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mercoledì 7 settembre 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "GIUSEPPE LEONE. D'IN SULLA VETTA..." NUOVA EDIZIONE



Giuseppe Leone: D’in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Grafiche Rusconi di Bellano. Lecco. 2016. Pg. 174. € 16,00


Già avevo scritto sulla prima edizione dell’interessante saggio dal titolo D’in sula  vetta della torre antica di Giuseppe Leone; dato alle stampe per i caratteri di Grafiche Rusconi di Bellano (Lecco) nel 2015, avevo posto attenzione sulle peculiarità comparative e filologiche di un Autore aduso alla Letteratura e ai suoi più reconditi misteri, che, sotto la penna del Nostro, vengono tradotti in realtà interpretative di personale polivalenza. Si tratta di una ricerca di portata creativa che già nel sottotitolo prodromico al tutto contiene un’esplicita connotazione: Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Mi sembra opportuno, a questo punto, proporre di nuovo il mio scritto per dare la possibilità ai lettori di Lèucade, che ancora non conoscessero il testo, di coglierne gli aspetti principali: “Affrontare una diagnosi comparativo-esegetica fra Leopardi e Carmelo Bene non è sicuramente cosa da tutti i giorni. Leopardi filosofo? Di sicuro no. Tra l’altro, non conosceva neppure i grandi del tempo tipo Kant o Hegel; semmai pseudo filosofo nel senso crociano, un ingorgo sentimentale, dacché la trama delle meditazioni leopardiane rivela un che di gracile e di disarmonico come la mancanza di sistematica scientificità, che è la più settecentesca delle sue caratteristiche. Sì, volle essere filosofo nel senso moralista; nell’accezione degli intellettuali dell’illuminismo francese, ai quali parve operazione fruttuosa nella misura in cui ci si impegnasse su concreti o spiccioli problemi di vita vissuta. Ma  veniamo al nocciolo; alla questione che Giuseppe Leone prende fin da subito in considerazione: quella dei suoni, delle voci, che caratterizzano sia la produzione del  recanatese che di Carmelo Bene; e l’aspetto della solitudine e del dolore, in Leopardi simboleggiato in un passero che trascorre, appartato e solitario, il tempo della sua giovinezza, da cui il titolo; in Carmelo Bene (nella Lectura Dantis), “a mo’ di agape schopenhaueriana – come lo stesso amava definire le sue performance – il compassionevole ricordo delle vite tragicamente spezzate nel capoluogo emiliano”, della strage di Bologna.  Interessante poi la lettura de L’infinito fatta con  l’apporto di citazioni di numerosi critici, tipo Paolo Marzocchi o Alberto Folin. Per cui il canto degli uccelli, il muggito dei buoi, il mormorio delle fronde o del ruscello, riportano ad un passato scomparso per sempre. In parole povere la malinconia leopardiana viene colta dietro il dileguarsi di una voce; la poeticità dell’assenza. In Carmelo Bene nel suono che si fa personaggio. E come in Leopardi il suono è a scapito del visivo, in Carmelo, sempre nella lettura di Dante,  riappare solo in veste di voce. Una ricerca puntigliosa e precisa convalidata da una dovizia di nomi autorevoli.  Tanti i punti in comune fra i due artisti: il loro dialogo con la civiltà presocratica; la difesa a favore della voce contro il “morto orale” dello scritto; le polemiche contro le correnti artistiche alla moda; i pensieri sulla lingua, sulla poetica, sui costumi; sul fatto di bandire qualsivoglia di ragionamento storicistico, al contrario di Platone che bandiva la poesia dalla sua repubblica. Carmelo, non credendo nel Dio dei Cristiani, e credendo nel demone,  esclude ogni possibilità di redenzione umana. L’inno ad Arimane conferma questa vicinanza fra i due per una visione anticristiana senza riscatti o sconti particolari. Il saggio continua nel capitolo due (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene: “geni senza talento”) con il tema del mancato riconoscimento di un Leopardi filosofo, per colpa, soprattutto, di una critica letteraria poco attenta. Ciò che è avvenuto per Carmelo Bene che si rivoltava a tutti coloro che continuavano a chiamarlo attore, definizione per lui riduttiva. Nel terzo capitolo viene preso in considerazione  il rapporto dei due con la religione. Da fanciulli e adolescenti sono stati religiosi a tal punto di avere persino servito Messa. Ma mentre il poeta volgerà sempre più verso un pessimismo  più acuto e radicale, l’altro tenderà verso il rifiuto dell’immagine, dacché si “osserva che il ritorno agli anni dell’infanzia religiosa è stato per lui  un motivo per raccontare come le effigi mariane … lo abbiano portato alla disillusa considerazione e al rifiuto di qualsiasi culto d’immagine…”. Per giungere al quarto capitolo, in cui si analizzano le peripezie critiche dei due geni nell’essere riconosciuti nella loro interezza   (Leopardi e Bene. Geni ma