Carmelo Consoli, collaboratore di Lèucade |
Il
tempo di Lachea
Era il
tempo di Lachea
dei
miti, degli eroi,
degli
uomini calati tra grazie campestri.
Era
l'Olimpo celeste
sceso
sulle piane, tra i tornanti.
(…)
Mari
infiniti all'orizzonte,
poche
vele
a
contrastare il rosa viola dei tramonti.
Solo
scirocco a refoli,
gabbiani
in volo controvento,
anime
ossute chine alla semina.
Poi
profondissimi silenzi
e un
tempo di indicibile dolcezza.
Sognando
Lachea il titolo di questa silloge che si snoda su un tragitto di amorosi
sensi, di ritorni memoriali e nostalgici a civiltà pure, sane, contadine, a
profumi di terre incorrotte, ad abbracci di fiori e di aranci dormiti a lungo
nell’anima del poeta ed usciti a nuova vita in un poema fresco, amabile,
disteso, polimorfico, e frutto di grande maestria tecnico-emotiva: un mondo
incorrotto, idealizzato, dove l’uomo era uomo, nel bene e nel male, nella gioia
e nel dolore; tutto a dimensione umana,
in un confronto impietoso con l’oggi del consumo, in cui l’umanità si è trovata
intrappolata fra giganti di cemento e
smog micidiali di fabbriche e di costumi; inquinata nello spirito e nell’etica
dell’esistenza e della morte in una corsa verso un precipizio di disvalori;
verso un progresso-regresso che non ha tenuto conto del fatto di esistere. Quattro
i sottotitoli: Il tempo di Lachea, Nel sogno di Icaro, La terra dura,
Ritorno a Lachea, uniti tra loro da un filo conduttore che ne
determina compattezza, organicità, e autenticità poeticamente redditizie:
non certo odore di passatismo ma profumo di gente generosa e rispettosa della
vita e della natura; di gente che nella fatica e nel contatto colla terra trova
motivo di vivere, di amare; quello di apprezzare la bellezza della madre antica,
i suoi doni da guadagnare con processi non sempre favorevoli ma vicini al
sentire dall’alba ai tramonti, dalle sere alle notti di riposi ricamate. Tutti
sogniamo un’isola dove le inquietudini dell’uomo possano trovare un’alcova; un
utopico luogo per sostare. Un’isola dove le aporie del mondo siano solo un
ricordo; dove le aggressioni inquinanti della modernità possano essere
annullate dai ritorni di tramonti su gelsomini lucenti; dove gli uomini possano
convivere pacificamente. Ma esiste tale isola? O è solo frutto della nostra immaginazione. Forse
è proprio la poesia ad avere bisogno di questo stimolo, di questo azzardo verso
le soglie dell’impossibile. Sta lì il cuore del canto. Sta in Lachea il
miraggio di Consoli, ed è là che drizza la sua rotta:
(…)
Dai
limoni calavano mille cantilene,
segreti
chiusi nel ricamo ossuto dei rami,
sepolti
nell'ocra polvere delle piane.
E di
limone era la terra tutta
aspra
e dolce, l'uomo lontano
piegato
tra i solchi fumidi
perso
nello sgomento degli odori,
ignaro
delle trame del tempo e del domani.(I
limoni).
Un’isola a cui, secondo il poeta, si può approdare
con una navigazione non sempre liscia ma che una volta conquistata fa apparire
bello qualsiasi dolore, o qualsiasi fatica nel ricordo di immagini lontane:
(…)
Nella vertigine del cielo
mai ci
sfiorò il pensiero del domani,
di
quanto oggi potessero tremarci le mani,
del
nostro passo malfermo tra le strade,
delle
mille rughe scavate sulla faccia.
Oggi
bruciate le ali di un volo di chimere,
caduti
dal sogno nel grigio dei palazzi
assaporiamo
l'ultimo sole all'angolo di un parco
nell'attesa
della cena, di un amico
nella
solitudine che resta.
(…) (Nel sogno di Icaro).
Una plaquette di forte intensità emotiva dove
stati d’animo, generati da impatti con una realtà non sempre giusta e
accettabile, si addensano in pagine di profonda ispirazione biografico-ontologica.
