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martedì 1 dicembre 2015

VITO LOLLI SU "OMERO ED ORFEO" DI FRANCO CAMPEGIANI

Vito Lolli collaboratore di Lèucade


Su “Omero ed Orfeo” di Franco Campegiani    

Quando pensavo ad una considerazione da proporre come commento sotto il tuo articolo, caro Franco, ero in superficie, ma poi ho riletto con più attenzione il tuo testo centrato su Omero ed Orfeo e ho sentito che lo spessore della questione richiedeva ben altro.
Forse non è così agevole contrapporre Ulisse ed Orfeo come archetipi di una diversa chiave di esperienza della realtà degli opposti. Bisogna, come in tutte le realtà mitiche, ricondurre per quanto possibile ogni percorso alle sue origini, fino alle nebbia del non-manifesto e, dunque, dell'impronunciabile.                    "Orfeo", le cui origini non sono decifrabili con un dove e un quando, non è altro che il possente canto tragico che preparava ed introduceva alla visione profonda del mistero eleusino, di cui il suo mitologema - la discesa negli "inferi" - è già un aspetto; quella visione, gli archetipi-seme del tempo, sono la verità nascosta di ogni storia e l’anima di ogni vero poetare. "Omero", che non vede ciò che narra, colloca il suo affresco dell'umanità nello scenario della guerra di Troia, ma nessuno dei suoi personaggi è storico: è mitico, cioè archetipo di ogni vicenda a venire nella storia di cui è seme.                                                                                  Orfeo dimentica il limite che Ade aveva stabilito e paga a caro prezzo il voler vedere ciò che non si può vedere: qual'è l'allusione ad un aspetto del viaggio nella psiche profonda che non si concede alla visione diretta?    Qual è la funzione psichica superiore perduta perché dimenticata, quindi per questo de-funta, di cui “Euridice” è metafora? C'è un rapporto tra questa mancata visione e l'origine della poesia nella forma del canto tragico?  Ed è dunque questo il richiamo tra la discesa agli inferi di Orfeo per recuperare Euridice e quella di Core-Persefone, che la poesia orfica evocava in preparazione del rito misterico eleusino?               Orfeo è sì un personaggio che manifesta la bivalenza dell’apollineo e del dionisiaco: il canto è alimentato dal dolore di quel limite che il dio (è Eraclito a suggerire che Dioniso e Apollo sono complementari e che Dioniso è Ade) concede alla prova, ma è un canto che non viene distrutto dalla distruzione del suo corpo perché è la musica a creare lo strumento e non viceversa. Omero stesso è una mancata visione e canta, appunto, ciò che non vede ma ascolta dal profondo: alla Musa, figlia della Memoria, chiede un canto, non una visione. Questa è troppo più profonda. Ed è una visione mancata il fallimento di Omero di fronte al celebre enigma dei pidocchi, fallimento che egli non sopporta e ne muore disperato.                                                                 Anche Odisseo (bisogna usare il suo vero nome, per rispondere alla sollecitazione di Balestriere) scende negli Inferi, vede chiunque senza conseguenze, ma questa esperienza profonda, concessa da Hermes che lo assiste per controllare il potere magico di Circe che poi gli indicherà la via da seguire, segna per sempre la sua differenza dagli altri uomini perché egli sa ciò che gli altri non sanno. Egli è ancora, nonostante tutto, in un rapporto diretto col divino, e questo è il suo potere ma anche la sua solitudine.                                         Il re guerriero non chiede indietro un sentimento perduto: non è Orfeo, un poeta cantore, non è un artista. Non deve rischiare l’errore di voler vedere il mistero dell’ispirazione, l’invisibile che non ha provenienza né direzione. Orfeo e Odisseo sono due contraddizioni proprio perché manifestano i poli di una diversa presenza ispiratrice del divino nella vita degli uomini: essi sono un’altra manifestazione dei contrari complementari Dioniso ed Apollo.                                                                         Il personaggio che davvero risulta come alterità dalla cifra di Odisseo è Achille, l’eroe invincibile la cui fine è compiuta da un gesto di Apollo: la freccia di Paride è guidata dove Paride non poteva sapere, il punto debole noto solo ad un dio, quello dalla visione totale. La cifra di Achille è l’assoluta fedeltà ad un codice d’onore che non conosce l’inganno, la menzogna e il trucco come strumenti di manipolazione della realtà per affermare un predominio; eppure Achille muore, la sua forza individuale non può sconfiggere Troia, ed è proprio il dio custode del segreto della sapienza, quello che dona le armi del lògos ma se ne tiene lontano, il dio dell’arco e della lira, a decretarne il congedo. Achille muore e Odisseo cambia la storia delle relazioni umane ideando l’inganno vincitore. Un altro tipo di eroe prende il posto dell’eroe giusto: d’ora in poi furbizia e menzogna, manifestazioni del lògos astratto, diventano cifre della possibilità umana di superare le avversità dell’esistenza, di compensare i limiti umani nel confronto con le forze naturali. Achille affronta la battaglia quotidiana nel rispetto delle regole stabilite dal dio, Odisseo sfida il dio stesso fino a sfruttarne la contraddizione: uno gli è a favore, un altro contrario. Achille è il suo nome e la sua fama, Odisseo arriva a disidentificarsi truccando il suo nome con uno straordinario enigma linguistico: “Odysseys” vuol dire “viandante” e si pronuncia “Odisèis”, mentre il famoso “Nessuno” risposto a Polifemo è quell’”Oudèis” che si pronuncia “Udèis”, simile nel suono al nome dell’eroe. Ecco qui un esempio perfetto di quel tratto sapienziale che è l’enigma: Polifemo, entità arcaica semibestiale lontana dagli uomini anche se figlio di un dio, immagine di quel tratto distintivo del dionisiaco che va dall’animale al dio, non è in grado di coglierne natura e potere e ne viene superato. E perfino ai divini stessi Odisseo ha il coraggio – o la folle spinta esaltata di un logos alla massima espressione – di mentire, mentre viene sempre più irresistibilmente attratto da qualsiasi mistero o fenomeno di fronte al quale gli uomini fuggono. Egli è l’annuncio dell’umanità a seguire: è lui, mito puro, l’archetipo della volontà di potenza? Abbiamo mai percorso in profondità il mito di Odisseo, Franco? C’è un Orfeo, il canto tragico dalla potenza interiorizzante irresisitibile, canto che nessuna forza inferiore può interrompere, che possa ri-evocare questa potenza? Anche Odisseo è legato ad un destino svelatogli da Tiresia, memoria profonda di un indovino cieco: non potrà fermarsi nella ritrovata patria, nel riaffermato dominio regale e nella riconquistata serenità familiare. L’orizzonte dei valori tradizionali viene travalicato già nel mito fondativo dell’uomo occidentale: Odisseo, il viandante, legato inscindibilmente al destino che gli viene rivelato dalla visione profonda nell’ “Ade”, vive la sete insopprimibile di conoscenza che lo spinge a non fermarsi. Ed è qui, Franco, che l’argomento va approfondito: se il mitologema di Odisseo il “viandante” è quello di un superamento della paura delle varie trappole della natura e delle creature intermedie, è quello del definitivo assunto del lògos e delle sue manifestazioni, dall’ingegno creativo alla menzogna e all’inganno, dobbiamo anche renderci conto del fatto che ci troviamo pur sempre all’interno della trama di un mito. E’ in un mito, cioè all’interno del mito stesso, che la nascita del lògos e, dunque, del percorso di questo dalla filosofia alla scienza viene narrata: peraltro, non possiamo scorgere in un aspetto di quello che è probabilmente il più antico ciclo mitico della grecità, quello cretese di Minosse e il Minotauro, Dedalo e Icaro, Teseo e Arianna, un chiaro e straordinario simbolismo della natura del lògos, e della ragione che lo manifesta, nell’immagine del labirinto come una dimensione affascinante, seduttiva, in apparenza possente e invincibile, ma nella quale si resta intrappolati? E non è sempre un intervento divino o semidivino a permettere la liberazione dalla trappola?