senza premi). Simili anche  qui per tutte le troncature che si sono tirati addosso fin dagli inizi. Numerose le testimonianze storiografiche addotte a supporto: da Vittore Branca, a Croce, ad altri che, almeno, hanno avuto il merito di averne parlato: Pietro Giordani, Giuseppe Montani, Vincenzo Gioberti, Alessandro Poerio; mentre  Giuseppe Mazzini “diede un giudizio stroncatorio”. Il solo critico “che darà al Leopardi il rilievo che meritava è stato il milanese Carlo Tenca, il quale vide nel poeta recanatese  <<l’erede della tradizione alfieriana-foscolilana…>>”. Solo fra le due guerre ci sarà un effettivo ripensamento sull’opera leopardiana, dacché fin dalle origini si parlava di un pessimismo acuto dovuto alla malattia. Interessanti gli studi di: Vossler, di De Robertis, di Saba, Cardarelli, Bacchelli, di Svevo, Brancati, Calvino… per giungere a Ungaretti e Montale il più vicino, forse, quest’ultimo, al pessimismo leopardiano. Così  Carmelo Bene “ha sempre avuto nei critici irriducibili nemici, ad eccezione di Arbasino, Pasolini, la Morante, Flaiano ed alcuni filosofi come Deleuze, Derrida, Lucan…”. L’opera si completa con il quinto ed ultimo capitolo (Leopardi e le  opere di Bene) di cui riportiamo la emblematica chiusura: “… Dunque, ascoltiamo D’in su la  vetta della torre antica; ascoltiamo, in tutta la sua sonorità , questo “… schiaffo impensabile ai millenni dell’espressione-logos-concetto”, come ebbe  a qualificarlo lo stesso Carmelo Bene, parlando delle sue rappresentazioni. Del Buono potrà  avere avuto le sue ragioni  per ritenere i geni ingombranti  e persino inutili, ma  hanno ragione anche i geni a pretendere di essere ascoltati, per non subire la dittatura di chi genio non è”.        
Un libro di grande interesse speculativo, nuovo, generoso, ricco di riferimenti storiografici, che presuppone capacità analitiche e intuitive di rara creatività; quelle di uno scrittore aduso alla letteratura, all’estetica, e alla conoscenza poetica, alla cultura. Un testo che porta avanti concetti di non facile assunzione, ma resi agili da un linguismo scorrevole, narrativo, vincente e convincente. Un’opera che non occorre leggere due volte, o riprendere per rifinirne alcuni assunti: resta immediatamente incisa; alimenta interesse con la sua portata iconografica e pluridisciplinare. Una originale maniera di proporre un saggio storico-letterario. Partendo dai testi per dimostrare, e concludere con metodo apodittico, cartesiano, ciò che lo scrittore si ripropone. Di grande valenza critico-filologica l’apparato bibliografico a completare l’opera”.
Il giorno 1°agosto, per bontà dell’Autore, mi è giunta la nuova edizione del saggio dato alle stampe nel 2016 coi caratteri della stessa Casa Editrice; la lettera autografa che l’accompagna riporta: “Voglia gradire la nuova edizione del mio saggio ampliata in alcuni punti (pp. 84-88; 108-113), dove ho potuto inserire altri momenti degni di comparazione, quali il tema della “donna che non si trova” e il “modo” come Leopardi e Bene hanno riscritto il primo Omero, il secondo Shekespeare. Il tutto senza minimamente toccare l’impianto ideologico e metodologico del testo”.  Credo che non sia male riportare uno sprazzo delle pagine aggiunte come ulteriore approfondimento delle nuove tematiche affrontate: “… Ma al di là delle derivazioni, un dato sembra certo, che, sia in Leopardi sia in Bene, nonostante i contesti culturali differenti –sensismo-illuminismo-romanticismo a far da cornice al primo, postmodernismo al secondo – è possibile riscontrare analogie anche a proposito dell’amore e della visione della donna.
È più che evidente come le Desdemone, le Giuliette, le Anne, le lady Macbeth o le Nerine, le Silvie, le Elvire, rispondano tutte al tema dell’assenza della donna, o come si diceva, della “donna che non si trova”. Tanto che profondissimo risulta in entrambi un sentimento di rimpianto: in Leopardi, l’“l’inestinguibile nostalgia di amore”, quale si evince in ogni stagione della sua “vita mortale” e in particolare, si diceva, nella canzone Alla sua donna; in Bene, la nostalgia di un tempo quando le Lupe, le Lole, le Margherite, le Mirandoline, le Violette, le Santuzze e tutte le parti di monache, mogli, amanti, pettegole, puttane, attrici, venivano recitate da maschi: …”.
A questo punto, per mio consiglio, sarebbe cosa buona che voi leggeste questo libro che, al di là di ogni ambito culturale,  vi verrebbe incontro con la sua splendida semplicità verbale al servizio di plurime argomentazioni attuali. A voi la lettura.

Nazario Pardini




1 commento:

  1. Molto interessante. Due geni a rapporto che non ti aspetti. Leopardi, in fondo, avventuroso nonostante il suo pessimismo e Bene avventuroso nella ricerca di un teatro totale. Da leggere senz'altro.

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