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giovedì 2 luglio 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "CONGIUNZIONI E RIMARGINATURE" DI G. VETROMILE




Giuseppe Vetromile: Congiunzioni e rimarginature. Scuderi Editrice. Avellino. 2015. Pg. 64

 Tramandare ai posteri il respiro dei  predecessori per i quali è stato possibile il nostro presente 

Siamo solo forme in cammino
rimarginati dalla voce dei nostri padri
 noi come ferite aperte alla morte
forse un giorno rivivremo

Giuseppe Vetromile, capitano di lungo corso nel mare della poesia, si presenta con questa nuova silloge dal titolo Congiunzioni e rimarginature, che fa da antiporta, da prodromico invito alla lettura di un tema molto vicino al sentire di ognuno di noi, dacché la questione del tempo, con tutte le sue implicazioni  umane e disumane, è il nocciolo centrale della nostra esistenza; il motivo determinante dell’inquietudine dell’uomo di fronte al tutto; di fronte agli orizzonti che demarcano i  confini oltre i quali è difficile azzardare sguardi per la miopia del nostro esistere; “L’homme est un milieu entre rien e tout” afferma Pascal; un essere che vive col desiderio della pluralità e con la coscienza della sua pochezza; una dualità determinata proprio da questa odeporica ricerca, dalla inconsistenza del nostro breve soggiorno.
Questi versi incipitari danno da subito un’idea della ricerca impellente della poesia di Vetromile. Una poesia morbida, ampia, zeppa di verbi che allungano i loro significanti alle questioni dell’essere e dell’esistere; alle mancanze, assenze, o presenze delle persone più  care per ricuperare l’irrecuperabile, dacché le parole non dette, o gli abbracci non compiuti lasciano un amaro inquietante nei giorni a venire; in quei tempi residui alle sottrazioni della sorte; anche se riavvolgere il nastro dell’esistenza significa ri-vivere, ri-afferrare suoni e sentimenti, gesti e contatti che danno luce a sere decadenti  “Dovevo dirlo a mio padre/ ed ora lo dico alla mia ombra renitente”. Sono ombre quelle che ci portiamo dietro, ombre che rendono triste il nostro percorso, la nostra storia. Un tragitto che, nel caso dell’Autore, si fa pieno e oggettivo; polimorfico e plurale; fatto di tappe in cui ognuno si ritrova. In fin dei conti ciascuno di noi è cosciente “ che la vita è angusto spazio da riempire/ è tempo da passare brevemente”. E’ il tempo prestato dalla morte. Si  patisce di questa brevità, di questa fragilità, di questa inconsistenza del presente. E’ da qui che nasce il desiderio di allungare la vista oltre quegli orizzonti che delimitano il fatto di esistere. Si ricorre alle memorie, l’unico sistema di vincere la morte, per allungare il tiro. Per riportare alla luce segmenti e spezzoni sepolti dall’oblio. Parole non dette, sottrazioni di affetti, immagini che tornano vive a chiedere i perché della vita. Ed è qui che il Poeta sa raggiungere momenti di urgente freschezza lirica. Non è forse umano misurarci con i granelli della clessidra? spingere i nostri intenti oltre la siepe che ci misura? A volte tali travagli esistenziali ci portano a smarrire l’identità in cieli smisurati, senza fine; o in mari i cui orizzonti vanno ben oltre quella striscia di un faro che ci è consentito di vedere. Una poesia ampia e meditata, forte e di ontologica tensione, quella del Nostro, che, con le sue ondivaghe ondulazioni, riesce ad agguantare gli input emotivi dettati da una storia; quella in cui presente passato e futuro si embricano indissolubilmente per dare forma al logos della poesia; per dare motivo di validità ad una presenza che vuole connettere un alito autunnale a una visionaria rinascita primaverile. Un volo di intensa rivisitazione per creare connessioni fra quello che siamo, quello che siamo stati, e quello che saremo. La direi la poesia del tempo, dacché il Poeta è tutto preso dalle sacre memorie, dal dilemma sulla fine o il prosieguo di quella sacca zeppa delle vicissitudini non fagocitate dall’oblio, e fattesi storia; dall’intento di tramandare ai posteri il respiro dei  predecessori per i quali è stato possibile il suo presente. Ma, al contempo, è cosciente che breve sarà il segmento in cui gli è toccato di esistere; un presente che presto finirebbe negli artigli dell’oblio se non tentasse con tutte le sue energie poetiche di vincerla questa sottrazione per offrire così ai valori il terriccio fertile per farli crescere “..Il distintivo del genio è la memoria universale.. L’inconscio è il tempo.. La memoria rende atemporali le esperienze.. Se non esistesse l’atemporale, non ci sarebbe alcuna intuizione del tempo..” (Weininger). E l’unico rimedio per uscire indenni da questa impari competizione è ricorrere ai ricordi; riportarli a vita, dare loro consistenza dacché sono proprio essi a chiederci di tornare alla luce; una plenitudo vitae; pensiero caro a un pensatore del primo Medioevo cristiano Severino Boezio. Questi ne La consolazione della filosofia attribuiva tale condizione solo a Dio, vita senza fine: “cui neque futuri quicquam absit nec preteriti fluxerit” (nulla del futuro può essere assente, nulla del passato potrà essere svanito). E qui, in questo “Poema” c’è tutta questa pienezza, questa plurivocità esistenziale fatta di meditazioni, di Congiunzioni e rimarginature; fatta di sollecitazioni introspettive che comportano un confronto trasversale con tutto ciò che riguarda il rapporto della vicenda umana col tempo. Antiche primavere di suoni e melodie, di volti e di sorrisi in cui tutto era eterno, e la felicità presenza. Una lotta corpo a corpo fra memoria e dimenticanza, dacché questa, al fin fine, è destinata ad avere ragione; riesce a fagocitare le cose più care a cui siamo appigliati; e che vorremmo portare con noi oltre il guado. E magari ci accorgiamo troppo tardi che le parole non dette ci stanno addosso come massi pesanti:

(…)
… Cantavi
la gioia dei figli

e per te, e per Dio, suonatore
scalzo nell’anima,
innalzavi nenie al paradiso.

