Giuseppe
Vetromile: Congiunzioni e rimarginature. Scuderi
Editrice. Avellino. 2015. Pg. 64
Tramandare ai posteri il respiro dei predecessori per i quali è stato possibile il nostro presente
Siamo solo forme in cammino
rimarginati dalla voce dei
nostri padri
noi come ferite aperte alla morte
forse un giorno rivivremo
Giuseppe Vetromile, capitano di lungo corso nel
mare della poesia, si presenta con questa nuova silloge dal titolo Congiunzioni e rimarginature, che fa da
antiporta, da prodromico invito alla lettura di un tema molto vicino al sentire
di ognuno di noi, dacché la questione del tempo, con tutte le sue
implicazioni umane e disumane, è il
nocciolo centrale della nostra esistenza; il motivo determinante
dell’inquietudine dell’uomo di fronte al tutto; di fronte agli orizzonti che
demarcano i confini oltre i quali è
difficile azzardare sguardi per la miopia del nostro esistere; “L’homme est un
milieu entre rien e tout” afferma Pascal; un essere che vive col desiderio
della pluralità e con la coscienza della sua pochezza; una dualità determinata
proprio da questa odeporica ricerca, dalla inconsistenza del nostro breve
soggiorno.
Questi versi incipitari danno
da subito un’idea della ricerca impellente della poesia di Vetromile. Una
poesia morbida, ampia, zeppa di verbi che allungano i loro significanti alle
questioni dell’essere e dell’esistere; alle mancanze, assenze, o presenze delle
persone più care per ricuperare
l’irrecuperabile, dacché le parole non dette, o gli abbracci non compiuti lasciano
un amaro inquietante nei giorni a venire; in quei tempi residui alle
sottrazioni della sorte; anche se riavvolgere il nastro dell’esistenza
significa ri-vivere, ri-afferrare suoni e sentimenti, gesti e contatti che
danno luce a sere decadenti “Dovevo
dirlo a mio padre/ ed ora lo dico alla mia ombra renitente”. Sono ombre quelle
che ci portiamo dietro, ombre che rendono triste il nostro percorso, la nostra
storia. Un tragitto che, nel caso dell’Autore, si fa pieno e oggettivo; polimorfico
e plurale; fatto di tappe in cui ognuno si ritrova. In fin dei conti ciascuno
di noi è cosciente “ che la vita è angusto spazio da riempire/ è tempo da
passare brevemente”. E’ il tempo prestato dalla morte. Si patisce di questa brevità, di questa
fragilità, di questa inconsistenza del presente. E’ da qui che nasce il
desiderio di allungare la vista oltre quegli orizzonti che delimitano il fatto
di esistere. Si ricorre alle memorie, l’unico sistema di vincere la morte, per
allungare il tiro. Per riportare alla luce segmenti e spezzoni sepolti dall’oblio.
Parole non dette, sottrazioni di affetti, immagini che tornano vive a chiedere
i perché della vita. Ed è qui che il Poeta sa raggiungere momenti di urgente
freschezza lirica. Non è forse umano misurarci con i granelli della clessidra?
spingere i nostri intenti oltre la siepe che ci misura? A volte tali travagli
esistenziali ci portano a smarrire l’identità in cieli smisurati, senza fine; o
in mari i cui orizzonti vanno ben oltre quella striscia di un faro che ci è
consentito di vedere. Una poesia ampia e meditata, forte e di ontologica
tensione, quella del Nostro, che, con le sue ondivaghe ondulazioni, riesce ad
agguantare gli input emotivi dettati da una storia; quella in cui presente
passato e futuro si embricano indissolubilmente per dare forma al logos della
poesia; per dare motivo di validità ad una presenza che vuole connettere un
alito autunnale a una visionaria rinascita primaverile. Un volo di intensa
rivisitazione per creare connessioni fra quello che siamo, quello che siamo
stati, e quello che saremo. La direi la poesia del tempo, dacché il Poeta è
tutto preso dalle sacre memorie, dal dilemma sulla fine o il prosieguo di
quella sacca zeppa delle vicissitudini non fagocitate dall’oblio, e fattesi
storia; dall’intento di tramandare ai posteri il respiro dei predecessori per i quali è stato possibile il
suo presente. Ma, al contempo, è cosciente che breve sarà il segmento in cui
gli è toccato di esistere; un presente che presto finirebbe negli artigli
dell’oblio se non tentasse con tutte le sue energie poetiche di vincerla questa
sottrazione per offrire così ai valori il terriccio fertile per farli crescere “..Il
distintivo del genio è la memoria universale.. L’inconscio è il tempo.. La
memoria rende atemporali le esperienze.. Se non esistesse l’atemporale, non ci
sarebbe alcuna intuizione del tempo..” (Weininger). E l’unico rimedio per uscire indenni da questa impari
competizione è ricorrere ai ricordi; riportarli a vita, dare loro consistenza
dacché sono proprio essi a chiederci di tornare alla luce; una plenitudo vitae;
pensiero caro a un pensatore del primo Medioevo cristiano Severino Boezio.
