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sabato 21 gennaio 2017

N. PARDINI: PREFAZIONE A "SOGNANDO LACHEA" DI CARMELO CONSOLI

Carmelo Consoli,
collaboratore di Lèucade




Il tempo di Lachea

Era il tempo di Lachea
dei miti, degli eroi,
degli uomini calati tra grazie campestri.
Era l'Olimpo celeste
sceso sulle piane, tra i tornanti.
(…)
Mari infiniti all'orizzonte,
poche vele
a contrastare il rosa viola dei tramonti.
Solo scirocco a refoli,
gabbiani in volo controvento,
anime ossute chine alla semina.
Poi profondissimi silenzi
e un tempo di indicibile dolcezza.


Sognando Lachea il titolo di questa silloge che si snoda su un tragitto di amorosi sensi, di ritorni memoriali e nostalgici a civiltà pure, sane, contadine, a profumi di terre incorrotte, ad abbracci di fiori e di aranci dormiti a lungo nell’anima del poeta ed usciti a nuova vita in un poema fresco, amabile, disteso, polimorfico, e frutto di grande maestria tecnico-emotiva: un mondo incorrotto, idealizzato, dove l’uomo era uomo, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore;  tutto a dimensione umana, in un confronto impietoso con l’oggi del consumo, in cui l’umanità si è trovata intrappolata fra giganti di cemento  e smog micidiali di fabbriche e di costumi; inquinata nello spirito e nell’etica dell’esistenza e della morte in una corsa verso un precipizio di disvalori; verso un progresso-regresso che non ha tenuto conto del fatto di esistere. Quattro i sottotitoli: Il tempo di Lachea, Nel sogno di Icaro, La terra dura, Ritorno a Lachea, uniti tra loro da un filo conduttore che ne determina compattezza, organicità, e autenticità poeticamente redditizie: non certo odore di passatismo ma profumo di gente generosa e rispettosa della vita e della natura; di gente che nella fatica e nel contatto colla terra trova motivo di vivere, di amare; quello di apprezzare la bellezza della madre antica, i suoi doni da guadagnare con processi non sempre favorevoli ma vicini al sentire dall’alba ai tramonti, dalle sere alle notti di riposi ricamate. Tutti sogniamo un’isola dove le inquietudini dell’uomo possano trovare un’alcova; un utopico luogo per sostare. Un’isola dove le aporie del mondo siano solo un ricordo; dove le aggressioni inquinanti della modernità possano essere annullate dai ritorni di tramonti su gelsomini lucenti; dove gli uomini possano convivere pacificamente. Ma esiste tale isola? O  è solo frutto della nostra immaginazione. Forse è proprio la poesia ad avere bisogno di questo stimolo, di questo azzardo verso le soglie dell’impossibile. Sta lì il cuore del canto. Sta in Lachea il miraggio di Consoli, ed è là che drizza la sua rotta:

(…)
Dai limoni calavano mille cantilene,
segreti chiusi nel ricamo ossuto dei rami,
sepolti nell'ocra polvere delle piane.
E di limone era la terra tutta
aspra e dolce, l'uomo lontano
piegato tra i solchi fumidi
perso nello sgomento degli odori,
ignaro delle trame del tempo e del domani.(I limoni).

Un’isola a cui, secondo il poeta, si può approdare con una navigazione non sempre liscia ma che una volta conquistata fa apparire bello qualsiasi dolore, o qualsiasi fatica nel ricordo di immagini lontane:

(…)
             Nella vertigine del cielo
mai ci sfiorò il pensiero del domani,
di quanto oggi potessero tremarci le mani,
del nostro passo malfermo tra le strade,
delle mille rughe scavate sulla faccia.
Oggi bruciate le ali di un volo di chimere,
caduti dal sogno nel grigio dei palazzi
assaporiamo l'ultimo sole all'angolo di un parco
nell'attesa della cena, di un amico
nella solitudine che resta.
(…) (Nel sogno di Icaro).

