Sergio
Pasquandrea: Oltre il margine. Fara Editore. Rimini. 2015. Pg. 64. € 10,00
(…)
Ma ecco di nuovo mi sono
perso:
dimentica tutto ciò che ho
detto
è tutto inutile come al solito
il senso è oltre il margine
delle parole nel bianco
indiviso
della pagina vuota.
(Oltre il margine).
È
da qui che mi piace iniziare questo mio scritto sulla plaquette di Sergio Pasquandrea.
Da una poesia che, tratta dalla quinta sezione del testo, si pone, nella sua
prosaica distensione, come momento focale con valore eponimo. Oltre il margine: quella linea di
demarcazione che ci chiude in ambiti ristretti da cui vorremmo svincolarci per
aprire lo sguardo oltre gli orizzonti del nostro precario essere umani. E il
poeta vede la sua fragilità nel potere della stessa parola. Invenzione umana
virtuale e troppo terrena. D’altronde l’uomo in quanto tale ambisce sottrarsi a
questo circuito vizioso; a questo condizionamento temporale, che dà l’idea di
quanto il nostro esser-ci sia un dono prestato dalla morte. Ma il verbo non
sarà mai sufficiente a concretizzare totalmente gli azzardi ontologici vòlti a
cogliere i grandi spazi che vanno oltre il lemma di una architettura lessicale.
Sta qui l’imbarazzo che il poeta prova nel confrontarsi con la plurivocità del
tutto. Una plaquette, quindi, di polivalente intrusione meditativa; un “poema”
che si distribuisce in un climax ascensionale di generosa tenuta stilistica,
dove il verso, con rattenute e espansioni, accompagna le inquietudini di
un’anima tutta volta a disossare un corpo per niente disponibile per la sua
tenacia neurale: “… E’ già tanto se arrivano dal piano/ di sopra le voci del sonno – figurarsi/ se
pretendo risposte. /Rivelazioni semmai./ Che sia ben altro l’amore/ lo sapevo già
da me…”. In definitiva dire che in questi versi c’è tutta intera la diatriba
emotivo-compositiva di una vita, il suo odeporico mistero, il suo intero
viaggio fatto di ambizioni irrisolte, di tappe che mai pervengono a quell’oltre
che ci eravamo proposti, non è certamente improprio. Dato che tutti i motivi
componenti il suo travaglio: amore, saudade, sentimento di precarietà,
memoriale, destino, “carne inchiodata al proprio corso”, “scheggia di luce/
inflitta alla paralisi”, meditazione e redde rationem, non sono altro che una
strada tortuosa su cui il nostro piede malsicuro inciampa spesso ritardando il
cammino per perdersi nel buio; anche se il Poeta è sorretto da una brama di
ricerca, da una curiosità di scoperta, e da una voce di epigrammatica indagine
tali da non annullarsi nell’oscurità de
la nuit, ma da “cercare nelle tenebre la luce” dacché “solo nella notte più
oscura brillano le stelle” (distico inciso sull’eremo benedettino di Subiaco).
Un percorso che inizia da minimalismi quotidiani, giornalieri; da piccole cose
che a prima vista sembrano niente, o solo scarti o usuali ingredienti del
nostro vivere; ma a cui il Poeta riesce a dare una tale valenza significante per
il suo iter filosofico che osservate, meditate, rielaborate o decantate da
tempo nel suo animo, si concretizzano in immagini di fresca poesia; in un
realismo a volte crudo:
Fra il termosifone e la
lavastoviglie
secerne il cartone del latte
la sua tristezza d’ippopotamo.
E’ scaduto l’abbonamento
e il comune si appresta a
derattizzare (Teleidoscopio),
ma
anche in un realismo che spesso si traduce in lirismo di urgente vicissitudine personale:
Lori in giardino con la
bicicletta
traccia spirali d’acqua sul
selciato:
il suo gioco è la scia
che subito svanisce
è la ripetizione del miracolo.
Il mio è in questi segni
scesi a macchiare il vuoto
a violare il silenzio (Il
vuoto),
dove
lo svanire e il riapparire, il macchiare il vuoto, e il violare il silenzio si
fanno ingredienti di una proficua metaforicità, che traducendosi in ampia e
prolungata allegoria, dànno luce al senso dell’eracliteo pantarei, e, al
contempo, al perpetrarsi di quel gioco intricato e complesso che è la vita.
(…)
In fondo lo sanno anche loro
è sempre o troppo presto o
troppo tardi
c’è sempre un passo in più o
in meno
una parola che non si fa in
tempo a dire.
Ci vorrebbe troppo per
spiegare
e anche così sarebbe tutto
sbagliato (La campanella).
E
questo è e resta il dilemma del nostro essere umani: vivere coi piedi a terra e
la mente volta ad un cielo che non ci appartiene.
Nazario
Pardini
grazie mille per la bella lettura.
RispondiEliminaè sempre un'esperienza affascinante vedere quale eco lasciano le proprie parole nella mente di un lettore.