Mai più sciolto
Nel ghiaccio della mente,
levita ancora
l’ultimo tuo respiro
leggero nel cielo: un ànsito
tra mille note di clarino (Il suonatore di clarino).

La vita è impietosa e ti mette davanti a dolori che ti squarciano il petto e che mai avresti pensato di vivere:

(…)
Ora io mi nutro della tua aria misteriosa
vagante per mille e mille notti musicali
in una laguna di canti melodiosi
dove il tuo clarino era scettro di re
e strumento di vita avventurosa.

O Signore, se Tu veramente sei l’alfa di ogni cosa,
anche di queste squattrinate melodie di padre,
Ti prego di riunirmi a loro, integrate
dal Tuo enigma di luce, quando sarà l’ora
del gran rimescolìo di terra e cielo
nell’omega del mondo.

Pienezza ontologica di cielo e terra, dove l’Autore, preso per mano da un input emotivo di grande carica esistenziale, è al Signore che rivolge una preghiera di un lirismo di urgente sensibilità. E’ in questi casi che, dimentichi dell’ora e del giorno, ci affidiamo ad una totalità edenica, ad una visione oracolare in cui ogni tempo concorre all’energia del “Poema”. Ad un lirismo pacato e generoso, fluido e contaminante per la sua intensa umanità, nutrito di immagini e di odeporici intenti. E d’altronde la buona poesia attinge dal pozzo delle cose rievocate, di quelle che hanno decantato nell’anima e che, dopo lunga macerazione,  si ripresentano nuove ed arricchite di pathos.
Una silloge che, volta al ricupero, alla conservazione, a riprendersi in mano le cose più semplici e familiari delle persone più care al Poeta, si distende su uno spartito retto da declinazioni testimoniali e timbriche. Sono il padre e la madre gli attori principali del Poema e le loro vicende sono narrate partendo da concreti minimalismi: clarini, diari stracolmi di scritti,  manti di lana, conchiglie di mare, terrazzi sgretolati, angeli in cieli stellati, quadri immobili nel tempo, scorci di primavere, vecchi fazzoletti, cravatte mai messe. Luoghi, angoli, oggetti, casa e dintorni, dove “mi appiattisco dunque sul pavimento per sentire meglio/ il suono della terra proveniente dall’altra parte/ della mattonella …” e dove l’Autore tutto tende a ricuperare per sottrarlo alla voracità  dei tramonti. Tante realtà fenomeniche di grande forza esplorativa; di effettiva rilevanza comunicativa che concretizzano le folgorazioni dell’anima di Vetromile con azzardi allusivi di generosa vis creativa:

 Mia madre aduna ancora le sue forze
in questa baracca d’ossa che le è rimasta
frastagliata dalla vita in giù
e scricchiolante e in bilico
sui novantenni e passa
della sua esistenza … (Mia madre aduna ancora le sue forze).

La madre aduna ancora le sue forze nella baracca d’ossa rimasta. Un realismo di memoria capassiana, a volte spietato, ma mai pessimistico. Dacché il Poeta guarda, osserva e descrive; naturalmente intingendo la penna in un animo a volte disincantato, a volte mischiato, a volte profondamente coinvolto in quelli che sono i fatti e i misfatti della vita. Mai scade in sentimentalismi di bassa lega, o in messaggi parenetici da cattedra, né, tanto meno, in epigonismi da scuola. Qui, evitando l’insidia dei luoghi comuni, tutto si dispiega in una struttura morfosintattica personale, e incisiva. Dove il verbo si fa complice di una metaforicità suadente e suasiva. Un verbo che, fra l’altro, riesce a trasferire il Poeta oltre; sì, oltre le magre magagne della terra, oltre i millenari perché:

(…)
Sciama lontano uno sfilaccio d’anima
e così noi un piede dentro la stanza
una mano fuori tesa
verso l’oltre
in equilibrio instabile
crollerò alla prima morte condominiale
sbalordito sul pianerottolo e incredulo
che si possa così facilmente attraversare
l’abbaino

rovesciarsi nel nulla e
volare verso il centro del creato

raggiungere un inimmaginabile Dio

mai visto pur stando
di notte
sul tetto a trasalire (Dentro casa).

Nazario Pardini 








































1 commento:

  1. Carissimo, dirti grazie è poco!
    Ho lasciato un commento ma non so se funziona... te lo trascrivo qui di seguito:

    Desidero ringraziare il carissimo Nazario Pardini per l'approfondita e particolareggiata nota di lettura che ha voluto dedicare al mio ultimo libro. Con tutta la sua anima di poeta e la sua grande competenza di critico letterario, ha subito individuato i principali temi essenziali del mio modesto lavoro. Ancora grazie e un abbraccio fraterno.
    Pino Vetromile

    Bene, alla prossima e ancora grazie, un caro abbraccio!
    Pino

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