Dobbiamo quindi tentare un riorientamento: non esiste, non è mai esistita, come ripetono schematicamente e banalmente i nostri manuali scolastici, una “evoluzione” della psiche umana dalla fase “infantile” del mito a quella “evoluta” e “adulta” della ragione discorsiva. Il mito è il substrato sul quale e all’interno del quale gli eventi si svolgono in un tempo dato: ricordi il geniale dipinto di Magritte in cui egli si autoritrae mentre dipinge un uccello, ma sul tavolo ha come modello un uovo? Il mito è una trama, è la manifestazione prima di un seme del tempo che si svolge in una successione di eventi la cui logicità è latente ma “scritta”: questo è il senso del termine “Scrittura” quando viene usato nella letteratura sacra.                                    Non siamo mai usciti dalla’età mitica perché, senza considerare ora la periodica e regolare insorgenza di miti, una distinzione tra un’età “mitica” e una “non mitica” non significa niente: il mito non è che il linguaggio fondamentale dell’anima e la sua stessa natura creativa. Tutti esistiamo in una dimensione mitica perché siamo anima e chi ritiene esatta una distinzione tra mito e lògos come fossero funzioni in successione evolutiva non ha capito niente del mito pur essendovi immerso. Nella nostra abitudine a considerarci “civiltà cristiana” non dimentichiamo forse che Gesù di Nazareth, egli stesso possente realtà storica e mitica, ha creato quei racconti esplicativi dotati di potere di rimando simbolico che chiamiamo parabole? E le parabole di Gesù non sono, dunque, miti?                                                                           Se dunque è vero che non siamo mai usciti dal mito perché sarebbe cessare di essere anima, come dovremmo leggere il sentimento dello svuotarsi del lògos (l’angoscia erratica degli ultimi Poeti dell’Occidente) al culmine del suo potenziale (l’inarrestabile crescita dell’apparato tecnico comunicativo)? Non proliferano in quantità e complessità gli strumenti comunicativi mentre la comunicazione reale tra gli uomini, le relazioni umane, sono sempre più nel caos dell’oblìo e dell’involuzione?                                                  Non sapevamo che l’artificio di Dedalo per liberarsi dalle trappole della ragione diventa, nelle mani del giovane Icaro, l’ebbrezza mortale di dimenticare che sempre di un artificio limitato si tratta? Il gesto della liberazione dalla ragione che si fa trappola diventa l’ardimento smisurato che ci fa sfidare gli uccelli e il sole stesso – e il mito è, appunto, una misura, “La trama nascosta” – che – “è più necessitante di quella visibile”, per citare Eraclito. Ed è così ridicolo fare riferimento al mito di re Mida per vedervi l’esito del desiderio di trasformare tutto l’esistente in oro, cioè ridurre la natura a capitale e profitto? Non sappiamo se il gesto di Prometeo sia stato giusto o ingiusto. Sappiamo solo che è accaduto.     La ragione è diventata il suo stesso sonno: ciò che annunciò il suo stesso svolgersi si sta, come sempre, inesorabilmente compiendo. Ma l’aspetto più vero è sempre quello nascosto.      

Vito Lolli

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