Giuseppe
Leone: D’in su la vetta della torre
antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce.
Grafiche Rusconi di Bellano. Lecco. 2016. Pg. 174. € 16,00
Già avevo scritto sulla prima edizione dell’interessante saggio dal titolo D’in sula
vetta della torre antica di Giuseppe Leone; dato alle stampe per i
caratteri di Grafiche Rusconi di Bellano (Lecco) nel 2015, avevo posto attenzione sulle
peculiarità comparative e filologiche di un Autore aduso alla Letteratura e ai
suoi più reconditi misteri, che, sotto la penna del Nostro, vengono tradotti in
realtà interpretative di personale polivalenza. Si tratta di una ricerca di
portata creativa che già nel sottotitolo prodromico al tutto contiene un’esplicita
connotazione: Giacomo Leopardi e Carmelo
Bene sospesi fra silenzio e voce. Mi sembra opportuno, a questo punto, proporre
di nuovo il mio scritto per dare la possibilità ai lettori di Lèucade, che
ancora non conoscessero il testo, di coglierne gli aspetti principali: “Affrontare una diagnosi
comparativo-esegetica fra Leopardi e Carmelo Bene non è sicuramente cosa da
tutti i giorni. Leopardi filosofo? Di sicuro no. Tra l’altro, non conosceva
neppure i grandi del tempo tipo Kant o Hegel; semmai pseudo filosofo nel senso
crociano, un ingorgo sentimentale, dacché la trama delle meditazioni
leopardiane rivela un che di gracile e di disarmonico come la mancanza di
sistematica scientificità, che è la più settecentesca delle sue
caratteristiche. Sì, volle essere filosofo nel senso moralista; nell’accezione
degli intellettuali dell’illuminismo francese, ai quali parve operazione
fruttuosa nella misura in cui ci si impegnasse su concreti o spiccioli problemi
di vita vissuta. Ma veniamo al nocciolo; alla questione che Giuseppe
Leone prende fin da subito in considerazione: quella dei suoni, delle voci, che
caratterizzano sia la produzione del recanatese che di Carmelo Bene; e
l’aspetto della solitudine e del dolore, in Leopardi simboleggiato in un
passero che trascorre, appartato e solitario, il tempo della sua giovinezza, da
cui il titolo; in Carmelo Bene (nella Lectura Dantis), “a mo’ di
agape schopenhaueriana – come lo stesso amava definire le sue performance – il
compassionevole ricordo delle vite tragicamente spezzate nel capoluogo
emiliano”, della strage di Bologna. Interessante poi la lettura de L’infinito fatta
con l’apporto di citazioni di numerosi critici, tipo Paolo Marzocchi o
Alberto Folin. Per cui il canto degli uccelli, il muggito dei buoi, il mormorio
delle fronde o del ruscello, riportano ad un passato scomparso per sempre. In
parole povere la malinconia leopardiana viene colta dietro il dileguarsi di una
voce; la poeticità dell’assenza. In Carmelo Bene nel suono che si fa
personaggio. E come in Leopardi il suono è a scapito del visivo, in Carmelo,
sempre nella lettura di Dante, riappare solo in veste di voce. Una
ricerca puntigliosa e precisa convalidata da una dovizia di nomi autorevoli.
Tanti i punti in comune fra i due artisti: il loro dialogo con la civiltà
presocratica; la difesa a favore della voce contro il “morto orale” dello
scritto; le polemiche contro le correnti artistiche alla moda; i pensieri sulla
lingua, sulla poetica, sui costumi; sul fatto di bandire qualsivoglia di
ragionamento storicistico, al contrario di Platone che bandiva la poesia dalla
sua repubblica. Carmelo, non credendo nel Dio dei Cristiani, e credendo nel
demone, esclude ogni possibilità di redenzione umana. L’inno ad
Arimane conferma questa vicinanza fra i due per una visione
anticristiana senza riscatti o sconti particolari. Il saggio continua nel
capitolo due (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene: “geni senza talento”) con
il tema del mancato riconoscimento di un Leopardi filosofo, per colpa,
soprattutto, di una critica letteraria poco attenta. Ciò che è avvenuto per
Carmelo Bene che si rivoltava a tutti coloro che continuavano a chiamarlo
attore, definizione per lui riduttiva. Nel terzo capitolo viene preso in
considerazione il rapporto dei due con la religione. Da fanciulli e
adolescenti sono stati religiosi a tal punto di avere persino servito Messa. Ma
mentre il poeta volgerà sempre più verso un pessimismo più acuto e
radicale, l’altro tenderà verso il rifiuto dell’immagine, dacché si “osserva
che il ritorno agli anni dell’infanzia religiosa è stato per lui un
motivo per raccontare come le effigi mariane … lo abbiano portato alla
disillusa considerazione e al rifiuto di qualsiasi culto d’immagine…”. Per
giungere al quarto capitolo, in cui si analizzano le peripezie critiche dei due
geni nell’essere riconosciuti nella loro interezza (Leopardi e
Bene. Geni ma senza premi). Simili anche qui per tutte le troncature
che si sono tirati addosso fin dagli inizi. Numerose le testimonianze
storiografiche addotte a supporto: da Vittore Branca, a Croce, ad altri che,
almeno, hanno avuto il merito di averne parlato: Pietro Giordani, Giuseppe
Montani, Vincenzo Gioberti, Alessandro Poerio; mentre Giuseppe Mazzini
“diede un giudizio stroncatorio”. Il solo critico “che darà al Leopardi il
rilievo che meritava è stato il milanese Carlo Tenca, il quale vide nel poeta
recanatese <<l’erede della tradizione alfieriana-foscolilana…>>”.