È da queste pagine che esce la figura sensibile, pulita, impegnata, di un
autore tutto vòlto a dire di sé, del suo mondo, della sua intensa vicenda
esistenziale:
(…)
Tagliavamo
l'estate, ombre
a
cadenza leggera nell'aria fumida
delle
zolle, tra ulivi neri
annodati
nel sole e vigne salmastre,
pietre
di lava e antiche arsure d' acque.
(…) (Agosto a Giarre).
E questa
citazione incipitaria ci permette di penetrare a fondo nel di lui bagaglio vitale;
in un fiume in piena, carico di ciottoli e arbusti che, correndo verso il mare,
ci dicono delle loro scorse frescure, dei loro antichi usi, delle loro
antropomorfiche condivisioni. Lo fanno avvicinandosi sempre più a
quell’immensità che accoglie tutto e tutti e che può rappresentare il nulla
come fine di un percorso terreno, o il tutto di una catartica ascensione che
ognuno di noi contribuisce a rendere polivalente con l’apporto della sua
singolarità:
Ma vi
aspetterà sull'uscio, il vostro caro,
lo
stesso, quello che voi lasciaste
per
andare lassù, chissà dove, in quale cielo.
Per te padre ritornerò tenero
fiore,
abbraccio
forte tra vigne e ulivi.
Per te
dolcissima moglie
sarò
tenera carezza di compagno, (…)
(per voi coglierò il gelsomino).
Mi
piace continuare questo mio scritto con riferimenti a due autori che in qualche
maniera hanno contribuito a universalizzare il tema del viaggio; a farne un
simbolo ricco di umani accostamenti: “Un paese ci vuole, non fosse che per il
gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna
e i falò). «Dove siete diretti?» la domanda
ai viandanti nello Heinrich von
Ofterdingen (1798-1801),
di Novalis. La risposta «Sempre verso casa»:
(…)
Riportarsi
a casa
quei
rari volti di gente dura e gentile
emersi
nel fumigare delle terre,
l'odore
che ha il mughetto, il gelsomino,
i
colori di ginestre, tulipani, mimose
e
farne ampolla preziosa sulla pelle, dentro
i
polmoni mentre si è stretti nel ballo dei semafori,
smarriti
nelle folle delle strade(…) (Migrare
nel silenzio dei campi).
Il viaggio quale odissea, quale
ricerca, quale formazione, quale metafora della vita, quale nostoi. Sì, “Verso
casa” la risposta, forse proprio perché dopo lunghe peripezie alla ricerca di
verità e di sicurezze, ci accorgiamo che è proprio la nostra casa a farsi
simbolo di un’isola alla quale abbiamo sognato di approdare.
(…)
Cantava
la villa Bellini
dai
mille fiori, dagli archi di sole,
urlavamo
noi a squarciagola la gioia
dei
merli, delle tortore in quella terra
di
fragranze, in un cielo calato apposta
per
accendere la villa di sogni e di promesse.(Villa Bellini).
Il fatto sta che l’isola di Consoli equivale alla
rievocazione di un bene perduto. Tornare a quel bene con gli occhi del poi
significa fare poesia; dare armonia ad un’anima in cerca di se stessa, di
quella che era, e di una terra forgiata e arricchita da un sentimento fresco e
attuale; morbido e lucente come gli anni belli di una vita. Sta qui il nocciolo
del poema, in un ritorno immaginario, ma anche concreto se riferito ad una
biografia ri-vissuta, ri-adattata alle esigenze della spontaneità, del canto. È
il
tema del viaggio, dunque, della fuga, dell’azzardo, a fare da leitmotiv a
questa nuova silloge di Carmelo Consoli: partire dall’odeporico messaggio, dall’odisseico
gioco di andate e ritorni, di navigazioni e ambasce, di scoperte e oniriche
visioni, alimenta, con potente metaforicità, la poetica dell’autore; il suo
assalto ad un fortino che racchiude tanti preziosi tesori, tante epigrammatiche
questioni legate ad un vissuto, ad una storia di gioie e dolori, di sogni e
progetti, di illusioni e delusioni, di amori e sottrazioni. Un viaggio che volge
la direzione verso la luce:
(…)
Andrò
a riprendermi la mia favola di luce.
