Marisa
Papa Ruggiero: Jochanaan. Giuliano
Ladolfi Editore. Borgomanero. 2015. Pgg. 54. € 10,00
Poesia ampia, fluente, ondivaga, geometricamente disunita, sfrangiata,
dislocata su spazi asimmetrici, orizzontali, verticali per accompagnare, quale
spartito operistico di note altalenanti fra bassi ed acuti, un processo
poematico di urgente tenuta ontologica;
di vasta tensione epigrammatica che da un appiglio storico-biblico passa
ad un mondo di onirica creatività: Salomè, Jochanaan profeta, la "Danza dei sette veli",
Salomè che chiede di ricevere su un piatto d'argento la testa mozzata di
Jokanaan; la dissuasione inutile di Erode; la giovane che ne bacia la bocca
coperta di sangue; e Erode che, sdegnato, ordina ai soldati di ucciderla: “…
questa fame, Jochanaan, è/ un lento spogliarsi… / è entrare di stanza in stanza
in punta di piedi dove/ non fummo mai stati”. Una tragedia dal sapore misterico
resa immortale dalle note di Strauss su la Salomè di O. Wilde. Ho già avuto
occasione di leggere un’altra opera (Di volo e di lava) dell’Autrice e
sinceramente sono rimasto colpito dalla novità linguistico-verbale,
immaginifico-strutturale, e stlistico-figurativa della sua ars inveniendi. Una
ricerca operativa tesa a superare quello che è il modus operandi, per lo più,
della poesia contemporanea. Una volontà di andare al di là dei soliti contenuti
georgico-bucolici e della stessa semantica morfosintattica; ricerca
etimo-simbolica che si ripete in questo nuovo testo, e che si fa marchio di
fabbrica della Ruggiero. Mi piace ricordare un passaggio di quello che scrissi:
“… Un
corpo a corpo con uno spartito complesso e articolato, avvincente e toccante,
drammatico e diacronicamente poematico,
organico e linguisticamente nuovo per slanci emotivi, per vertigini paniche,
per quell’ossimorico gioco fra luce e buio, gioia e dolere, bene e male, vita e
morte che si fa il sale e il pepe della vicenda umana. Un primo sguardo dell’opera fa già da
prodromico avvio ad una lettura che può sconcertare i tranquilli frequentatori
del verso melodioso…”. Questo mi colpì; soprattutto, il linguismo crudo,
antilirico, segmentato, consono ad un contenuto altrettanto scabro; un giusto
equilibrio fra dire e sentire; quella compattezza estetica punto di riferimento
per gli scrittori che volgono lo sguardo ad uno dei punti focali della
classicità. Certamente, in questo caso, in maniera estremamente moderna, dato
che non è affatto improprio leggervi tracce di un correlativo oggettivo di
stampo eliotiano. Con le dovute differenze fra equilibrio di stretta
ispirazione personale, e al di fuori di ogni epigonismo quale quello della
Nostra, ed equilibrio di natura classica in cui il metro versificatorio, per lo
più endecasillabo, si fa gabbia di una creatività spesso raffreddata. E qui il
dipanarsi del canto è su un nuovo
spartito; il ritmo è più pressante; la fecondità dà più corpo e
consistenza alle immagini; il linguaggio più avvolgente per la sua aritmia, per
la sua forza icastico-visiva, per la sua energia rappresentativa; sembra
proprio, escludendo quella tendenza al simbolismo oggettivante proprio dello
stile della Scrittrice, di trovarci di fronte a un altro scenario; a una poesia
del tutto nuova che tende ad uscire dagli spazi e dai tempi in cui è
incastonato il nostro esistere. Piani diversi che si alternano e che si
sovrappongono in una stesura onirico-contemplativa, e scenico-teatrale, da
lasciare di stucco. Sogno e realtà, minimalismo e trasalimento si amalgamano in
un insieme di sinestetici incanti, di allegorici picchi, e di metaforiche
cospirazioni da rendere il tutto originale e in progress nei confronti della
precedente silloge. Ed è lo specchiarsi in altro, cercare altri volti ed altre
storie per costruire la propria identità; è la ricerca di un sé tramite luoghi,
tempi, configurazioni; sta qui il pathos che tormenta e inquieta l’iter odeporico
di questa navigazione. E tutto nell’ambito di un mortale incedere, nell’ambire
ad una luce totale, al di là di quella che illumina spazi ristretti di un mare
dai confini illimitati. E’ in questi giochi che si fa molto umana; nel
tentativo di ricostruire una identità in un mondo globalizzato,
spersonalizzato, disgregato e disgregante; in una società liquida (Baumann) di
viandanti sperduti (Cardarelli) in cui è difficile ritrovarsi, se non si cerca
nell’altro quella parte di noi che ci completi. La Poetessa immagina e sogna,
si illude e disillude, si tormenta e spera, come un semplice mortale in cerca
di spazi sufficienti a vincere la precarietà del vivere. Ed è in questa opera
tutta la linfa esistenziale della vicenda umana: vita, morte; terrenità, volo;
amore e sottrazione. Forse sta proprio nella simbiotica fusione delle questioni
eraclitee, delle contrapposizioni di memoria montaliana il senso di questo
poema; la sua novità intimistico-verbale; la sua stimolante vivacità; il suo
tragico epilogo non è altro che una conclusione che ognuno conosce ma che nessuno
si aspetta:
Nessuno vide la danza esangue
arretrare sui gradi
la lancetta cosmica mancare un battito
la cornacchia bianca spiccare il salto nel buio
Nazario
Pardini
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