Il paradosso di un linguaggio
che si impoverisce in un mondo sempre più grande
Salvare la poesia, salvare la
complessità
“Viviamo
in una babele silente
dove
i porci ci insegnano a vivere.”
Grazie ad internet le
possibilità della comunicazione sembrano infinite. Può capitare di vedere un
video di 10 minuti in cui c’è una sequenza continua di incidenti sulle strade
della Russia, rivedere le immagini dello Tsunami in Giappone, le acrobazie di
un circo, qualunque cosa ci interessi. Possiamo trovare qualunque informazione
vogliamo rilanciarla in un etere immenso, quasi sconfinato.
Le dimensioni però non aiutano
la chiarezza e la fruibilità di queste informazioni. Perché per capire bisogna
avere dei riferimenti, avere dei codici che le possano decifrare. L’immagine di
un uomo sbranato da un leone per noi è un video SPLATTER, per un africano che
vive confini della savana avrà un altro significato, magari il ricordo di un
parente che è morto in quel modo. Non abbiamo i codici per capire molte delle
immagini che riceviamo. La violenta evidenza di un’immagine ha in sé il rischio
di un’imprecisione terribile. Ciò che vediamo appare come significativo, ma in
realtà non lo è. I riferimenti cambiano nella cultura dell’uomo in maniera
profonda, sia nel tempo che nello spazio. Un uomo di quarant’anni fa non
concepiva la violenza carnale su una donna come la concepisce un uomo di oggi,
e un newyorkese non ha certo la stessa idea di rapimento di un curdo del Nord
dell’Iraq. Questo crea un paradosso: nel tempo in cui maggiore è la possibilità
di comunicare, abbiamo difficoltà a capire quello del vediamo, quindi ad
esprimerlo, perché mancano i codici di riferimento comuni che permettano uno
scambio di informazioni non superficiale.
Nella vita quotidiana ci si
può rendere conto facilmente di quanto i canoni espressivi siano ripetitivi e
le parole che realmente si utilizzano in una giornata normale sono poche. Il
linguaggio è insufficiente per descrivere i nostri sentimenti e raramente il
nostro modo di parlare trasmette chi siamo. In un tempo di comunicazione visiva
il linguaggio si impoverisce, il vocabolario della vita quotidiana è succinto.
Per questa comunicazione
insufficiente siamo spinti a cercare storie, racconti originali, cerchiamo
qualcosa che ci faccia emergere da questa afasia. Parlare di afasia però non è
esatto. Non è solo la mancanza di parole, mancano anche i pensieri di
riferimento. Se analizziamo il linguaggio di un talk-show e in generale di
certa comunicazione di massa, ci accorgiamo come sia sistematicamente evitato
il contenuto e la drammaticità delle situazioni sia utilizzata solo in modo
strumentale, mai spontaneo.
Si vuole solo intrattenere una
persona non si vuole cambiare le sue idee. Succede però che le trasmissioni di
spettacolo, che poi hanno lo stesso linguaggio del giornalismo sensazionalista,
diventano anche le maestre del linguaggio della vita quotidiana di molte
persone. Le sfumature, a parte quelle di grigio, i concetti complessi, i
sentimenti profondi non hanno nessun testimonial che li porti avanti. Così
molte persone hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti che comunque
esistono anche se indefiniti. C’è un'altra causa che aumenta l’imprecisione e
la difficoltà di espressione del linguaggio: le poche parole che sono rimaste e
che hanno un significato pregnante, ad esempio dolore, speranza, bellezza,
vengono caricate di troppi significati, dalla pubblicità e dal sensazionalismo,
in questo modo la perdita di sfumature del linguaggio è, non solo nella
quantità di lemmi, ma anche nella forza che questi hanno. La mente così adotta
un linguaggio debole, diviene poco ricettiva ad una comunicazione che non sia
stereotipata. Certo, la comunicazione stereotipata e il linguaggio ripetitivo
non sono solo di questo tempo, ma è una caratteristica molto più presente.
Le conseguenze sono tante e difficili
da analizzare ma sicuramente questo rumore continuo, questo vociare senza
significato, porta una difficoltà dell’individuo a relazionarsi con la realtà.
Questa nebbia però a volte si
dirada quando vediamo immagini che colpiscono i nostri sentimenti. Quando
vediamo un bambino che somiglia un compagno di scuola di nostra figlia, che
muore annegato perché nato in Siria e non in Italia. In questi rari momenti per
una sorta di tuffo nella propria coscienza ci rendiamo conto di quanto sia
superficiale il contenuto degli argomenti che affrontiamo quotidianamente. E
qui introduco ciò che volevo dire riguarda la poesia. Essa è sempre una ricerca
di qualcosa di più, d’un sentimento più profondo, d’un linguaggio più significativo, è il tentativo di capire sempre di più la
vita. Questo rende alcuni testi poetici spesso complessi da capire,
l’innovazione è sempre faticosa, porta sempre con sé una complessità che altro
non è che la difficoltà di capire un nuovo significato.