Questi ne La consolazione della filosofia
attribuiva tale condizione solo a Dio, vita senza fine: “cui neque futuri
quicquam absit nec preteriti fluxerit” (nulla del futuro può essere assente,
nulla del passato potrà essere svanito). E qui, in questo “Poema” c’è tutta
questa pienezza, questa plurivocità esistenziale fatta di meditazioni, di Congiunzioni e rimarginature; fatta di
sollecitazioni introspettive che comportano un confronto trasversale con tutto
ciò che riguarda il rapporto della vicenda umana col tempo. Antiche
primavere di suoni e melodie, di volti e di sorrisi in cui tutto era eterno, e
la felicità presenza. Una lotta corpo a corpo fra memoria e dimenticanza,
dacché questa, al fin fine, è destinata ad avere ragione; riesce a fagocitare
le cose più care a cui siamo appigliati; e che vorremmo portare con noi oltre
il guado. E magari ci accorgiamo troppo tardi che le parole non dette ci stanno
addosso come massi pesanti:
(…)
… Cantavi
la gioia dei figli
e per te, e per Dio, suonatore
scalzo nell’anima,
innalzavi nenie al paradiso.
Mai più sciolto
Nel ghiaccio della mente,
levita ancora
l’ultimo tuo respiro
leggero nel cielo: un ànsito
tra mille note di clarino (Il
suonatore di clarino).
La
vita è impietosa e ti mette davanti a dolori che ti squarciano il petto e che
mai avresti pensato di vivere:
(…)
Ora io mi nutro della tua aria
misteriosa
vagante per mille e mille
notti musicali
in una laguna di canti
melodiosi
dove il tuo clarino era
scettro di re
e strumento di vita
avventurosa.
O Signore, se Tu veramente sei
l’alfa di ogni cosa,
anche di queste squattrinate
melodie di padre,
Ti prego di riunirmi a loro,
integrate
dal Tuo enigma di luce, quando
sarà l’ora
del gran rimescolìo di terra e
cielo
nell’omega del mondo.
Pienezza
ontologica di cielo e terra, dove l’Autore, preso per mano da un input emotivo
di grande carica esistenziale, è al Signore che rivolge una preghiera di un
lirismo di urgente sensibilità. E’ in questi casi che, dimentichi dell’ora e
del giorno, ci affidiamo ad una totalità edenica, ad una visione oracolare in
cui ogni tempo concorre all’energia del “Poema”. Ad un lirismo pacato e
generoso, fluido e contaminante per la sua intensa umanità, nutrito di immagini
e di odeporici intenti. E d’altronde la buona poesia attinge dal pozzo delle
cose rievocate, di quelle che hanno decantato nell’anima e che, dopo lunga
macerazione, si ripresentano nuove ed
arricchite di pathos.
Una
silloge che, volta al ricupero, alla conservazione, a riprendersi in mano le
cose più semplici e familiari delle persone più care al Poeta, si distende su
uno spartito retto da declinazioni testimoniali e timbriche. Sono il padre e la
madre gli attori principali del Poema e le loro vicende sono narrate partendo
da concreti minimalismi: clarini, diari stracolmi di scritti, manti di lana, conchiglie di mare, terrazzi
sgretolati, angeli in cieli stellati, quadri immobili nel tempo, scorci di
primavere, vecchi fazzoletti, cravatte mai messe. Luoghi, angoli, oggetti, casa
e dintorni, dove “mi appiattisco dunque sul pavimento per sentire meglio/ il
suono della terra proveniente dall’altra parte/ della mattonella …” e dove
l’Autore tutto tende a ricuperare per sottrarlo alla voracità dei tramonti. Tante realtà fenomeniche di
grande forza esplorativa; di effettiva rilevanza comunicativa che concretizzano
le folgorazioni dell’anima di Vetromile con azzardi allusivi di generosa vis
creativa:
Mia
madre aduna ancora le sue forze
in questa baracca d’ossa che
le è rimasta
frastagliata dalla vita in giù
e scricchiolante e in bilico
sui novantenni e passa
della sua esistenza …
(Mia madre aduna ancora le sue forze).
La
madre aduna ancora le sue forze nella baracca d’ossa rimasta. Un realismo di
memoria capassiana, a volte spietato, ma mai pessimistico. Dacché il Poeta
guarda, osserva e descrive; naturalmente intingendo la penna in un animo a
volte disincantato, a volte mischiato, a volte profondamente coinvolto in
quelli che sono i fatti e i misfatti della vita. Mai scade in sentimentalismi
di bassa lega, o in messaggi parenetici da cattedra, né, tanto meno, in
epigonismi da scuola. Qui, evitando l’insidia dei luoghi comuni, tutto si
dispiega in una struttura morfosintattica personale, e incisiva. Dove il verbo
si fa complice di una metaforicità suadente e suasiva. Un verbo che, fra
l’altro, riesce a trasferire il Poeta oltre; sì, oltre le magre magagne della
terra, oltre i millenari perché:
(…)
Sciama lontano uno sfilaccio
d’anima
e così noi un piede dentro la
stanza
una mano fuori tesa
verso l’oltre
in equilibrio instabile
crollerò alla prima morte
condominiale
sbalordito sul pianerottolo e incredulo
sbalordito sul pianerottolo e incredulo
che si possa così facilmente
attraversare
l’abbaino
rovesciarsi nel nulla e
volare verso il centro del
creato
raggiungere un inimmaginabile
Dio
mai visto pur stando
di notte
sul tetto a trasalire
(Dentro casa).
Nazario Pardini
Carissimo, dirti grazie è poco!
RispondiEliminaHo lasciato un commento ma non so se funziona... te lo trascrivo qui di seguito:
Desidero ringraziare il carissimo Nazario Pardini per l'approfondita e particolareggiata nota di lettura che ha voluto dedicare al mio ultimo libro. Con tutta la sua anima di poeta e la sua grande competenza di critico letterario, ha subito individuato i principali temi essenziali del mio modesto lavoro. Ancora grazie e un abbraccio fraterno.
Pino Vetromile
Bene, alla prossima e ancora grazie, un caro abbraccio!
Pino