. Ci
sono, direi, due storie principali, con due protagonisti distinti (l’agente del
fisco Cipriani ed il giornalista Mario Voigtlander), che si intrecciano in modo
enigmatico, ma che gradatamente si unificano in tessitura unitaria. Scolpita a
tutto tondo, con pennellate incisive, compare una grande varietà di personaggi,
in una scrittura assai dialogata. La pagina è particolarmente brillante, fluida
e ricca diverve. La comicità, la satira appartengono alla penna
dell’autore, che giocando e divertendo il lettore, propone in realtà una
propria visione della vita, con dilemmi molto seri e profondi: filosofici,
metafisici, teologici addirittura. Basti pensare al nome della via in cui
avvengono le vicende narrate, via Delia da Gilal-Gulta, che alla
fine si scopre essere l’anagramma di Agguati dell’aldilà.
Questa considerazione
consente di fare una prima riflessione importante: che cos’è il gioco per
Fiorentini? Un’evasione della mente, una fuga dalla realtà? Niente di tutto
ciò, a dispetto di quanto lui stesso affermi e a dispetto di quanto normalmente
si ritiene quando si parla di arte ludica. Il nostro autore gioca non per
fuggire dal mondo, ma per potervi aderire maggiormente. A ben guardare,
infatti, non c’è nulla di più serio del giuoco; anche se, viceversa, non c’è
nulla di più giocoso della serietà. Osserviamo un bambino (colui che gioca per
eccellenza): attraverso il giuoco, egli non fa che mettersi alla prova, calarsi
nella realtà, sviluppando in tal modo la propria spina dorsale, la propria
personalità. Giocando, egli non tenta di emarginarsi dal mondo, ma, al
contrario, cerca di mettersi in gioco, di rischiare in prima persona. Non gioca
per nascondersi (neppure se gioca a nascondino), bensì per ritrovarsi, per
andare incontro a se stesso, alla propria verità.
Fiorentini si pone,
giocando, il problema della verità. “Ai nostri giorni, mi creda, la verità è
solo un’opinione”, fa dire all’omone, proprietario di un locale
equivoco, che serve da copertura per altre, più losche e segrete attività.
Naturalmente l’omone è un poco di buono, un uomo senza scrupoli che
forse (il forse è d’obbligo) non avrà alcuna evoluzione morale
nel corso della sua vita. Tuttavia, da questo negativo punto fermo gli altri
personaggi partono per un loro cammino interiore, per una loro propria ricerca
della verità. Accade così per i citati Cipriani e Voigtlander, ma un discorso
analogo vale per Adelfranz e per Cattleya, per Nadine-Bijou e per Fausta
Lamorte (notate l’ironia di questo nome e cognome). E allora, ben vengano
l’involuzione, la menzogna, la negatività, se attraverso di esse, per
contrasto, può essere aperto il grande sipario evolutivo della coscienza.
“Alla luce dei fatti –
riflette in un determinato punto lo scrittore – è fondamentale riconoscere che
nei posti più terribili sbocciano amori e succedono miracoli”. E’ in fondo la
legge dell’armonia dei contrari. Hipokrités è il termine con
cui i greci indicavano l’attore, il teatrante, l’istrione, termine che non
aveva in origine il senso patologico del travisamento radicale, dell’ipocrisia
assoluta, bensì quello del far emergere per contrasto, dalla falsificazione, la
verità. Ciò, d’altronde, è contenuto splendidamente nel detto popolare, secondo
cui Pulcinella, scherzando scherzando, dice la verità. L’apparire e
l’essere, la superficie e la profondità, non si escludono, ma si
richiamano reciprocamente. Sono dimensioni parallele, che ovviamente non
possono essere trasferite l’una nell’altra (per non fare confusione), ma è pur
vero che sono consanguinee e che dovrebbero essere allineate tra di loro.
