Aurora De Luca |
AURORA
DE LUCA: ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE.
EDIZIONI EVA. VENAFRO (IS). 2016. PAG. 150. € 10,00
(TESI DI LAUREA)
Un
libro di grande effervescenza umanistico-culturale i cui contenuti sono
affidati ad un metodo di ricerca induttivo, filologico; ad uno stile semplice,
nella sua complessità, comunicativo, coinvolgente a cui l’Autrice ci ha
abituati con la sua plurima produzione soprattutto poetica che ho avuto il
piacere di leggere e di apprezzare; una penna che indaga e assembla per farne
una tesi di polisemica significanza. Questo è il lavoro di autoptica misura che
Aurora De Luca ci propone: un libro ben fatto, di ben 152 pagine, apprezzabile
per copertina, impaginazione, carta, ma soprattutto per il materiale che Aurora
ha saputo raccogliere per mettere in evidenza il prestigioso cammino del nostro
Domenico. Un vero prosimetro, questa
tesi di laurea, per narrare la vita di un poeta-saggista-narratore in
grandissima parte espletata nella rivista che Egli da anni dirige e di cui è il
fondatore e che ogni mese gli scrittori più in vista del panorama letterario
nazionale attendono curiosi per leggere poesie saggi e attualità editoriali.
Aurora De Luca con le sue notevoli capacità analitico introspettive delinea
un ritratto di Defelice non solo critico
ma anche umano, familiare, domestico. Ne esce una figura di uomo dai ritmi
incalzanti, dai valori basilari, da un’etica
di umana consistenza: Terra e
uomo, Miscellanea, Il buongiorno del poeta, Amore: dodici mesi con la ragazza,
Odio e amore: La morte del Sud, Amore e odio: Canti d’amore dell’uomo feroce,
Amore: Alberi?, Vita e poesia: Poesia e vita, “Pomezia-Notizie” - Le epistole,
Fucina letteraria: Il mensile, Rispondenze: L’epistolario, A passeggio con
Domenico Defelice… Un percorso che Aurora ha compiuto con scrupolo e
competenza; con una abilità innata ma anche maturata durante il suo lavoro di
collaboratrice della stessa rivista. Mi
piace aggiungere un mio contributo: una recensione che anni orsono stilai sulla figura dello
scrittore e soprattutto sul suo rapporto con la natura:
Domenico
Defelice. Alberi?. Genesi Editrice.
Torno. 2010. Pp. 88. € 8,00
“Lungo
la siepe d’edera,
che
cinge il mio giardino,
svettano
robinie, vecchi castagni,
[…]
È l’eden favoloso
in cui mi serro
stanco della
città.
Nel
lavacro di verde e di profumi
la
mente mia s’inebria e poi sconfina
oltre
le vaste praterie del cielo.
[…].”
È qui
la poesia di Defelice. In questa fuga da un mondo fattosi selva oscura, in un
ritorno ai primordi di natura e bellezza. Non certamente con gli occhi al répêchage
di un passatismo mitizzato, ma piuttosto
con l’animo rivolto ad un futuro migliore dove “gli Alberi” possano
vivere e crescere con fronde verdeggianti fino alla loro morte, su terreni
fertili e propizi, e lasciare semi buoni per rinascere.
Alberi,
natura, colori, spiritualità, messianica annunciazione di terre nuove, di mater rigenerante, di forza
benefica universale a sconfiggere il male per ritrovare i valori fondanti della
vita e dello spirito.
Sì!,
dello spirito. Perché ogni cosa che Iddio ci ha donato pulsa di spiritualità, e
ci dice di amore e di speranza, anche se spesso nascosti sotto un calvario
moderno di disvalori. Alberi. Ma non lasciamoci ingannare dal titolo che a
prima vista sembra introdurci ad una visione bucolico-virgiliana (anche se quel
punto di domanda è determinante a farci prolungare lo sguardo verso
un’interiorità di grande respiro analogico). Ma Alberi come comprimari di un
panismo esistenziale; come idillio leopardiano, che volge i suoi intenti alla
configurazione dell’essere e dell’esistere con lo sguardo all’Infinito. E
d’altronde quale analogia poetica migliore con la vita (il nascere, il vivre,
il morire, il soffrire, il gioire) di
quella delle fronde, dei bocci, dei colori, o delle impennate
verdeggianti, tanto simboliche, verso il cielo. E l’esistere c’è tutto in
queste raffigurazioni allegoriche. In questi messaggi metaforici, diluiti in
versi dettati da esperienza metrica e spontaneità creativa. Qui riesco a trovare momenti di alta poesia (non
di rado passaggi di spartiti lirici mi chiedono emozioni da stacchi
pucciniani). Una netta e simbiotica fusione fra dire e sentire che arriva
immediatamente all’anima. Oh l’endecasillabo alternato maliziosamente a misure
più brevi, in prevalenza settenari, come vera cascata di suoni da orchestra
sinfonica! E quale utilizzo migliore della natura in poesia che quello di
chiederle di noi, del nostro amare, esistere, ricordare, sperare, sognare,
alludere e, perché no, soffrire?