Ora mi chiedo: chi è che in
poesia oggi, fa l’operazione che facevano alcuni poeti e intellettuali, cioè
creare un linguaggio per esprimere idee nuove, che spieghino i nostri nuovi
sentimenti, che ci guidino in un mondo complesso e difficile da capire,
spiegandone i significati?
Con questo non voglio dire che
il poeta sia un pedagogo, esso, come diceva Arthur Rimbaud, si trova al di la
di se a non essere semplice legno, ma
violino, a non essere semplice metallo ma essere uno strumento a fiato. Non è
da se stesso che diviene poeta, né per se stesso ma è per gli altri, “io è un
altro”( lettera a Paul Demeny il 15 maggio del 1871).
Pur se l’argomento a volte,
come scriveva Montale è “ ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo”, il poeta definisce un sentimento, un linguaggio,
spiega la realtà e la relazione dell’uomo con essa.
Difficile trovare queste nuove
persone, soprattutto perché esse non emergono. Chi gestisce la cultura, ovvero
chi gestisce i mass-media, pensa di non aver bisogno di altri significati, di
un linguaggio più avanzato. Il linguaggio, che comunque continua ad evolversi,
lo fa senza poesia, senza una ricerca profonda dietro i significati.
In un’intervista data poco
prima di morire Sebastiano Vassalli ha detto: “la letteratura, il minimalismo
in letteratura alla fine sono ciò che serve a combattere il nostro mal di
vivere”.
Se amo la poesia è per un
amore legato alla vita, per una rivolta continua contro la morte. Noi siamo in
continua rivolta, diceva Albert Camus, contro una realtà che non ha nessun
significato e la nostra rivolta è dargliene uno, mettere al centro quel grumo
di sangue e sogni che ciascun uomo si porta dentro e che cerca disperatamente
la felicità, e qualche volta l’infinito.
Luca Giordano
Complimenti...profonde parole su cui riflettere. Emanuele Aloisi
RispondiEliminaTrovo di grande interesse l'argomentato suscitato da Luca Giordano. Le cosiddette "comunicazioni di massa" sono mistificatorie e irresponsabili, in quanto prescindono da quell'autenticità che ricondurrebbe inevitabilmente il comunicare nell'alveo da cui sorge: quello interiore. Può esistere comunicazione in assenza di comunione? Evidentemente no, ma in un mondo in cui l'Essere sta uscendo di scena, in un mondo dominato dall'Apparire, la comunicazione si trasferisce inesorabilmente su di un piano tutto superficiale ed esteriore. Ovviamente la responsabilità di questo degrado non ricade sull'Apparire stesso (che ha un indubbio ruolo da svolgere e non deve essere demonizzato), bensì sull'uomo che non è all'altezza morale del progresso raggiunto. Sta qui la necessità implacabile di coltivare un linguaggio diverso e più umano: quello della poesia, che "è sempre una ricerca di qualcosa di più, d'un sentimento più profondo, d'un linguaggio più significativo, è il tentativo di capire sempre di più la vita". Sono pienamente d'accordo e mi complimento vivamente con Luca Giordano. Un solo modestissimo appunto: l'incapacità di comprendere il linguaggio poetico non dipende, a mio parere, dalla sua complessità, bensì, al contrario, dal suo nominare la radice più semplice e profonda della vita, quell'essenza da cui ci siamo allontanati, ma che continua a stare dentro di noi.
RispondiEliminaFranco Campegiani
D'accordo, l'umanità è sempre la stessa, nel senso di un albero che ha le stesse radici, ma la storia complica le cose e così la profondità, la bellezza, vanno cercate con percorsi nuovi che risolvano la complessita del reale. Comunque hai ragione, il linguaggio poetico è dentro di noi, ma il velo di Maya ci rende lo sguardo opaco ...
EliminaIl paradosso di un linguaggio in apparenza onnipotente a confronto con una realtà culturale ed umana sempre più impoverita e falsa. Un tema da meditare:
RispondiElimina“Le dimensioni non aiutano la chiarezza e la fruibilità di queste informazioni. Perché per capire bisogna avere dei riferimenti, avere dei codici che le possano decifrare…Nel tempo in cui maggiore è la possibilità di comunicare, abbiamo difficoltà a capire quello del vediamo, quindi ad esprimerlo, perché mancano i codici di riferimento comuni che permettano uno scambio di informazioni non superficiale….In un tempo di comunicazione visiva il linguaggio si impoverisce, il vocabolario della vita quotidiana è succinto.”