Per tornare al romanzo,
strane coincidenze inducono Cipriani a tornare nella via Delia da Gilal-Gulta,
dove era vissuto trent’anni prima e dove aveva conosciuto un’intensa vicenda
amorosa con Nadine, poi divenuta la prostituta Bijou. Una vicenda purtroppo
finita male per causa di un comportamento ipocrita, di una vigliaccata di cui
lui si sentiva e si sapeva responsabile. Fatale pertanto il ritorno in quella
via, con tutte le vicende che ne conseguono, le quali assumono il sapore di un
vero e proprio riscatto morale. C’è dunque il lieto fine:quel lieto
fine che si dice appartenere ad un certo tipo di letteratura ingenua,
cui il giallo in fondo non si sottrae, con la risoluzione ottimistica dei casi
polizieschi e con la vittoria finale del bene sul male. Solo che qui illieto
fine non ha alcunché di ingenuo o scontato; non consiste nella cattura
dei malfattori, che in realtà continuano indisturbati a delinquere, ma è
imperniato su una conquista interiore, su un riequilibrio sudato e pianto, su
un’evoluzione coscienziale che riguarda solo alcuni dei personaggi. In pratica,
un superamento delle illusioni, una maturazione della personalità dai risvolti
psicologici, che poco o nulla incide sulla realtà esteriore.
Ma veniamo, succintamente,
alla trama. Un divertente caso di omonimia, scoperto al Commissariato di
Polizia, con l’involontaria complicità di una perbenista e pettegola vecchina
di quartiere, trascina il protagonista Cipriani sulle tracce di una banda di criminali.
In quelle losche trame cade un certo Mario Voigtlander, giornalista dilettante,
intimamente agnostico, con la sua equipe di amici creduloni,
pronti a cadere nelle trappole di un esoterismo settario e a buon mercato,
nella risibile presunzione degli eletti, dei prescelti,
dei puri, degli iniziati. “Quella donna – scrive
Fiorentini (il riferimento è a Cattleya, da cui Voigtlander è affascinato) –
quella donna parlava di questioni alte, e quando ci si mette lo spirito, le
smanie del corpo vengono spesso accantonate”. Osservazione ironica, ovviamente,
che consente di riflettere sul contrario, perché la spiritualità è tutt’altra
cosa, sembra volerci dire Fiorentini. Spiritualità è equilibrio, è buon senso,
è pulizia mentale e non esaltazione. Nulla ha a che vedere con l’inconscio che
si lascia facilmente ghermire dall’illusione, dal fanatismo, dalle
sovrastrutture e dagli squilibri del genere più vario.
Lo scrittore mostra di
avere grande rispetto per il mistero, per il disegno provvidenziale e
incomprensibile che segretamente governa il succedersi degli eventi e delle
cose. In un punto preciso egli afferma che il mistero è tale e tale
deve restare. Affermazione che mi trova concorde, purché non serva per
eludere il mistero, o peggio per ostacolarne il cammino, come si è facilmente
tentati di fare. Ci si deve affidare, invece, al mistero, lasciarlo fluire
fiduciosamente, rinunciando all’idea di poterlo avere in pugno, quasi come un
oggetto da comprare. Di fronte alla vetrina dell’orefice, un uomo anziano con
il cappello, l’enigmatica figura che alla fine si scopre essere addirittura un
angelo, confessa al protagonista Cipriani: “Non capisco perché la gente impegni
decine di stipendi per qualche misero riflesso, quando la luce vera non costa
nulla”.
Parlavo prima degli
orizzonti religiosi e teologici di questo romanzo. Emblematica, al riguardo, è
la figura del prete con la faccia da assassino (che tuttavia è
un sant’uomo, a detta della vecchina), convinto che gli atei siano vicini a Dio
molto più dei credenti. Egli confessa a Cipriani: “Spesso gli atei sono più
credenti dei praticanti, solo che non lo sanno. Lo sa qual è la verità? La
verità è che gli atei sanno che Dio non può essere rappresentato da nessuna
forma mentale e non perdono tempo a farsene un’idea, che comunque sarebbe
distorta. Loro sanno che Dio è molto di più. I credenti, invece, troppo spesso
lo assimilano a noi, e Dio ai loro occhi diventa un replicante”. Ovviamente non
si può fare d’ogni erba un fascio e non si può dividere il mondo in buoni e
cattivi. Così, in un altro punto del libro, l’autore fa dire, non ricordo a
quale personaggio, che fra i credenti esiste tanta brava gente. E ci
mancherebbe altro! Le etichette non contano, le bandiere neppure. Ciò che conta
è l’uomo, con i suoi comportamenti.