“Ti
nascondi nel ventre dell’ulivo.
[…]
Irene,
esci dal tronco,
ch’io
ti rincorra in tondo come allora;
voglio
morire stremato, ansante,
falena
in un ardente girotondo.” (L’ULIVO. Pp. 38).
Ed è
qui la prova di quello antecedentemente notato sull’effetto di accentuazione
musicale dell’endecasillabo: un importante significante metrico a evidenziare i
punti focali del poema.
“Albero,
se ti tocco,
con
dolore mi lasci, come Imelda,
che
ironica guardandoti mi dice:
se tu
ci trovi tanta somiglianza
è
perché abbiamo la stessa radice!” (GIUGGIOLO. Pp. 42).
Gli alberi tutti si fanno
disponibili e disposti a raccogliere le necessità intime del poeta e ad
aiutarlo a trasferirle sul foglio rilucidate di entusiasmo etico-intellettivo,
e di etimi emotivo-naturistici. Sembra quasi che l’autore sia rimasto a vivere
anni ed anni fra il respiro delle foglie, fra gli slanci delle fronde; ne abbia
conosciuto il linguaggio e con essi abbia dialogato, ritrovando anche antiche
misure mitologiche, poeticamente indovinate nel contesto, e mai frutto di
manierismi. E quanto è facile, per la vena altamente musicale del Nostro,
passare dal concreto, da una realtà ben definita nei suoi caratteri topici, ad
un mondo immaginifico, zeppo di riferimenti che dalla parola azzardano sguardi
oltre la parola stessa. E cosa di meglio per la Poesia che insaporirla del
profumo e del colore delle cose che ci legano alla donna amata, ricercando un’
eguaglianza ora erotico-memoriale, ora realistico-simbolica.
“Come
sussurra placido l’ontàno
alle
follie del vento.
Sopra
il suo verde tronco
inciso
ho un giorno
-
primavera rideva sopra i colli –
CINZIA
TI AMO
Che
frescura d’intorno.
[…]
Che
frescura d’incanto
e viva
la tua pelle ancor mi pare
se con
la mano
lievemente
sfioro quella freccia
sulla
verde corteccia dell’ontàno.” (L’ONTANO. Pp. 44).
Ed è la natura a dire tutto della
vita in questo suo scandalo delle contraddizioni fra “le follie del vento” e il
sorriso della primavera.
“Salivo
quasi al buio
senza
scorgere il fondo né la cima
sì
cupo e intenso era il suo fogliame.
[…]
Disperata
mia madre
se mi
addormivo sopra le tue braccia,
sicure
e dolci, meglio di una zana:
- Mico
ci sei? – ei?
- Sono
qui, mamma!
- Son
qui! Ma dove?
-
sull’amico castagno…
- Non
ti fare del male – ale – ale…” (IL CASTAGNO. Pp. 48).
Il memoriale con tutta la sua forza
esplosiva sgomita, si dilata, con virulenza e dolcezza per confermare la sua
esistenza e la sua voglia impellente di ritornare a vivere. E per il poeta il
memoriale si fa, nel tracciato complessivo dell’opera, alcova, nirvana edenico,
amore oblativo, rifugio rasserenante, in cui trovare quella pace e felicità,
che il poeta spera, messianicamente, in un futuro nuovo fatto di fratellanza e
di amore. Sì!, perché in Defelice prevale, senz’altro, una visione positiva
della vita e degli uomini. Ciò non toglie che il mondo sia mondo con tutte le
sue mancanze e tutti i suoi dolori; ed il messaggio del Nostro è tutto in una
speranza: quella di poter ricostruire una convivenza etico-civile in cui il
bene prevalga sul male; sebbene sia l’uno che l’altro, sia Caino che Abele, sia
la luce che la notte, sia il brutto che il bello, facciano parte di quel
diacronico e infinito mistero che è la vita.
