martedì 17 gennaio 2017

N. PARDINI: LETTURA DI "ARUSPICE NELLE VISCERE" DI HENRY ARIEMMA





Henry Ariemma: Aruspice nelle viscere. Giuliano Ladolfi Editore. Borgomanero. 2016



Dove se ne vanno


Dove se ne vanno i pensieri di questa vita?
e le domande, dove vanno?

Se ogni cambiare nel vivere è un po’ ridere
delle sofferenze vissute, alle spalle del vedersi 
diversi come dopo l’amore dissolto, con vergogna 
di se stessi? figuriamoci la morte

ragione del nascondere tutto il cuore 
compresso nella scatola del mai più

perché i lamenti non sono stilema dell’essere 
letti né i rimorsi la trama e i rimpianti
poesie possibili, meglio fare come il gatto
nel fuggire prima, nel non farsi vedere

a noi che vogliamo un pari vicino del non pesare 
i fallimenti alla comunque solitudine

di esistere perché nati.






Poesia duttile, varia, articolata, verbalmente significante, che, con forza fonico-simbolica, riesce a concretizzare i plurali impatti emotivi di una vicenda; di un sentire che si incastra nel sottofondo del canto, dando energia umana e forza ontologica alla silloge: l’amore, l’illusione, la delusione, il sogno, il memoriale, ma soprattutto la coscienza di un tempo che fugge senza rispetto per il patrimonio umano. Leggere questa storia, affidata a versi di effetto ora contrattivo ed ora estensivo, significa seguire la plurivocità di un’anima che sente impellente il bisogno di confessare i suoi stati d’animo: un viaggio, un nostos, fatto di meditazioni sull’essere e l’esistere, sulla problematicità dell’esser-ci, che va al di là della semplice esperienza individuale, dacché ogni lettore trova parte di sé  in questa narrazione poematica; in questo andare a più voci, a venature metemsicotiche, con un melanconico sguardo che, come afferma Dostoieski, tanto giova al rendimento creativo del poièin. D’altronde non è facile far seguire un verbo alle incursioni emotive della vita. L’animo è gonfio delle esperienze vicissitudinali, è zeppo di impressioni e accostamenti memoriali che tanto pesano; per questo l’andamento prosodico del nostro non si accontenta di una morfosintassi di sapore canonico ma va oltre la parola, oltre il semplice significato dell’etimo, per agguantare quegli abbrivi che con tanta effusione, cercano di sottrarsi alle ristrettezze del terreno vivere per una libertà di cui il mare è l’immagine più consona; una libertà vaga e indeterminata come vaga è la ricerca di un essere volta a risolvere quei perché che tanto sanno di insoluzione; di meta irraggiungibile per il potere umano. Questa la complessità di tale silloge, questo il bagaglio di disumana consistenza che tanto inquieta l’uomo in quanto tale:

Dimmi di quanti sono i mille dei paesi le porte
per non andare oltre

ai pranzi delle parole ancora non dette
e tenere dentro i passi le salite

terse argento, bianco nella roccia
al rotolare dei giorni di sole

per gli stessi fiori d’erba che nel deserto
sono pietre?


Una vera escursione che dalla quotidianità di un correlativo di stampo eliotiano riesce a elevarsi a odeporici intenti verso alcove di Bellezza; a accostamenti personali e inconsueti, da evitare così epigonismi e insidie di luoghi comuni.

Nazario Pardini



DAL TESTO


E difficile dirla la verità?


E difficile dirla la verità?
non dico trovarla?
meglio le reticenze

al dire che impegna,

un no vuol dire
prendere per mano, considerare
altro noi stessi.

Dirla la verità è difficile?
meglio il piglio fiero dei nonni
poche parole di sfinge
scondite sentire

a credibili scuse.
Ed ora meglio il camminare
a cuore aperto, coraggio
inattuale ai mezzi sorrisi

e parole a mezza bocca,
sgranati occhi già giudizio
accennato tosse a seppellire
gesti e parole di solo semina
a raccolta in pieno sole,
spalla e petto di uno scansare
come guerra d’altri nel paese

lontano colore per straniero vicino.





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