 Una plaquette di forte intensità emotiva dove stati d’animo, generati da impatti con una realtà non sempre giusta e accettabile, si addensano in pagine di profonda ispirazione biografico-ontologica. È da queste pagine che esce la figura sensibile, pulita, impegnata, di un autore tutto vòlto a dire di sé, del suo mondo, della sua intensa vicenda esistenziale:

(…)
Tagliavamo l'estate, ombre
a cadenza leggera nell'aria fumida
delle zolle, tra ulivi neri
annodati nel sole e vigne salmastre,
pietre di lava e antiche arsure d' acque.
(…) (Agosto a Giarre).

E questa citazione incipitaria ci permette di penetrare a fondo nel di lui bagaglio vitale; in un fiume in piena, carico di ciottoli e arbusti che, correndo verso il mare, ci dicono delle loro scorse frescure, dei loro antichi usi, delle loro antropomorfiche condivisioni. Lo fanno avvicinandosi sempre più a quell’immensità che accoglie tutto e tutti e che può rappresentare il nulla come fine di un percorso terreno, o il tutto di una catartica ascensione che ognuno di noi contribuisce a rendere polivalente con l’apporto della sua singolarità:

Ma vi aspetterà sull'uscio, il vostro caro,
lo stesso, quello che voi lasciaste
per andare lassù, chissà dove, in quale cielo.
              Per te padre ritornerò tenero fiore,
abbraccio forte tra vigne e ulivi.
Per te dolcissima moglie
sarò tenera carezza di compagno, (…) (per voi coglierò il gelsomino).

Mi piace continuare questo mio scritto con riferimenti a due autori che in qualche maniera hanno contribuito a universalizzare il tema del viaggio; a farne un simbolo ricco di umani accostamenti: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. (Pavese, La luna e i falò). «Dove siete diretti?» la domanda ai viandanti nello Heinrich von Ofterdingen (1798-1801), di Novalis. La risposta «Sempre verso casa»:

(…)
Riportarsi a casa
quei rari volti di gente dura e gentile
emersi nel fumigare delle terre,
l'odore che ha il mughetto, il gelsomino,
i colori di ginestre, tulipani, mimose
e farne ampolla preziosa sulla pelle, dentro
i polmoni mentre si è stretti nel ballo dei semafori,
smarriti nelle folle delle strade(…) (Migrare nel silenzio dei campi).

Il viaggio quale odissea, quale ricerca, quale formazione, quale metafora della vita, quale nostoi. Sì, “Verso casa” la risposta, forse proprio perché dopo lunghe peripezie alla ricerca di verità e di sicurezze, ci accorgiamo che è proprio la nostra casa a farsi simbolo di un’isola alla quale abbiamo sognato di approdare.

(…)
Cantava la villa Bellini
dai mille fiori, dagli archi di sole,
urlavamo noi a squarciagola la gioia
dei merli, delle tortore in quella terra
di fragranze, in un cielo calato apposta
per accendere la villa di sogni e di promesse.(Villa Bellini).

Il fatto sta che l’isola di Consoli equivale alla rievocazione di un bene perduto. Tornare a quel bene con gli occhi del poi significa fare poesia; dare armonia ad un’anima in cerca di se stessa, di quella che era, e di una terra forgiata e arricchita da un sentimento fresco e attuale; morbido e lucente come gli anni belli di una vita. Sta qui il nocciolo del poema, in un ritorno immaginario, ma anche concreto se riferito ad una biografia ri-vissuta, ri-adattata alle esigenze della spontaneità, del canto. È il tema del viaggio, dunque, della fuga, dell’azzardo, a fare da leitmotiv a questa nuova silloge di Carmelo Consoli: partire dall’odeporico messaggio, dall’odisseico gioco di andate e ritorni, di navigazioni e ambasce, di scoperte e oniriche visioni, alimenta, con potente metaforicità, la poetica dell’autore; il suo assalto ad un fortino che racchiude tanti preziosi tesori, tante epigrammatiche questioni legate ad un vissuto, ad una storia di gioie e dolori, di sogni e progetti, di illusioni e delusioni, di amori e sottrazioni. Un viaggio che volge la direzione verso la luce:

