Domenico Defelice: A Riccardo (e agli altri che verranno). Il Convivio. Castiglione di Sicilia. 2015. Pg. 64
Un
climax che drizza le vele al porto della vita, al miracolo della sua presenza
Splende la sposa come una
regina,
il re ha giurato amore eterno.
Mangiate e bevete, amici,
le labbra sorridenti, gli
occhi molli;
bevete e mangiate
tra balli e canti fino a notte
fonda.
Sarà un’alba radiosa e nuova
sopra una terra piena di
germogli.
Leggere
la poesia di Domenico Defelice è un’emozione schietta; è un contatto di polimorfico
sapore, di plurale contaminazione: musicale, espressiva, umana, estetica, quindi etica, sociale, e civile. Una
contaminazione legata alla vis creativa di un Poeta aduso ad indagare sulla
vita e su tutta la sua complessità: la memoria, l’esistere, il tempo, gli
affetti, i parenetici messaggi, e l’odeporica mèta verso un porto di umana
problematicità. Dacché riconosce, il Poeta, le aporie dell’uomo nei confronti
di se stesso e dell’intero pianeta, anche se, qui, appena accennate in versi
che lo mettono, più che altro, a contatto con una innocenza rousseauniana. Ma è
questa innocenza che preme a Defelice, e di questa si bea: tutto è sapido di
gioia e di piacere. Tutto è vòlto a vincere le ristrettezze del vivere coi
limiti che ciò comporta. È la nascita di un nipote, di un virgulto, Riccardo, la
sua tenera storia, a portare speranza e lucentezza. Amore totale che dà
sostanza al futuro, all’avvenire. Messaggio di nuovo sangue, e di prosieguo. Di
continuità a vincere i limiti a cui sono vincolate le vicende terrene.
D’altronde è umano, strettamente umano confrontarsi col giorno che scorre
imperterrito e indifferente al nostro esistere. Come è umano aspirare al Cielo,
a confondere le nostre deficienze in qualcosa di supremo, di bien haut: contemplazioni che annullino
le pochezze della contingenza. Sta in questa diaspora, in questa dualità, il
fatto del nostro esser-ci. Vivere a terra con lo sguardo vòlto all’oltre. Ma si
sa quanto il nostro sguardo sia miope e quanto non arrivi a superare la siepe
che ci delimita. Ed è proprio da una realtà che si fa verità, dalle gioie che
questa può offrire che Domenico prende la linfa ardente per il suo canto. Un
canto che contiene tutta la forza di un terreno che fa del contingente un
frutto dell’aldilà. Ma persino per un credente è scomodo confrontarsi col tempo
e con la morte, dacché è la terra con tutta la sua generosità di suoni e
colori, di affetti e di presenze a tenerci radicati: “Non so quando, Tesoro,
non so quando,/ ma presto dovrò lasciare questo mondo!/ Inutile tentare
immaginarlo/ allor che avrai i miei anni”. Ed è così che ancora di più l’Autore
ci coinvolge: lo fa dando al suo verso il compito non solo di narrarlo ma
soprattutto di perpetrare, con richiami foscoliani, una storia, una saga di
affetti, di amore, e di esistenze da tramandare. A Riccardo il titolo e due i sottotitoli: il primo, con valenza
eponima, il secondo Per gli altri che
verranno. Un “Poema” che si distende con urgenza emotiva su uno spartito di
polisemica affettività, di polimorfica connessione fra dire e sentire. Dacché
mai il Poeta fa traboccare la sua pienezza ontologica, la sua forte interiorità,
considerando, fra l’altro, la facilità con cui si potrebbe scadere, in certi
argomenti, in un sentimentalismo di scaduta stilistica. Qui tutto è arginato da
un verbo di grande valenza prosodica che evidenzia l’abitudine alla
frequentazione letteraria del Nostro.