E già
vedo il cielo azzurro e il mare cristallino
lo
scorgo in lontananza. (Lo scirocco
del sud),
verso
una realtà che si è fatta immagine di tanti momenti di una storia. Ripescare
stagioni, che dettero diversi colori ai panorami interiori, significa
allungarla, anche, questa vicenda; darle quella substantia che si fa alimento e
fertile terriccio per nuove fioriture di poesia. Il tema omerico è stato
affrontato più volte nelle letterature di ogni tempo e di ogni dove, anche
perché meglio di ogni altro sta a significare il bisogno dell’uomo di uscire,
in qualche modo, dallo spazio ristretto in cui è relegato; da una società che
non sente più sua; da una vita falsificata da imbrogli, contaminazioni
malefiche, ingiustizie, disvalori, per un animo che conserva l’azzurrità, la
felicità piccola dell’età dell’oro, di un tibulliano “hoc mihi contingat”:
(…)
E intanto venivano su palazzi
e capannoni come funghi
e fiori dai cannoni,
figli noi d'un tempo che
usciva dalla guerra
e scivolava nella favola dolce
dei mitici anni.
Tutti noi nell'azzurro dei
vent'anni.
Tutti noi a giurare che quella
era la vita giusta da vivere,
a sentirsi
immortali nella felicità
piccola dei giorni (I mitici anni).
Ed è
il motivo per cui questo “poema” si fa oggettivamente significante, fortemente
rappresentativo di una necessità universale; ed è da quando l’uomo ha iniziato
la sua peripezia terrena che ha sentito forte il bisogno di elevarsi dalla
condizione di “bruto”. L’autore, preso
da questo travaglio ontologico, da questo abbrivo confessionale, si lascia
trasportare da un richiamo di sano e redditizio
pathos lirico, senza mai cadere in sentimentalismi di bassa lega ma controllando
il tutto con argini verbali, con una versificazione robusta e esperita, con
vertigini creative fattrici di solida icasticità. Tanto che la filosofia che
permea il tutto si distende indirettamente, simbolicamente, su un tessuto di
velluto trapunto di ricami preziosi; su un dipanarsi di intrecci di fattiva
verbalità; su un morbido e catartico spartito le cui note, inanellate da
sinestetici legami, da accordi di
euritmica sonorità, concretizzano ricuperi memoriali, frammenti esistenziali, o
cospirazioni emotive in albe, in lunati silenzi, in bianchi sentieri, in fumide
campagne, in filanti comete. Toccare questi input, questi stati emozionali,
questi spunti da consuntivo, da redde rationem, non significa altro che prendere
a braccetto l’anima del poeta, il suo canto animato dai tanti interrogativi, dai
tanti perché, dalle tante questioni irrisolte e irrisolvibili sul fatto di
esistere, per accompagnarla ad ancoraggi di terre riposanti per novelli Ulissi:
(…)
Oggi
ritorno a te Lachea.
Porto
la mia odissea, il peso degli anni
sulle
spalle, freddi inverni nelle tasche,
anonime
città nel cuore.
Vengo
da fabbriche lontane,
da
terre di odi e indifferenze.
Giungo
dalla solitudine degli uomini
nel
disincanto d'una vita di palazzi.
Io non sono l'Ulisse che aspettavi
intrecciano
nell'attesa filanti comete,
non ho
arco né frecce da scoccare
e
porto il sogno svanito di me stesso,
sconfitto
guerriero tra capannoni e metrò.
(…)
(Ritorno a Lachea).
Grandi gli spazi, infiniti gli orizzonti verso
cui azzardiamo voli a rischio di sperdimenti; illimitati i confini di mari
verso cui indirizziamo forze intellettivo-oracolari, con la speranza di
ricavarne messaggi. D’altronde è umano, fortemente umano, cercare di superare i
limiti; azzardare slanci oltre la siepe; cercare di intaccare quel limen che
demarca la terrenità dalla spiritualità.
Sta in questo polemos tra gli opposti eracliteo, in questo sfronto tra rien e
tout di memoria pascaliana, il taedium vitae, lo scandalo delle contraddizioni;
e sta nella simbiotica fusione di questi poli la coscienza di esser-ci, della
nostra precarietà, del nostro umile soggiorno di fronte alla plurivocità del
tutto:
(…)
La verità
Mario
è che
mi sono mancati troppo presto
i tuoi
sorrisi, le tue dita tra i capelli,
le tue
risposte ai perché dei dolori,della morte.