Dio c’è e non c’è nello
stesso tempo. Egli è tutto e niente. Esiste, ma è come non esistesse, in quanto
si eclissa dietro la sua creazione e nessuno può vederlo. Così ogni tentativo
di chiamarlo in causa naufraga nella blasfemia, nel biblico divieto di non nominarlo
invano. C’è però da aggiungere che se Egli non esiste è come se esistesse,
in quanto, eclissandosi dietro le creature, dà ad ognuna le coordinate che le
occorrono. Non è dunque con Lui che dobbiamo fare i conti, ma con noi stessi,
con la nostra coscienza profonda, che per i credenti è allineata con Lui (ma si
tratta di sfumature, a questo punto). Dice Voigtlander a Cipriani: “Vede, caro
signore, per me la fede non è credere in qualcosa di esterno che ci risolve
tutto, no. La fede è solo una voce interiore che ci guida. Dio non c’entra”.
Beninteso, si può anche credere in Dio, purché si abbia a mente, e non si
dimentichi, la splendido detto popolare: “Aiutati che Dio t’aiuta”.
Questo romanzo si presenta
con le vesti tipiche del giallo. C’è un mistero poliziesco da indagare che
rimane tuttavia irrisolto. Dell’organizzazione criminale non si sa nulla e di
essa si avverte solo una rarefatta presenza. Ad essere acciuffata è in definitiva
l’ultima ruota del carro, l’insignificante pedina del Dottor Nodini, che è in
pratica il ruba-galline della situazione, mentre gli altri non
si conoscono, sono occulti, fatta eccezione dell’omone di cui
abbiamo parlato, che tuttavia non viene scalfito dalle indagini, grazie alle
protezioni di cui gode. C’è dunque la consapevolezza che il mondo non cambia,
né può cambiare, ma nello stesso tempo la certezza dell’intimo e salvifico
percorso che all’uomo singolo è concesso di fare, riscattandosi dalla comune
dannazione. Ecco che il bene ed il male occorrono l’uno all’altro. Sono
fratelli, come fratelli sono Caino e Abele, fin quando non decidono di separare
il proprio cammino irresponsabilmente.
Cipriani, che alla fine
riesce nell’intento di riscattare il suo antico amore, si trova a riflettere
sulla meschinità della vita umana, sulle debolezze di cui è costellata, sul
ciarpame morale che in fin dei conti diviene un fertilizzante indispensabile
per ogni evoluzione dello spirito. “Ed è questa – riflette – la realtà da
raccontare, quella degli uomini che hanno una vita normale che a un certo punto
si trasforma, quella della gente minima che per un attimo tocca la cima
dell’Everest, già, perché a volte, non sempre, la vita cambia ritmo, accelera,
quell’attimo, in cui tutto ti esplode in mano e ti trovi a vivere un sogno. E’
un attimo fuggente e se non lo cogli, tutto rimane piatto, ma se riesci ad
afferrarlo, anche se dura poco, beh, allora potrai dire che ne è valsa la
pena”.
Mi permetto di aggiungere
che quelli sono i momenti della grazia creativa, i momenti del mito sorgivo che
danno un senso nuovo alla vita, i momenti dell’arte e della poesia destinati
purtroppo a rientrare nel mare magnum della mitologia stanca
e ripetitiva. Così mi spiego, in questo libro, i riferimenti frequenti al
carattere rivoluzionario dell’arte contemporanea, con l’amara conclusione
finale che “ci vuole poco a trasformare in fenomeno borghese tutti i tentativi
di cambiare il mondo. L’arte contemporanea ci prova a cambiarlo, ma poi diviene
ipnosi di massa, seduzione mediatica, prodotto facilmente commerciabile. È
facile per i manovratori”. Eppure – dico io, nella certezza di trovare assenso
nell’autore – senza questo pantano melmoso non potrebbe nascere la spinta
necessaria a prendere il volo. L’armonia dei contrari è questo.
Franco Campegiani
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