Una plaquette intensa,
emotivamente umana, umanamente disumana, che, con versi brevi, secchi,
apodittici, e di urgente concretizzazione ontologica, cerca di agguantare tutto
il disagio di una scrittrice sensibile e inquieta davanti a: “Piccole schiere/ presto
ombre di fanciulli alteri/ nudi d’inerme giovinezza”. Sì, sono proprio i
bambini che attraggono lo sguardo sconcertato e
addolorato della Vincitorio. Ma non quelli che giocano allegri e
spensierati su prati verdi, su spiagge profumate di salmastri, al sole ridente sui loro capelli, o
rassicurati dallo sguardo delle madri. No! Questi fanciulli giocano alla
guerra; la giovinezza è stata loro strappata; rubata senza pietà alle loro
braccia, gambe, mani, ai loro cuori; le loro altalene o le loro fionde sono state
sostituite da fucili di morte e di sangue. Magari storditi da droghe vanno
spavaldi in prima linea incoscienti e ignari di quello che sono e non sono:
“Ignare le rane/ sopra ninfee giganti/ ti osservano: soldato/ non ancora
soldato/ ma con negli occhi/ viva fame di guerra,/ forse anche di gloria…”
(ibidem). I versi vanno svelti; devono correre per star dietro a sentimenti che
fluttuano a cascata; persino la punteggiatura non rispetta la canonica
grammatica; è d’intralcio per un cuore che palpita, che scalpita; per un cuore
tutto vòlto a gridare al mondo nefandezze esiziali; per confessare agli uomini
tutto il suo rammarico. Si tratta di bambini, spighe di grano non ancora
imbiondate dei refoli degli anni; su costoro il tema si fa contagiante,
straziante. Non si può scherzare su tanta indifferenza, su tanta disumanità. Ed
è così che la poetessa ricorre a stratagemmi di alta valenza figurata; di
palpabile significanza cromatica; di forte impatto significante ed
epigrammatico: panici ausili,
folgorazioni, potente creatività
per rendere le scene più visive e scottanti: “Betulle dalle foglie ovate,/
lisce, verde traslucido/ nella campagna coltivata a grano/ Ancora non maturo il tempo/ per la sua chioma
d’oro/…/ Nelle tue mani/ la mortale stretta/del kalashnikov/ Dove la tua
innocenza…” (Bambino in guerra). Un tessuto narrativo che sgorga fluente e
sonoro da un animo, addolorato e pietoso, verso primavere senza speranza: “Tu,
primavera/ non porti con te/ la speranza/ Quello che resta/ è luccicore
d’armi…” (ibidem). Un poetare dove una sola parola, scelta con acume e “onestà”
sabiana, è sufficiente a se stessa per un verso; dove la penna va da sola verso
Bambini invisibili, sofferenti Afriche, carestie di Niger, Mali, Mauritania; e
dove interrogativi inquietanti ci lasciano di stucco: “quando, gli aiuti
umanitari/ raggiungeranno le sofferte grida?” (Bambini invisibili). Ma
l’indifferenza copre spesso immagini che farebbero tremare il mondo. Sì, è
sufficiente un telecomando: si cambia canale, o si spegne il video, e il gioco
è fatto! Si torna ai nostri solipsismi, ai nostri ego infradiciati dalla vita
moderna fatta di consumo e occhi spenti: “Siamo sordi alle immagini/ non
emettono suoni e/ invocazioni d’aiuto/ Basta interrompere il video/ e spegnere la luce/ Tutto torna eguale” (
ibidem). E sono proprio quegli interrogativi iterati che colpiscono, come
frecce appuntite, tutti noi umani disposti ad essere bravi a chiacchiere, a
spavalderie, ma distanti quando l’umanità ci chiede di esserci: “Cosa porti negli occhi, bambino?/
Cosa porti sul cuore?/…/ Ci sarà un domani,/ un ritorno?” (Bambini abbandonati). Immagini di calda stagionatura: fresche azzurrità; quiete silente; frinire di
cicale; stoppie e giochi di luce; sì, tutto un ben d’Iddio che dovrebbe fare da
contorno a grida e guizzi gioiosi di bambini innocenti; ma qui si tratta di un
ossimorico gioco piuttosto triste e desolante: “Per queste ali d’angelo recise/
non basterebbe il mare/ Solo pietà rimane/ alle sue sponde” (Cronaca); un deprimente
gioco che chiama tutti noi mortali a una prece; a una meditazione; a un impegno
attivo, costruttivo; un parenetico invito alto e sublime a ché l’uomo torni
alla terra, ai suoi drammi, dopo le sue tante avventure spaziali: “E’ inutile per l’uomo
conquistare la luna, se poi finisce per perdere la terra”. (FranÇois Mauriac)
Nazario
Pardini
Nessun commento:
Posta un commento