E non sai poi quante croci ho
sopportato,
quante
persone e cieli interrogato
per
questo stare in un calvario di giorni,
città
grigie, smarriti i tornanti
del
nostro andare lieve e luminoso,
persi
il nitore degli orizzonti tra i cementi,
i
progetti futuri finiti nel macero dei sogni.
(…)
(Nell’ora rosata dei tramonti)
In un
confronto scontato fra il bello di un’Itaca promessa e un mare di asfalti e di cementi,
il poeta ri-torna alla sua isola senza archi né frecce e con il sogno smarrito
di se stesso:
(…)
Io non
sono l'Ulisse che aspettavi
intrecciano
nell'attesa filanti comete,
non ho
arco né frecce da scoccare
e
porto il sogno svanito di me stesso,
sconfitto
guerriero tra capannoni e metrò.
Tu non
sei l'Itaca promessa che lasciai
quando
i cieli erano a un palmo dalla testa,
gli
amici due e infiniti i giardini di limoni,
gelsomini,
tre le case sulla piana.
(…) (Ritorno a Lachea).
Dare
uno sguardo alla vita tanto eguale ad una navigazione fatta di scogli, bonacce,
bufere, e speranze; ad un percorso la cui rotta è in mano ad un mare dal porto
indecifrabile; ad un faro che ne illumina solo una striscia spersa in un
disumano buiore, può creare saudade, inquietudini, weltschmerz; voglie di fuga,
anche, alla ricerca di quella luce che frange le onde. Questo è il pathos che
imprime focus ed energia alla silloge; ad
una versificazione che cristallizza intenzioni emotive, umane prove di
avventura e immaginazione; resoconti zeppi di clessidre divoratrici di orme
labili su sabbie fragili. Anche se è la realtà, il riferimento al suo
avvicendarsi, ad avere buon gioco nel cuore delle vicende; anche se si tratta
della attualizzazione di un mito, delle intrusioni di un mitopoieta a fare da
supporto alla costruzione dell’impianto versificatorio; è pur sempre da una
rielaborazione fantasiosa che il poeta trae la linfa del suo dire; ed è con
questa linfa che cerca di dare un senso al tanto problematico e complicato gioco
del vivere. Questo, tutto questo nella storia plurima di un poeta che dalle
vicissitudini personali riesce ad elevarsi al di sopra dell’io; o meglio che
riesce ad impiegare la fantasia per potenziare la realtà, come afferma egli
stesso: “Una rielaborazione
fantasiosa, parzialmente in chiave autobiografica, dell'omerica odissea,
alla luce dell'avventura esistenziale dell'uomo moderno, dei suoi
travagli, delle sue migrazioni”:
(…)
Poco m'importa se tutti ballano da soli
dentro scatole quadrate e
macchie di latta.
Io evado da posti macchina e
condomini,
ritrovo neri muretti di lava,
capperi, limoni
la parola una e sacra degli amici,
azzurrità infinite in cui
smarrirsi e rinascere
Nazario
Pardini 13/12/2016
Complimenti, si assaporano colori e odori su una tela di parole. Non posso aggiungere altro, dopo una critica d'Arte. Emanuele Aloisi
RispondiEliminaCarmelo Consoli è poeta di grande liricità che sa forgiare la parola poetica tenendosi stretto alla società che lo circonda e che vive appieno. La realtà e la modernità dei versi richiamano all'emozione del vivere comune, ad un viaggio, che come benissimo dice il Prof. Pardini, è dare uno sguardo alla vita, tanto eguale ad una navigazione fatta di scogli, bonacce, bufere, e speranze. Lachea, isola così vicina alla sua Catania, forse rappresenta il ritorno alla origini con la consapevolezza di tutto il proprio vissuto.
RispondiEliminaCon stima, Patrizia Stefanelli
Bene ha fatto Nazario a richiamare in prefazione ampi lacerti poetici di "Sognando Lachea". Questi, infatti, oltre a supportare e confermare l'argomentazione pardiniana, offrono al lettore un saggio dell'indiscussa bravura poetica dell'amico Carmelo Consoli. Al quale faccio i miei complimenti.
RispondiEliminaPasquale Balestriere