(…)
Andrò a riprendermi la mia favola di luce.
E già vedo il cielo azzurro e il mare cristallino
lo scorgo in lontananza. (Lo scirocco del sud),

verso una realtà che si è fatta immagine di tanti momenti di una storia. Ripescare stagioni, che dettero diversi colori ai panorami interiori, significa allungarla, anche, questa vicenda; darle quella substantia che si fa alimento e fertile terriccio per nuove fioriture di poesia. Il tema omerico è stato affrontato più volte nelle letterature di ogni tempo e di ogni dove, anche perché meglio di ogni altro sta a significare il bisogno dell’uomo di uscire, in qualche modo, dallo spazio ristretto in cui è relegato; da una società che non sente più sua; da una vita falsificata da imbrogli, contaminazioni malefiche, ingiustizie, disvalori, per un animo che conserva l’azzurrità, la felicità piccola dell’età dell’oro, di un tibulliano “hoc mihi contingat”:

(…)
E intanto venivano su palazzi
e capannoni come funghi
e fiori dai cannoni,
figli noi d'un tempo che usciva dalla guerra
e scivolava nella favola dolce
dei mitici anni.
Tutti noi nell'azzurro dei vent'anni.
Tutti noi a giurare che quella
era la vita giusta da vivere, a sentirsi
immortali nella felicità piccola dei giorni (I mitici anni).

Ed è il motivo per cui questo “poema” si fa oggettivamente significante, fortemente rappresentativo di una necessità universale; ed è da quando l’uomo ha iniziato la sua peripezia terrena che ha sentito forte il bisogno di elevarsi dalla condizione di “bruto”.  L’autore, preso da questo travaglio ontologico, da questo abbrivo confessionale, si lascia trasportare  da un richiamo di sano e redditizio pathos lirico, senza mai cadere in sentimentalismi di bassa lega ma controllando il tutto con argini verbali, con una versificazione robusta e esperita, con vertigini creative fattrici di solida icasticità. Tanto che la filosofia che permea il tutto si distende indirettamente, simbolicamente, su un tessuto di velluto trapunto di ricami preziosi; su un dipanarsi di intrecci di fattiva verbalità; su un morbido e catartico spartito le cui note, inanellate da sinestetici  legami, da accordi di euritmica sonorità, concretizzano ricuperi memoriali, frammenti esistenziali, o cospirazioni emotive in albe, in lunati silenzi, in bianchi sentieri, in fumide campagne, in filanti comete. Toccare questi input, questi stati emozionali, questi spunti da consuntivo, da redde rationem, non significa altro che prendere a braccetto l’anima del poeta, il suo canto animato dai tanti interrogativi, dai tanti perché, dalle tante questioni irrisolte e irrisolvibili sul fatto di esistere, per accompagnarla ad ancoraggi di terre riposanti per novelli Ulissi:

(…)
Oggi ritorno a te Lachea.
Porto la mia odissea, il peso degli anni
sulle spalle, freddi inverni nelle tasche,
anonime città nel cuore.
Vengo da fabbriche lontane,
da terre di odi e indifferenze.
Giungo dalla solitudine degli uomini
nel disincanto d'una vita di palazzi.

        Io non sono l'Ulisse che aspettavi
intrecciano nell'attesa filanti comete,
non ho arco né frecce da scoccare
e porto il sogno svanito di me stesso,
sconfitto guerriero tra capannoni e metrò.
(…) (Ritorno a Lachea).

 Grandi gli spazi, infiniti gli orizzonti verso cui azzardiamo voli a rischio di sperdimenti; illimitati i confini di mari verso cui indirizziamo forze intellettivo-oracolari, con la speranza di ricavarne messaggi. D’altronde è umano, fortemente umano, cercare di superare i limiti; azzardare slanci oltre la siepe; cercare di intaccare quel limen che demarca la terrenità dalla  spiritualità. Sta in questo polemos tra gli opposti eracliteo, in questo sfronto tra rien e tout di memoria pascaliana, il taedium vitae, lo scandalo delle contraddizioni; e sta nella simbiotica fusione di questi poli la coscienza di esser-ci, della nostra precarietà, del nostro umile soggiorno di fronte alla plurivocità del tutto:

(…)
La verità Mario
è che mi sono mancati troppo presto
i tuoi sorrisi, le tue dita tra i capelli,
le tue risposte ai perché dei dolori,della morte.
          E non sai poi quante croci ho sopportato,
quante persone e cieli interrogato
per questo stare in un calvario di giorni,
città grigie, smarriti i tornanti
del nostro andare lieve e luminoso,
persi il nitore degli orizzonti tra i cementi,
i progetti futuri finiti nel macero dei sogni.
(…) (Nell’ora rosata dei tramonti)

In un confronto scontato fra il bello di un’Itaca promessa e un mare di asfalti e di cementi, il poeta ri-torna alla sua isola senza archi né frecce e con il sogno smarrito di se stesso:

(…)       
Io non sono l'Ulisse che aspettavi
intrecciano nell'attesa filanti comete,
non ho arco né frecce da scoccare
e porto il sogno svanito di me stesso,
sconfitto guerriero tra capannoni e metrò.
Tu non sei l'Itaca promessa che lasciai
quando i cieli erano a un palmo dalla testa,
gli amici due e infiniti i giardini di limoni,
gelsomini, tre le case sulla piana.
(…) (Ritorno a Lachea).

Dare uno sguardo alla vita tanto eguale ad una navigazione fatta di scogli, bonacce, bufere, e speranze; ad un percorso la cui rotta è in mano ad un mare dal porto indecifrabile; ad un faro che ne illumina solo una striscia spersa in un disumano buiore, può creare saudade, inquietudini, weltschmerz; voglie di fuga, anche, alla ricerca di quella luce che frange le onde. Questo è il pathos che imprime focus ed energia alla  silloge; ad una versificazione che cristallizza intenzioni emotive, umane prove di avventura e immaginazione; resoconti zeppi di clessidre divoratrici di orme labili su sabbie fragili. Anche se è la realtà, il riferimento al suo avvicendarsi, ad avere buon gioco nel cuore delle vicende; anche se si tratta della attualizzazione di un mito, delle intrusioni di un mitopoieta a fare da supporto alla costruzione dell’impianto versificatorio; è pur sempre da una rielaborazione fantasiosa che il poeta trae la linfa del suo dire; ed è con questa linfa che cerca di dare un senso al tanto problematico e complicato gioco del vivere. Questo, tutto questo nella storia plurima di un poeta che dalle vicissitudini personali riesce ad elevarsi al di sopra dell’io; o meglio che riesce ad impiegare la fantasia per potenziare la realtà, come afferma egli stesso: “Una rielaborazione fantasiosa, parzialmente in chiave autobiografica, dell'omerica odissea,  alla luce dell'avventura esistenziale dell'uomo moderno, dei suoi travagli, delle sue migrazioni”:

(…)  
 Poco m'importa se tutti ballano da soli
dentro scatole quadrate e macchie di latta.
Io evado da posti macchina e condomini,
ritrovo neri muretti di lava, capperi, limoni
la parola una e sacra degli amici,
azzurrità infinite in cui smarrirsi e rinascere


Nazario Pardini 13/12/2016





3 commenti:

  1. Complimenti, si assaporano colori e odori su una tela di parole. Non posso aggiungere altro, dopo una critica d'Arte. Emanuele Aloisi

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  2. Carmelo Consoli è poeta di grande liricità che sa forgiare la parola poetica tenendosi stretto alla società che lo circonda e che vive appieno. La realtà e la modernità dei versi richiamano all'emozione del vivere comune, ad un viaggio, che come benissimo dice il Prof. Pardini, è dare uno sguardo alla vita, tanto eguale ad una navigazione fatta di scogli, bonacce, bufere, e speranze. Lachea, isola così vicina alla sua Catania, forse rappresenta il ritorno alla origini con la consapevolezza di tutto il proprio vissuto.
    Con stima, Patrizia Stefanelli

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  3. Bene ha fatto Nazario a richiamare in prefazione ampi lacerti poetici di "Sognando Lachea". Questi, infatti, oltre a supportare e confermare l'argomentazione pardiniana, offrono al lettore un saggio dell'indiscussa bravura poetica dell'amico Carmelo Consoli. Al quale faccio i miei complimenti.
    Pasquale Balestriere

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