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mercoledì 1 luglio 2015

LORENA TURRI SU "L'INFINITO" DI GIACOMO LEOPARDI



Lorena Turri collaboratrice di Lèucade


L'INFINITO DI GIACOMO LEOPARDI

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.



Ogni volta che rileggo “L’infinito” leopardiano, mi sovviene un haiku del grande Matsuo Basho che, tradotto, recita così:

“quando io guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe”

mentre in lingua originale è:

“yoku mireba
nazuna hana saku
kakine kana”

Ciò che mi riconduce a Leopardi è quel verbo, “mireba (guardare attentamente)” così simile, anche foneticamente, al suo “mirando” e col medesimo significato che, allo stesso modo, sprigiona stupore e meraviglia. Leopardi come Basho riesce a vedere quel “di più” che altri non vedono. Questa è la sensibilità funzionale del poeta: uno sguardo attento e illuminato sulle cose che permette di oltrepassare ogni apparenza sino a raggiungerne l’essenza.
Il nazuna è un fiore banale, quasi disprezzabile perché considerato una pianta infestante, come la gramigna, eppure Basho, quando lo vede prova ammirazione (determinata da quel “kana”, che in giapponese è una particella esclamativa) e si rende conto di quanta “divina gloria” possiede quel piccolo fiore se in esso si può vedere il mistero abissale della vita o dell’essere. 
Scriveva Tennyson:

“Fiore che spunti dal muro screpolato,
Io ti colgo dalla fessura; –
Ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
Piccolo fiore – ma se potrò capire
Ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
Saprò che cosa sono Dio e l’uomo.”

A differenza di Tennyson, che per comprendere ha bisogno di ”sradicare” il fiore, di possederlo incurante persino della vita del fiore stesso, Basho si limita ad una serena e pacata contemplazione nella quale il mistero del nazuna si rivela per quello che è, senza alcun bisogno di spiegazioni o ulteriori parole. La vita si dà, così, interamente, nell’atto stesso dello stare in essa. 
I due diversi approcci sono determinati, ovviamente dalle due diverse mentalità: quella occidentale di Tennyson e quella orientale di Basho.
L’atto contemplativo e risolutivo leopardiano è, a mio avviso, molto più vicino alla sensibilità orientale:
il “guardo è escluso”, dice il Poeta, “ma…”. E con una avversativa s’introduce in quell’atto di pacata (sedendo) e attenta contemplazione (mirando) per cui “il guardo” non è più “escluso” ed anzi si apre alla visone di “interminati spazi” e persino alla visione di ciò che non si può vedere (semmai udire), ovvero di “sovrumani silenzi” oltre la siepe (“di là da quella”). Lo spaurirsi del cuore è un esclamativo un po’ come lo è il “kana” di Basho. Non è sgomento, e lo dice con quel “ove per poco” ma, quasi certamente l’ammirata meraviglia, a sbigottire il cuore.


Lorena Turri

1 commento:

  1. Meravigliosa questa interpretazione critica della poesia più famosa di Giacomo leopardi, effettuata da Lorena, creando un parallelo con Basho e con Tennyson... Ella mette in luce quanto sarebbe riduttivo leggere il componimento in chiave mistico - religiosa. Il linguaggio della mistica é richiamato dalla metafora del 'mare' in cui l'io 'naufraga'. Ma in realtà non é ravvisabile nel testo alcun accenno a una dimensione trascendente, sovrannaturale. L'Infinito non ha le caratteristiche del divino e Leopardi nello Zibaldone lo esclude in modo chiaro: "L'infinità dell'inclinazione dell'uomo é un'infinità materiale". Non solo, ma questo 'infinito' non é oggettivo, ontologico, bensì tutto soggettivo, creato dall'immaginazione dell'uomo - "io nel pensier mi fingo" - , ed é evocato a partire da sensazioni fisiche , in chiave prettamente sensistica, come di derivazione sensistica é la riflessione del piacere misto a paura provocato dall'immaginazione dell'idea dell'infinito. Con questo non si può del tutto escludere una componente mistica nella poesia: bisogna, però, supporre che essa sia radicata negli strati più profondi della personalità leopardiana, e che, per arrivare a esprimersi, debba passare attraverso le forme culturali acquisite dal poeta, sensistiche e materialistiche, conformandosi a esse e subendo una decisiva trasformazione, che muta volto agli impulsi originari.
    Ringrazio l'amica Lorena per avermi concesso di tornare sui passi di questa lirica e il Professor Pardini che ci ospita sul suo Scoglio ricco di conoscenze.
    Maria Rizzi

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