Solo fra le due guerre ci sarà un effettivo ripensamento sull’opera
leopardiana, dacché fin dalle origini si parlava di un pessimismo acuto dovuto
alla malattia. Interessanti gli studi di: Vossler, di De Robertis, di Saba,
Cardarelli, Bacchelli, di Svevo, Brancati, Calvino… per giungere a Ungaretti e
Montale il più vicino, forse, quest’ultimo, al pessimismo leopardiano.
Così Carmelo Bene “ha sempre avuto nei critici irriducibili nemici, ad
eccezione di Arbasino, Pasolini, la Morante, Flaiano ed alcuni filosofi come
Deleuze, Derrida, Lucan…”. L’opera si completa con il quinto ed ultimo capitolo
(Leopardi e le opere di Bene) di cui riportiamo la emblematica
chiusura: “… Dunque, ascoltiamo D’in su la vetta della torre
antica; ascoltiamo, in tutta la sua sonorità , questo “… schiaffo
impensabile ai millenni dell’espressione-logos-concetto”, come ebbe a
qualificarlo lo stesso Carmelo Bene, parlando delle sue rappresentazioni. Del
Buono potrà avere avuto le sue ragioni per ritenere i geni ingombranti
e persino inutili, ma hanno ragione anche i geni a pretendere di essere
ascoltati, per non subire la dittatura di chi genio non è”.
Un libro di
grande interesse speculativo, nuovo, generoso, ricco di riferimenti
storiografici, che presuppone capacità analitiche e intuitive di rara
creatività; quelle di uno scrittore aduso alla letteratura, all’estetica, e
alla conoscenza poetica, alla cultura. Un testo che porta avanti concetti di
non facile assunzione, ma resi agili da un linguismo scorrevole, narrativo,
vincente e convincente. Un’opera che non occorre leggere due volte, o
riprendere per rifinirne alcuni assunti: resta immediatamente incisa; alimenta
interesse con la sua portata iconografica e pluridisciplinare. Una originale
maniera di proporre un saggio storico-letterario. Partendo dai testi per
dimostrare, e concludere con metodo apodittico, cartesiano, ciò che lo
scrittore si ripropone. Di grande valenza critico-filologica l’apparato
bibliografico a completare l’opera”.
Il giorno
1°agosto, per bontà dell’Autore, mi è giunta la nuova edizione del saggio dato
alle stampe nel 2016 coi caratteri della stessa Casa Editrice; la lettera
autografa che l’accompagna riporta: “Voglia gradire la nuova edizione del mio
saggio ampliata in alcuni punti (pp. 84-88; 108-113), dove ho potuto inserire
altri momenti degni di comparazione, quali il tema della “donna che non si
trova” e il “modo” come Leopardi e Bene hanno riscritto il primo Omero, il
secondo Shekespeare. Il tutto senza minimamente toccare l’impianto ideologico e
metodologico del testo”. Credo che non sia male riportare uno sprazzo
delle pagine aggiunte come ulteriore approfondimento delle nuove tematiche affrontate:
“… Ma al di là delle derivazioni, un dato sembra certo, che, sia in Leopardi
sia in Bene, nonostante i contesti culturali differenti
–sensismo-illuminismo-romanticismo a far da cornice al primo, postmodernismo al
secondo – è possibile riscontrare analogie anche a proposito dell’amore e della
visione della donna.
È più che evidente
come le Desdemone, le Giuliette, le Anne, le lady Macbeth o le Nerine, le
Silvie, le Elvire, rispondano tutte al tema dell’assenza della donna, o come si
diceva, della “donna che non si trova”. Tanto che profondissimo risulta in
entrambi un sentimento di rimpianto: in Leopardi, l’“l’inestinguibile nostalgia
di amore”, quale si evince in ogni stagione della sua “vita mortale” e in
particolare, si diceva, nella canzone Alla
sua donna; in Bene, la nostalgia di un tempo quando le Lupe, le Lole, le
Margherite, le Mirandoline, le Violette, le Santuzze e tutte le parti di
monache, mogli, amanti, pettegole, puttane, attrici, venivano recitate da
maschi: …”.
A questo
punto, per mio consiglio, sarebbe cosa buona che voi leggeste questo libro che,
al di là di ogni ambito culturale, vi
verrebbe incontro con la sua splendida semplicità verbale al servizio di plurime
argomentazioni attuali. A voi la lettura.
Nazario
Pardini
Molto interessante. Due geni a rapporto che non ti aspetti. Leopardi, in fondo, avventuroso nonostante il suo pessimismo e Bene avventuroso nella ricerca di un teatro totale. Da leggere senz'altro.
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