Henry Ariemma: Aruspice
nelle viscere. Giuliano Ladolfi Editore. Borgomanero. 2016
Dove se ne vanno
Dove se ne
vanno i pensieri di questa vita?
e le
domande, dove vanno?
Se ogni
cambiare nel vivere è un po’ ridere
delle
sofferenze vissute, alle spalle del vedersi
diversi come dopo l’amore dissolto, con vergogna
di se stessi? figuriamoci la morte
diversi come dopo l’amore dissolto, con vergogna
di se stessi? figuriamoci la morte
ragione del
nascondere tutto il cuore
compresso nella scatola del mai più
compresso nella scatola del mai più
perché i
lamenti non sono stilema dell’essere
letti né i rimorsi la trama e i rimpianti
letti né i rimorsi la trama e i rimpianti
poesie
possibili, meglio fare come il gatto
nel fuggire
prima, nel non farsi vedere
a noi che
vogliamo un pari vicino del non pesare
i fallimenti alla comunque solitudine
i fallimenti alla comunque solitudine
di esistere perché nati.
Poesia
duttile, varia, articolata, verbalmente significante, che, con forza
fonico-simbolica, riesce a concretizzare i plurali impatti emotivi di una
vicenda; di un sentire che si incastra nel sottofondo del canto, dando energia
umana e forza ontologica alla silloge: l’amore, l’illusione, la delusione, il
sogno, il memoriale, ma soprattutto la coscienza di un tempo che fugge senza
rispetto per il patrimonio umano. Leggere questa storia, affidata a versi di
effetto ora contrattivo ed ora estensivo, significa seguire la plurivocità di
un’anima che sente impellente il bisogno di confessare i suoi stati d’animo: un
viaggio, un nostos, fatto di meditazioni sull’essere e l’esistere, sulla
problematicità dell’esser-ci, che va al di là della semplice esperienza
individuale, dacché ogni lettore trova parte di sé in questa narrazione poematica; in questo
andare a più voci, a venature metemsicotiche, con un melanconico sguardo che, come
afferma Dostoieski, tanto giova al rendimento creativo del poièin. D’altronde
non è facile far seguire un verbo alle incursioni emotive della vita. L’animo è
gonfio delle esperienze vicissitudinali, è zeppo di impressioni e accostamenti
memoriali che tanto pesano; per questo l’andamento prosodico del nostro non si
accontenta di una morfosintassi di sapore canonico ma va oltre la parola, oltre
il semplice significato dell’etimo, per agguantare quegli abbrivi che con tanta
effusione, cercano di sottrarsi alle ristrettezze del terreno vivere per una libertà
di cui il mare è l’immagine più consona; una libertà vaga e indeterminata come
vaga è la ricerca di un essere volta a risolvere quei perché che tanto sanno di
insoluzione; di meta irraggiungibile per il potere umano. Questa la complessità
di tale silloge, questo il bagaglio di disumana consistenza che tanto inquieta
l’uomo in quanto tale:
Dimmi di
quanti sono i mille dei paesi le porte
per non
andare oltre
ai pranzi
delle parole ancora non dette
e tenere
dentro i passi le salite
terse
argento, bianco nella roccia
al rotolare
dei giorni di sole
per gli
stessi fiori d’erba che nel deserto
sono pietre?
Una
vera escursione che dalla quotidianità di un correlativo di stampo eliotiano
riesce a elevarsi a odeporici intenti verso alcove di Bellezza; a accostamenti
personali e inconsueti, da evitare così epigonismi e insidie di luoghi comuni.
Nazario Pardini
DAL
TESTO
E
difficile dirla la verità?
E difficile
dirla la verità?
non dico
trovarla?
meglio le
reticenze
al dire che impegna,
un no vuol
dire
prendere per
mano, considerare
altro noi
stessi.
Dirla la
verità è difficile?
meglio il
piglio fiero dei nonni
poche parole
di sfinge
scondite
sentire
a credibili scuse.
Ed ora
meglio il camminare
a cuore aperto,
coraggio
inattuale ai
mezzi sorrisi
e parole a
mezza bocca,
sgranati
occhi già giudizio
accennato
tosse a seppellire
gesti e
parole di solo semina
a raccolta
in pieno sole,
spalla e
petto di uno scansare
come guerra
d’altri nel paese
lontano colore per straniero vicino.
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