Si parla per luoghi comuni..per intrattenere. E i luoghi comuni sono radicati dentro il linguaggio ne fanno parte, sono nella pigrizia degli standard, dei cliché. Li si riceve dai giornali, dalla televisione, dai media, da internet …e spesso sono espressioni della stupidità. Diceva U. Eco: “…ho una persuasione fondamentale che la stupidità non è un’eccezione che si staglia sul fondo della normalità, ma che la regola è che tutti in qualche misura sono stupidi e poi c’è qualcuno che lo è un po’ meno...” Eppure il linguaggio ha un ruolo importantissimo, se si sviluppa come invenzione creativa. Se non si cerca la verità, si utilizzano per comodità stereotipi, luoghi comuni, che vorrebbero fotografare la realtà, chi salverà la poesia?
“Essa è sempre una ricerca di qualcosa di più, d’un sentimento più profondo, d’un linguaggio più significativo, è il tentativo di capire sempre di più la vita.” …. E allora il linguaggio, che comunque continua ad evolversi, lo fa senza poesia, senza una ricerca profonda del significato.
La comunicazione di massa, filtrata dai mass media e dai mezzi tecnologici mira a impoverire il linguaggio, impoverendolo, rendendolo minimalista. E'paragonabile a una casa modernissima: elegante, semi - vuota , d'acciaio , metallo e mobili costosi disseminati qua e là. Una casa che che induce a chiedere se i proprietari avranno un tavolo per mangiare, uno spazio per intrattenere gli amici, i colori e l'assortimento di giochi da donare ai figli. E spesso, mentre visitiamo queste casa 'inabitate', chirurgiche, corriamo con il pensiero alle vecchie abitazioni dei nonni. Ricche di tutto. Con i divani infeltriti, i cuscini senza forma, le ceste sul pavimento, i camini sempre accesi e le tavole grandi, imbandite per mangiare, per bere bicchieri di bino in compagnia, per discutere, senza il frastuono della televisione, per cantare, ridere, giocare a carte o a scacchi. La fuga illustrata dal nostro Luca Giordano è la rivolta verso una società che ci riduce alla cosiddetta 'comunicazione di massa', che ci inaridisce e ci rende schiavi di codici e di formule. Non si vola più. Si è schiavi del falso dire venduto dai media e delle frasi in codice richieste da facebook e dagli altri strumenti tecnologici. Se Vassalli ha detto che il minimalismo in letteratura serve a combattere 'il mal di vivere' ha bluffato con se stesso, ha avuto paura. D'altronde nel '900 abbiamo avuto esempi di grandi voci poetiche e non solo, fatte tacere dalla 'morale comune'. Alludo in particolare a tre Poeti, Dino Campana, Primo Levi e Pier Paolo Pasolini,che proprio il nostro Luca ha lasciato parlare a voce piena nell'Opera teatrale "Maledetti Poeti". Sono stati i grandi esclusi del secolo precedente al nostro. E quante voci saranno state messe a tacere perchè lontane dal 'paradosso del nuovo linguaggio'? Non voglio saperlo. Voglio credere che la fuga di Luca sia altissimo esempio di libertà creativa, di volontà di non attenersi agli schemi, di porre le basi per un nuovo, insperato Umanesimo! Grazie, Amico mio...
RispondiEliminaMaria Rizzi
Ben tornata Maria! Ritrovo la tua partecipazione viva ricca di emozione e sentimento.
EliminaA ben risentirti
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaMi scuso per le ripetizioni e i refusi: 'impoverendolo' è ripetuto. 'Case inabitabili' dovrebbe essere scritto al plurale....
RispondiEliminaMaria Rizzi
Arrivo tardi, purtroppo, e non credo che questo mio modesto contributo possa alimentare la discussione che si è rivelata molto interessante per l’attualità dell’argomento e per la qualità e la ricchezza degli spunti di riflessione contenuti sia nello scritto di Giordano sia negli interventi che lo corredano. Peccato che il blog manchi di un indice cronologico dei commenti che consentirebbe di riaprire e vivacizzare la discussione.
RispondiEliminaVengo al dunque. Credo che tra gli esseri viventi più capaci di adattarsi a situazioni nuove e sconosciute ci sia l’essere umano. Per stare in argomento, una volta mi stupiva l’abilità dell’uomo di mitridatizzarsi assistendo a scene di violenza e anche di morte trasmesse in diretta dalla televisione. Poi mi sono accorto che è diventata cosa comune abituarsi alla violenza e alla morte, anche quando esse si manifestano dal vivo, a pochi passi da noi. Trascuro qui di elencare i motivi per cui, a mio parere, ciò accade. Dico però che buona parte di questa egoistica indifferenza viene da un vuoto interiore che l’ignoranza non dico provoca, ma ben difende. Qui affonda la radice di tanta disumanità, anche per il colpevole cedimento di due istituzioni fondamentali come la famiglia e la scuola. È la mancanza di una salda e profonda cultura, come elemento identitario della condizione umana, che impedisce all’uomo di vivere degnamente la vita, coltivandone gli aspetti più nobili. E quindi è la mancanza di cultura che vieta di conoscere innanzitutto se stessi, poi i linguaggi; e, infine, di capire e condividere la poesia.
Pasquale Balestriere