E per dire che nel poeta prevale
uno smarrimento erotico-platonico o erotico-fisico è sufficiente lasciarci
trasportare dai versi liricamente avvincenti quali quelli delle pièces IL NOCE,
IL CILIEGIO ad esempio:
“Com’eran
dolci, Armida, quei tuoi frutti:
le tue
labbra di ninfa tizianesca;
quella
tua pelle fresca;
l’ovale
del tuo mento;
i tuoi
capelli rugginosi,
fili
di seta a imprigionare il vento;” (IL NOCE. Pp. 56).
L’endecasillabo
finale contribuisce non poco a dare forza, con tutto il suo stacco supportato
dalla misura metrica antecedente, all’enfasi di un nostalgico imperfetto
temporale della figura femminile.
“Ne
sceglievi i mazzetti,
bizzarra
Carolina,
che
legavi ai capezzoli dorati
perch’io
li piluccassi
in un
gioco ingenuo e leggero
per me
senza malizia.” (IL CILIEGIO. Pp. 58).
Nella
seconda sezione ALBERI ANCORA (E QUALCHE
ARBUSTO…) l’autore sembra ispirato dalle stesse motivazioni, ma ancora più
vivo è l’appello al rispetto di tutta la
natura, mater hominum et amoris, soror
felicitatis et fons poēsis. E sempre eguale questo
alternarsi e miscelarsi di riferimenti floreali e sentimenti esistenziali. La
parola continua attenta, ora misurata, ora espansa, ora dolce, ora rattenuta,
ma sempre fedele, ad accompagnare, quale contenitore di ritmi interiori, il
variare dei battiti cardiaci del poeta:
“Ad
aggredirlo vennero gru
metalliche;
arcigni segantini
con
lame scintillanti;
autocarri
a
portar via le sue membra straziate;
[…]
È
rimasto un tronco enorme
e due
rami spezzati:
due
braccia monche aperte in croce.
Un
Albero-Cristo: nudo,
dolente,
graffiato, solo.” (FRAMMENTI. Pp. 65-66).
“Dolce
Belinda!
Il
pesco intenerito
a te
somiglia.” (IL PESCO. Pp. 68).
E quale pianta si potrebbe
avvicinare di più col suo dilagare di colori mediterranei, spersi in cieli di
sapore salmastro, ad arditi pensieri d’amore:
“Alle
carezze
la
ginestra s’accende
e ti
profuma
e ti
addormenti,
Francesca,
alla sua ombra.
Ebbre
farfalle
succiano
le tue ciglia
variopinte.
Dalla
maglietta
trasparente
susciti
richiami
arditi.” (LA GINESTRA. Pp. 70).
Canzoniere d’amore? o amore umano
ed ultra/umano, amore universale affidato a un canzoniere?
Defelice affida alla Poesia il
compito di azzardare uno sguardo generoso, speranzoso e profetico, oltre i
confini di un soggiorno vincolante e ristretto per contenere tanto amore. E fa
del suo messaggio un richiamo alla vita per ogni uomo che spera e che crede. (Nazario
Pardini, Arena Metato 31/08/2012).
Un
lavoro limpido, come la De Luca ama definire la sua tesi: “… Insomma, un lavoro
assolutamente “scapigliato” – come io
sono del resto -, appassionato sicuramente, si teme magari caotico, assai pieno
di salti e rimandi e citazioni, ma forse improvvisamente organico, limpido,
trasparente da vederci attraverso”.
Nazario Pardini
Caro Nazario, leggo con grande piacere le tue parole di stima per il mio lavoro. Ho cercato di condurlo nel migliore dei modi, con l'obiettivo di presentare al pubblico un Defelice 'tridimensionale'.
RispondiEliminaHo cercato inoltre di rendere visibile ed esperibile la bellezza della poetica defeliciana, indagandone i ritmi e i colori, le atmosfere, quelle che non possono essere dimenticate.
Defelice è un uomo fatto di terra, sicché lo è anche la sua poesia, ma la Poesia riesce a creare terra 'altra' e leggerissima.
Ho cara l'intervista cui Defelice ha risposto: lì in breve c'è l'uomo e la poesia; lascia tre parole, come vademecum per coloro che la poesia la praticano: NON TRADITELA MAI.
Aurora De Luca