Fa
da prodromico avvio la foto di Roberto e Gabriella (figlia del Poeta), gli sposi
che doneranno il frutto dell’amore:
Ho consegnato allo sposo
la mia perla più preziosa;
davanti a Dio gliel’ho
consegnata.
(…)
Sarà un’alba radiosa e nuova
sopra una terra piena di
germogli (La perla più preziosa).
Tutto
si fa radioso e splendente; la natura gioisce e si rende partecipe con i suoi
germogli dell’evento miracoloso;
destinato a rinvigorire il futuro di Defelice.
Si
succedono, così, temi che riguardano la crescita di Riccardo:
da Il primo dente:
Per poco ancora. In bocca la
corona
neppure intera brillerà
che avrai compreso già tanti
perché…
al
Sorriso legato alle galassie:
(…)
Anche noi tutti siamo stati
angeli
all’alba della vita, poi negli
anni contorta!
Breve è nell’uomo l’innocenza…
da
La prima volta:
(…)
A chiamarmi nonno
è stato per telefono, dal mare
di Puglia arroventata.
(…)
Se La vita è sogno
- come scrive Calderón –
ed è un sogno la vita,
questi momenti dolcissimi
sono la sua poesia,
la rendono infinita,
fino
a Meghi (il cane scomparso)
Sempre al centro dei nostri
giochi
gli animali:
la scimmia, il coccodrillo,
Topolino,
il gatto verde, la nera
formica…
Ma, sopra tutti, un cane
peluche
da te posto a guardia di un
club segreto
(non permetti lo chiami Meghi,
come a dissacrarne la
memoria),
ma
non senza riferimenti all’uomo, alle sue pecche, e alle sue deviazioni. Quindi
con sfumature sociali e civili che si fanno urgente valore aggiunto all’opera:
(…)
Sappi che il mondo
sarebbe calma e dolce una
placenta
se gli umani, a vicenda,
poi si confortassero,
se combattessero solamente il
Male
partendo da se stessi, se,
poi,
a vicenda non si divorassero (La
divina matrioska).
La
seconda sezione, più breve, di appena cinque composizioni, si apre con la foto del figlio Stefano con la
compagna Emanuela:
(…)
Astate e stupende le ragazze,
ma tu
conquistato hai la Perla di
Labuan,
agile e scattante come una
pantera.
Bella, orgogliosa, altera,
le punte dei capelli corvini
le si attorcono come alle
Meduse;
spille lucenti sono gli occhi
neri.
(…)
Ed
è qui la conferma di un Poeta credente; la verticalità di un uomo attaccato
alla vita, alle sue Bellezze, fisiche, spirituali e naturali. Di un uomo che sa
levare lo sguardo al Cielo, per ringraziarlo, non solo per la fede che gli ha
concesso, ma soprattutto per i grandi doni carnali in cui vede il simbolo del
suo prosieguo:
Non morirò del tutto.
(…)
Alberi voi sarete
a porgere frescura alle mie
ossa,
a coprirmi di odori.
La
natura con tutta la sua potenzialità cromatico-sonora fa da volume ai
sentimenti dell’Autore. È ad essa che Egli si rivolge per dare visività
fenomenica ai suoi stati d’animo; ed i versi, attraverso importanti
significanti metrici, si fanno tatuaggi di un sentire crescente da romanza
rossiniana:
Tu non lo sai,
ma tutti trepidiamo
perché tu venga
nell’azzurro sperato,
nel verde immacolato
di questo orrendo sasso
ch’è la terra
(Perché tu venga).
Un
climax che drizza le vele al porto della vita, al miracolo della sua presenza;
perché è ad essa che Defelice volge lo sguardo e l’anima; ed è alla Poesia che
affida il sacrosanto compito di farne un inno da consegnare all’amore, alla
Storia:
Vedrò la luce con i vostri
occhi,
i colori, le forme,
le tante meraviglie strepitose…
Nazario
Pardini
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